Il Concilio Vaticano II veniva aperto l'11 ottobre 1962, ed è proprio l'11 ottobre la data scelta per celebrare la festa di San Giovanni XXIII, che quel Concilio lo convocò. Cinquanta anni dopo, l'11 ottobre 2012, Benedetto XVI guardò, come il suo predecessore, una fiaccolata arrivare fino in piazza San Pietro. Come il suo predecessore, fece il suo discorso alla luna. Ma era un discorso diverso, pieno di amarezza, e che pure portava alcuni temi di quel pontificato. Era un discorso che, tra l'altro, iniziava l'Anno della Fede, l'ultimo grande atto del suo pontificato, il segno delle priorità del Papa emerito.Nel 2017, per i 90 anni di Benedetto XVI, costruì intorno a quel discorso il mio personale omaggio al Papa emerito, cercando di raccontarne il pensiero, e ci coglierlo proprio a partire da quel discorso alla luna. Lo pubblicai in inglese, sul mio blog MondayVatican.com, e lo ripropongo oggi in italiano. Perché, anche in un testo di quattro anni fa, c'è moltissimo di attuale.
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Omaggio a Benedetto XVI, incompreso profeta dei nostri tempi
da Mondayvatican.com, 17 aprile 2017
“Aprile
è il più crudele dei mesi”, sottolineava Eliot nel suo poema “The
Wasteland”. E forse non c’è nessuno che lo abbia compreso più di Benedetto XVI,
nato in un Sabato Santo di metà aprile, battezzato nello stesso giorno, e che in una domenica di Pasqua ha compiuto
il suo 90esimo compleanno, il quarto da quando si è ritirato sul monte.
Un mese crudele, aprile, perché – spiega Christopher Altieri, general manager di
Vocaris Media – “si parla spesso di primavera, ma la primavera rappresenta
uno sforzo incredibile: tutto quel polline che viene sprigionato, e del quale
solo una parte arriverà alla fioritura; lo sforzo
di un risveglio che deve portare all’estate. La primavera è bella, ma anche
profondamente dolorosa”.
Benedetto
XVI
ha vissuto in questa primavera, bella e dolorosa ad un tempo. E la primavera,
per lui, nella storia della Chiesa, è stato il Concilio Vaticano II. “Un giorno bellissimo”, ha definito
recentemente il primo giorno di Concilio, con una perifrasi che però si
estendeva a tutta la durata dell’assise. Eppure, fu una giornata anche
dolorosa.
Da quando Benedetto
XVI è salito sul monte ad intercedere per la Chiesa, forse però si è
dimenticata anche l’amarezza di cui aveva parlato del Concilio Vaticano II. Di
quella necessità che sentì forte, sin dal primo discorso alla Curia Romana nel
Natale 2005, di spiegare che no, il Concilio
non era una primavera distruttrice, ma una primavera chiamata a dare frutti.
Un rinnovamento nella continuità, come si rinnova ogni anno la natura a
primavera, e non un organismo geneticamente modificato della fede. Alla fine
del Pontificato, nell’ultimo incontro con il clero di Roma, Benedetto XVI ha
poi voluto sottolineare di nuovo il concetto, come se fosse questo un filo
conduttore di tutto il suo Pontificato.
C’era – ha detto – un Concilio dei media e un Concilio reale. E il Concilio
dei media aveva purtroppo preso il sopravvento del Concilio reale.
Ma che l’esperienza del Concilio fosse stata in qualche modo
dirimente era testimoniato anche dal breve discorso a braccio che tenne in
occasione della fiaccolata che festeggiava il cinquantesimo anniversario del
Concilio Vaticano II. Era l’11 ottobre
2012. Affacciandosi come Giovanni XXIII a salutare la folla, cinquanta anni
dopo Benedetto XVI portava con sé tutto il senso di un mondo che era cambiato,
e dell’aspettativa tradita.
“Eravamo felici – direi – e pieni di entusiasmo. Il grande Concilio Ecumenico era inaugurato;
eravamo sicuri che doveva venire una nuova primavera della Chiesa, una
nuova Pentecoste, con una nuova presenza forte della grazia liberatrice del
Vangelo”.
Ma – aggiungeva Benedetto – “anche oggi siamo felici, portiamo gioia nel nostro cuore, ma direi una
gioia forse più sobria, una gioia umile. In questi cinquant’anni abbiamo
imparato ed esperito che
il peccato originale esiste e si traduce, sempre di nuovo, in peccati
personali, che possono anche divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che
nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania. Abbiamo visto che nella
rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi. Abbiamo visto che la fragilità
umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando
anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave e qualche volta
abbiamo pensato: «il Signore dorme e ci ha dimenticato”.
In quel prendere
coscienza della presenza del peccato, c’è tutta la buona fede di un professore
pieno di fede, che ha imparato a sue spese che non tutto quello che viene
fatto è per la maggior gloria di Dio. Ma che ha anche visto consolidarsi in
lui, passo dopo passo, la certezza che solo tenendo lo sguardo fondato a
Cristo, solo con la preghiera costante, si poteva andare oltre questo peccato.
