Pericolo scampato, dunque. Il tema del post precedente, che ha fatto un po’ discutere, non riguardava tanto una notizia vera, che era comunque presentata come un rumor. Prendeva l’occasione di un rumor per cercare di lanciare un dibattito più ampio, che riguarda non tanto la comunicazione vaticana quanto il linguaggio stesso della Santa Sede. Se si arriva a far circolare la voce che si potrebbe smettere di stampare L’Osservatore – era il ragionamento – allora il problema non sono tanto le voci, quanto i ragionamenti che sono alla base di questa eventualità. Eventualità di cui si era parlato già all’inizio della riforma, e si deve dare atto alla nuova dirigenza che è arrivata tre anni fa che molte cose sono state “aggiustate”, con un recupero del brand di Radio Vaticana e anche la prosecuzione della trasmissione in onde corte, tema, questo, che aveva molto preoccupato quando nel 2016 si chiusero le onde medie.
Il punto, insomma, non era tanto una notizia, quanto un
ragionamento complessivo su un dibattito che
in Vaticano e fuori non si è mai sopito, e che riguarda il modo stesso in cui
il Vaticano percepisce se stesso. Vale a dire: ci si deve adeguare
completamente al mondo, o si deve essere fedeli al dettame evangelico
dell’essere nel mondo ma non del mondo. C’è
chi potrebbe obiettare che si tratti di un processo alle intenzioni, e che un
ragionamento del genere è simile a quello che dice ad un amico di non buttarsi
dal ponte sul quale passerà anche se è evidente che questo non ha alcuna
intenzione di buttarsi dal ponte. Può darsi. Ma non significa che una
raccomandazione del genere non abbia valore.
Per intenderci, quello io noto, da diversi anni, è l’idea di dover ricostruire da zero il
Vaticano e la Santa Sede, e di conseguenza tutte le cose ad essa correlate.
C’è un promosso (spesso solo nel dibattito pubblico) senso generale che tutto
sia vecchio, stantio, e necessiti di rinnovamento. In molti casi, Papa Francesco è stato tirato in questo
dibattito, andando ad utilizzare suoi gesti spontanei o decisioni
particolari come un segno che tutto il mondo precedente doveva crollare. In
altri casi, si è trattato di sola pressione mediatica, un tipo di pressione che esiste dai tempi del Concilio Vaticano II,
quando, appunto, è invalsa l’idea che tutto dovesse cambiare e che il Vaticano
stesso doveva essere smontato e ricostruito (o persino abolito).
Smontare e ricostruire significa lavorare su altri millenni,
costruire nuove tradizioni, e adattare queste tradizioni alla dottrina, a meno
che non decida di cambiare la dottrina stessa. Un linguaggio non è mai neutro, è il frutto di successive evoluzioni.
Ma resta, in quel linguaggio, il senso originario, una profondità che è data
dalla storia e dal modo in cui quel linguaggio si è sviluppato.
San Paolo VI questo
lo sapeva. E per questo le sue riforme hanno sempre avuto un pieno rispetto
della tradizione, pur guardando avanti. Basti pensare a come ha cambiato la
Casa Pontificia, non abolendo la Corte Papale, come molti dicono, ma
ripensandola, adattandola alle nuove esigenze. Vecchio e nuovo si devono tenere, in un equilibrio costante e
necessario, che serve perché ricostruire tutto significa dovere trovare
nuovi equilibri e perderne altri, in un gioco che può apparire sempre essere
una coperta troppo corta.
Chi scrive ha dedicato ai linguaggi pontifici una serie di dodici
puntate su ACI Stampa, con l’obiettivo di raccontare che tutto in
Vaticano ha un senso, anche le cose che appaiono più coreografiche. La forma è sostanza, in Vaticano.
Ovviamente, c’è la necessità di riformare, perché un altro
adagio storico e conosciuto è che Ecclesia
semper reformanda. Ma riformare in che modo? Papa Francesco ha detto sempre di non cadere nella trappola del “si è
sempre fatto così”. Ma questa stessa frase è una trappola. La prima domanda
è: “Perché si è sempre fatto così?”. Da lì si deve partire. Se invece si decide
di cambiare perché si ritiene giusto cambiare, allora c’è il rischio di perdere
qualcosa.
Questo vale anche per il mondo della comunicazione vaticana,
senza ombra di dubbio. Papa Francesco ha
una sensibilità istituzionale diversa. Non che non si sia abituati ad un papato
di gesti. Giovanni
Paolo II era un Papa di gesti, aveva fatto teatro, sapeva anche quali pause
fare per parlare alle persone. Aveva però un certo senso istituzionale, che
portava, per così dire, in scena. L’istituzione veniva sempre prima di lui. E
questo lo dimostrò, per esempio, nella
sua prima Messa da arcivescovo di Cracovia, quando mise gli abiti più
preziosi che raccontavano della dignità dell’arcivescovo di Cracovia proprio
come risposta, visibile, al regime.
Da sempre, Papa
Francesco ha preferito evitare questo tipo di simboli, ed è un linguaggio anche
quello. Con la notizia di oggi della nomina di
monsignor Guido Marini a vescovo di Tortona, alcuni hanno ricordato di come
il maestro delle Cerimonie pontificie avesse ricevuto da Papa Francesco appena eletto il
rifiuto di indossare la mozzetta e la croce pettorale papale, preferendo
presentarsi solo con la pellegrina bianca. Un gesto, quello, che metteva da
parte appunto un linguaggio pontificio, un modo del Papa di presentarsi al
mondo.