“Non ho altro programma di governo che
quello di lasciarmi guidare da Lui”, disse all’inizio del Pontificato.
Non si può riassumere
in poche righe la straordinaria eredità lasciata da un maestro del pensiero.
Ma si può provare a dare uno sguardo d’insieme. Il pensiero di Benedetto XVI è
costruito come una delle grandi cattedrali del Medioevo, un vero e proprio
itinerario della mente verso Dio. Si
legge Benedetto XVI, e si pensa al Duomo di Milano, ai mille anni della
Cattedrale di Strasburgo, a Notre Dame de Paris o alla Cattedrale di Colonia,
ma anche alla Sagrada Familia che lui stesso inaugurò. Tutte costruzioni
razionalissime, che spiegavano in modo razionale e preciso la presenza di Dio e
allo stesso tempo invitavano alla preghiera.
Perché per Benedetto
XVI non ci sono dubbi: credere significa cercare la verità. E la verità non si
può possedere, si deve cercare. Continuamente, e senza malafede. È un
progetto ambizioso, per uomini puri, paragonabile forse solo al grande
rinnovamento spirituale di San Gregorio Magno. Se una persona crede, tutto viene
di conseguenza.
Così, il grande
magistero di Benedetto XVI diventa in fondo un grido di dolore per un mondo che
ha perso la fede. Ne “I Nuovi Pagani
e la Chiesa” Benedetto XVI parla di cristiani che pensano di vivere come
cristiani, ma in realtà sono pagani. Lo ha scoperto confessando. È un libro
degli anni Cinquanta. Oggi, dopo che il nichilismo pratico è entrato nelle vite
dei cristiani, ci si rende conto che il tema è drammaticamente attuale.
Quelle di Benedetto
XVI non sono le sfide pratiche. La sua Chiesa deve, sì, essere una Chiesa
impegnata nel sociale, nell’aiuto ai poveri, nella cura degli ultimi. Ma questa
è solo una conseguenza della fede. Benedetto
XVI lancia una provocazione al mondo, che è prima di tutto una provocazione ai
cristiani: si deve smettere – chiede – di vivere come se Dio non ci fosse.
Il modello è quello
dei monaci del Medioevo, e – non per coincidenza – quel Benedetto di cui
lui porta il nome. Monaci il cui primo impegno era quello di quaerere Deum, cercare Dio, come ha definito
nel suo monumentale discorso al College
de Bernardins.
E l’obiettivo è
quella di una Chiesa meno legata alle opere, perché più libera di credere in
Dio, come spiega bene nei suoi discorsi in Germania, di fronte a un clero
tedesco che lui conosce bene, ricchissimo a causa della tassa della Chiesa, ma
poverissimo di vocazioni e persino di fedeli praticanti, come testimoniano
anche gli ultimi, recentissimi dati.
Per Benedetto XVI,
non ci può essere dialogo senza la comune ricerca della verità. Più volte grida
che “atei, a causa della ricerca di Dio, passano avanti ai cristiani nel Regno
dei Cieli”. È l’invito a non dare la fede per scontata, un altro dramma del
nostro tempo.
Quanto
la fede non sia scontata diventa evidente quando Benedetto XVI deve affrontare
lo scandalo della pedofilia del clero, un caso mondiale che arriva sulla Chiesa
come uno schiaffo in faccia.
Così, nella lettera alla Chiesa d’Irlanda nel
2010, insieme alle scuse c’è una lucidissima lettura del dopo Concilio: “Il programma di rinnovamento proposto dal Concilio Vaticano Secondo fu a volte
frainteso e in verità, alla luce dei profondi cambiamenti sociali che si
stavano verificando, era tutt’altro che facile valutare il modo migliore per
portarlo avanti. In particolare, vi fu una tendenza, dettata da retta
intenzione ma errata, ad evitare
approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari. È in
questo contesto generale che dobbiamo cercare di comprendere lo sconcertante
problema dell’abuso sessuale dei ragazzi, che ha contribuito in misura
tutt’altro che piccola all’indebolimento della fede e alla perdita del rispetto
per la Chiesa e per i suoi insegnamenti”.
Guardare a Dio significa anche avere coscienza
della propria limitatezza, del proprio peccato.
Sono
questi i grandi temi di Benedetto XVI,
che rendono secondaria anche una valutazione sul suo governo. Tutto, in
realtà, fa parte di questa ricerca della verità verso cui tutti devono tendere.
Essere cristiani è la vera vita.
Da qui, la perfetta linearità del Pontificato di
Benedetto XVI, anche nelle decisioni di governo: dalla liberalizzazione del Messale di San Pio V alla riforma della
trasparenza finanziaria; dallo stabilimento del dicastero per la promozione
della Nuova Evangelizzazione alla sua decisione di riformare l’accesso ai
seminari; dallo sforzo di purificare la Chiesa dagli scandali fino allo sforzo
nel dialogo ecumenico; dai nuovi Statuti di Caritas Internatioanlis alla riforma del Codice Penale dello Stato di Città del
Vaticano, iniziato da Benedetto XVI e firmato da Francesco; e poi, la
diplomazia, caratterizzata anche quella dal tema della verità, senza la quale
non c’è dialogo.
E questa
verità ha portato frutti. Un esempio su
tutti: il discorso di Regensburg, che pure creò tante turbolenze, fu il
solo che poté raccogliere un nugolo di leader islamici motivati a dare una
nuova interpretazione dell’Islam, e a risolvere quello che padre Samir Khalil
Samir descrive senza mezzi termini una delle più grandi crisi all’interno
dell’Islam. Ne è nata una lettera firmata da 138 personalità islamiche e un
forum di dialogo di cui si possono cominciare oggi a vedere i frutti, anche nel
momento in cui Papa Francesco può riprendere i rapporti con il mondo di al
Azhar.
Quella portata avanti da Benedetto XVI è stata una
riforma silenziosa, con un preciso modo di pensare e con l’obiettivo di creare
unità nella Chiesa a partire
da una collegialità basata sulla comune fede in Dio. Benedetto XVI è in fondo
cosciente che solo la verità e la fede fanno degli uomini di Chiesa esempi
capaci di attrarre al cattolicesimo. Esempi di gioia, perché la fede porta la
gioia: questo il Papa emerito non si è mai stancato di ripetere.
Sta in tutto questo l’eredità di Benedetto XVI. Una eredità che oggi rappresenta le migliori
basi per rispondere alle sfide proposte dal mondo. Il pensiero protestante non
avrebbe fascino, se la fede non fosse considerata un qualcosa di pratico, ma
parte della vita. Il gender non sarebbe una opzione, se l’uomo si considerasse
come parte del creato e davvero figlio di Gesù Cristo. L’Europa non sarebbe in crisi, se i movimenti razionalisti e
illuministi non l’avessero distolta dalla ricerca di Dio. E oggi non ci
sarebbe un movimento di pensiero che fa credere che meno religione crea meno
violenza, perché tutti sarebbero consapevoli del contrario. E nessuno sarebbe
impaurito dal difendere i bambini concepiti rinnegando l’aborto, perché non ci
sarebbero università cattoliche come quella di Lovanio pronte a cacciare chi
dice queste verità in nome del politicamente corretto.
Detto così, sembra semplice. Non lo è. Ci vuole fede,
lucidità di pensiero, amore per Dio e per il prossimo. Scriveva Joseph Ratzinger in “Teologia della Liberazione ed altre
sfide” che “la mente umana sembra più abile ad
escogitare nuovi mezzi di distruzione, invece che nuove strade per la vita. È più ingegnosa nel far arrivare in ogni angolo del
mondo le armi per la guerra, piuttosto che nel portarvi il pane. Perché accade
tutto questo? Perché le nostre anime sono malnutrite, i nostri cuori sono
accecati ed induriti. Il mondo è nel disordine perché i nostri cuori sono nel
disordine, perché gli manca l’amore, perciò non sa indicare alla ragione le vie
della giustizia”.
Ecco, questa è forse la diagnosi più precisa
dello stato attuale delle cose. Benedetto
XVI è nato ad aprile, nel più crudele dei mesi. Non ha vissuto solo la
primavera della Chiesa, ma la cosiddetta primavera del mondo. Durante i suoi
anni, la Chiesa è passata attraverso le sfide della secolarizzazione,
rimanendone affascinata. Ma la secolarizzazione è stata anche un diavolo
tentatore. La religione si è ridotta ad
una agenzia sociale, senza peso nella storia. E Dio è stato messo da parte,
non in maniera violenta – come successo nei Paesi comunisti, che sembrano gli
unici oggi, a comprendere l’importanza della fede.
In questa crisi – i cui temi sono stati tutti sviluppati dal Ratzinger Schuelerkreis, il
circolo di ex allievi di Benedetto XVI – il Papa emerito ha dato una
risposta che ha smascherato i piani del mondo. Ha chiesto di fissare lo sguardo
su Gesù, staccandolo da tutte le interpretazioni razionaliste, e a questo ha
dedicato il suo ultimo lavoro teologico ad ampio respiro. Così facendo, ha dimostrato che le forze del mondo che volevano
“liberare” la Chiesa dalle catene della sua dottrina, in realtà erano forze
che volevano incatenare il messaggio salvifico di Gesù.
Ma sono forze potenti, forti. Lobby che non vengono toccate dalle
critiche al loro potere economico, ma vengono piuttosto toccate nel momento in
cui il loro pensiero viene smascherato. Per la Chiesa, è forse tempo di
catacombe. E per Benedetto XVI, è tempo della preghiera. Dopo aver messo la
Chiesa in penitenza a Fatima, aver rilanciato la nuova evangelizzazione con
l’anno della Fede, per lui è il tempo della intercessione.
E così, dal monte, Benedetto XVI aiuta la Chiesa a superare la primavera. Ad arrivare
all’estate, e procedere nel cammino verso il confortevole inverno.