Quei simboli, quei linguaggi non sono necessariamente
obsoleti. Rappresentano la sostanza
della Santa Sede, ne raccontano i risvolti, le sfumature, si caricano di storia.
Se vengono riformati, significa che vengono adattati ai tempi. Se vengono semplicemente aboliti, viene
rinnegata tutta una storia. Ed è questa l’impressione che si è avuta, spesso,
in questi ultimi anni.
Una impressione che ha
ovviamente toccato anche il mondo della comunicazione vaticana, chiamata al
compito difficile di riformarsi per razionalizzare i suoi sforzi, anche
economici, di raccontare un pontificato
che parte da presupposti e linguaggi differenti cui quelli che si era abituati,
e di mettersi in relazione con il mondo per fare in modo che questi linguaggi
siano compresi. Si diceva che Papa
Francesco fosse stato eletto anche per la necessità di stimolare un “cambio di
narrativa” sulla Chiesa cattolica. In che modo, allora, i media vaticani
devono stimolare questo cambio, rimanendo fedeli alla loro missione primaria?
I passi di una riforma sono ovviamente difficili, a volte si
va avanti in modo radicale (Papa
Francesco parlò di "buona violenza" per riformare le cose proprio con
i membri del dicastero nel 2017) e sono gli stessi operatori, spesso, a non
comprendere il senso di questa violenza, a non vedere una luce in fondo al
tunnel. I rumors si moltiplicano non
solo perché ci sono dei nemici dei dirigenti (non manca mai chi vorrebbe
prendere il loro posto, ed è umano), ma anche perché ci sono persone seriamente
preoccupate non solo del loro posto di lavoro, ma della loro missione.
Il rumor sulla
chiusura della stampa dell’Osservatore
Romano era, per quanto mi riguarda, una occasione per raccontare questa
angoscia che si raccoglie, per mettere per iscritto alcuni dubbi fatti
circolare. Era parte di una mia personale battaglia anche sulla
comunicazione stessa dei fatti religiosi. Perché oggi la comunicazione va
sempre più verso un modello in cui l’audience
è il primo, vero e unico padrone, e tutto deve essere adattato all’audience. Ma
questo porta ad una eccessiva semplificazione dei fatti, a un modo anche errato
di raccontare le cose, il tutto perché il lettore è il padrone. Si
rischia di parlare per slogan, non di parlare per analisi. E si rischia
di rendere i personaggi più importanti dei fatti, proprio perché i personaggi
sono più di interesse dei fatti.
Se questo può essere un motivo di esistenza dei giornali
secolari, non lo può essere per la Santa
Sede, perché il personaggio non sarà mai più dell’istituzione. Si rischia di
assistere a vari corto circuiti. Se tutta l’attenzione è
focalizzata su un Papa, e sulla sua riforma, allora cosa sarà degli altri Papi?
Come si continueranno a raccontare le cose con prospettive diverse? E, quando
si farà, come si manterrà credibilità?
Poi ci sono i problemi tecnici che si uniscono a quelli formali.
La pervasività dell’informazione che
costringe tutti a scrivere velocemente, e quindi ad approfondire meno, a
cercare il click prima che l’informazione. C’è da ripensare un modo di
proporsi al mondo, e questo è necessariamente complicato, se vogliamo che
questo modo sia anche remunerativo. Comprendo
benissimo le difficoltà che si vivono in Vaticano, specie in questa stagione
che sta per arrivare.
Il mio punto, però, è che non si debba scrivere per il
pubblico. Si debba scrivere in modo che
le persone possano capire, ma senza troppo semplificare. Si deve anche
correre il rischio di essere impopolari, riuscendo però a parlare a quanti
davvero vogliono capire. Il Vangelo, in
fondo, era per pochi, e anche se Gesù parlava in parabole per farsi capire, le
spiegava poi solo ai discepoli. E nemmeno i discepoli, a volte, capivano
tanto. Hanno avuto bisogno dello Spirito
Santo.
Invece di concentrarsi su quello che le persone pensano sia
giusto percepire, ci si deve concentrare
su quello che si è. Vale per i linguaggi pontifici (tra l’altro, chi li
critica non immaginerebbe mai una presidenza della Repubblica senza
cerimoniale, alla fine), vale
per la comunicazione vaticana che a volte sembra correre il rischio di
appiattirsi sull’immagine del Papa.
Tra l’altro, il Papa
è anche l’editore di questa comunicazione. Si deve considerare che molto di
quello che c’è sia anche sua volontà, non certo volontà dei dirigenti. Questo è
ovviamente un altro tema sul tavolo, che va tenuto in considerazione.
Se la volontà del
Papa è liberarsi di tutto ciò che secondo lui non ha senso, infatti, allora
è normale preoccuparsi che l’amico si getti dal ponte anche se non ne ha
intenzione, per usare la metafora di inizio post. E questo perché magari
buttarsi dal ponte non dipende dalle sue intenzioni. Ma se questa non è la volontà del Papa, allora le preoccupazioni
saranno facilmente dissolte. Ed è questo quello che ci si augura.
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