Per intenderci, il compartimento dei media vaticani consiste in una serie di differenti mezzi di comunicazione, che si sono sviluppati indipendentemente nel tempo: la Radio Vaticana, nata 90 anni fa, un progetto avveniristico che portò la voce del Papa nel mondo e la voce nella Chiesa nei posti più irraggiungibili della Terra; l’Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede, fondato nel 1861 dopo che le truppe italiane avevano messo bruscamente fine allo Stato Pontificio, per dare una voce al Papa contro quello che Pio IX definiva “un complotto della storia contro la verità”; quindi, il Centro Televisivo Vaticano, il mezzo più recente, fondato nel 1983; la Libreria Editrice Vaticana, con tanto di Tipografia Poliglotta, nata nel 1926 con l’idea di dare una voce alla Chiesa anche nel comparto editoriale.
A questi mezzi, si aggiungeva il Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali, nato dopo il Concilio Vaticano II come parte della riflessione della Chiesa sui mezzi di comunicazione. E non va dimenticata la Sala Stampa della Santa Sede, nata come Sala Stampa dell’Osservatore Romano già nel Secondo Dopoguerra, che serviva a dare una “casa” ai giornalisti che si occupavano di vaticano, e a distribuire informazioni ufficiali.
Tutto questo, è confluito nel grande progetto di Vatican News, all’interno di un Dicastero più grande che è il Dicastero della Comunicazione. Invece di tanti mezzi di informazione indipendenti, un solo mezzo, con diverse voci, ma tutte più o meno sotto la stessa linea editoriale. Meno indipendenza interna, più coordinamento. Anche la gestione delle informazioni è cambiata. Da sempre, è la Segreteria di Stato a gestire i bollettini della Sala Stampa, perché è la segreteria del Papa, e infatti Giovanni Paolo II incluse la Sala Stampa sotto il controllo della Segreteria di Stato. Ma ora, è il Dicastero della Comunicazione che controlla la Sala Stampa, mentre la Segreteria di Stato continua comunque ad essere responsabile del filtro delle informazioni, sebbene non tutte.
A guardare da fuori, sembra che non ci sia un vero e proprio disegno, nel piano di riformare la comunicazione vaticana. Tra l’altro, manca anche spesso un coordinamento interno con i dipartimenti di comunicazione dei dicasteri, non c’è ancora una cabina di regia, e non sembra in previsione che ci sarà.
O meglio, c’è un disegno, ed è quello primario: razionalizzare le spese della Santa Sede, o, per meglio dire, tagliare costi. Perché il comparto media è quello che alla Santa Sede costa di più, e che genera meno profitti.
Che il primo scopo della riforma della comunicazione fosse economico, lo si doveva capire dal fatto che ad annunciare la prima commissione per la comunicazione, presieduta da Lord Christopher Patton, fu il Cardinale George Pell, allora prefetto della Segreteria per l’Economia, che fece della riforma della comunicazione una parte del grande piano di riforma dell’Economia vaticana.
Quali sono state, fino ad ora, le linee guida della riforma? La prima è stata quella di modernizzare tutto: via Radio Vaticana, sostituita da un portale come Vatican News, più moderno nell’impostazione e integrato anche con canali video che permettono di seguire le dirette del Papa; via il giornalismo tradizionale, spazio alla convergenza digitale, con articoli scritti e mandati in radio, in video, persino sull’Osservatore Romano; e poi, spazio ai libri “promozionali” del pontificato, perché l’idea principale è quella di valorizzare al massimo il brand, che è appunto Papa Francesco.
Certo, tutto questo si riflette soprattutto nel notiziario in lingua italiana. I notiziari di Vatican News nelle altre lingue devono giocoforza fare i conti con ranghi ridotti e difficili orari di lavoro. Sono più liberi, a volte, perché in pochi possono controllare cosa viene scritto nelle altre lingue. Sono, allo stesso tempo, meno visibili, più limitati.
La lotta per la modernità ha spazzato via anche la trasmissione in onde corte e medie della Radio Vaticana, chiuse dal 30 novembre 2015. Un colpo al cuore, per la radio del Papa, perché attraverso onde medie e corte Radio Vaticana aveva raggiunto anche luoghi dove la Santa Sede era quasi maledetta, come i luoghi al di là della Cortina di Ferro.
Si è trattato, in fondo, di segni di discontinuità improvvisa e quasi violenta. Un cambio d’epoca, più che una razionalizzazione dovuta a dei problemi finanziari.
In
effetti, la comunicazione vaticana era sempre stata gestita con buon senso, con
personale assunto e poi passo dopo passo istruito secondo la visione della
Santa Sede e della conoscenza del mondo vaticano.
La decisione di nominare Joaquin Navarro-Valls come direttore della Sala Stampa della Santa Sede, nel 1984, aveva segnato l’ingresso della professionalizzazione nel campo della comunicazione all’interno delle Mura Vaticane. Ma era una professionalizzazione portata avanti con buon senso, guardando prima alla Santa Sede poi alle esigenze della comunicazione. Navarro-Valls faceva anche marketing (celebre la sua descrizione dell’incontro di Giovanni Paolo II con il premio Nobel guatemalteco Rigoberta Menchù, mai in realtà avvenuto), ma il suo primo pensiero era dare voce alla fede. Non la notizia, quanto piuttosto il significato di quello che accadeva.
Era un modo, per la Santa Sede, di essere nel mondo, ma non del mondo. Sotto Benedetto XVI, l’arrivo di Greg Burke come consulente ad hoc della Segreteria di Stato sulla comunicazione ebbe un impatto minimo, perché non cambiarono di certo le strategie.
Oggi, il direttore della Sala Stampa vaticana non è più considerato il “portavoce” ufficioso del Papa. Navarro Valls aveva un rapporto diretto con Giovanni Paolo II, padre Lombardi con la Segreteria di Stato, Greg Burke, nel frattempo diventato "portavoce", si è trovato a lavorare in una situazione completamente diversa, perdendo passo dopo passo le prerogative del direttore della Sala Stampa. Al Sinodo sui giovani del 2018, Greg Burke non fu nemmeno incluso nella commissione comunicazione del Sinodo, come invece era successo per tutti i direttori della Sala Stampa prima di lui, e i briefing erano tenuti sempre da Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero della Comunicazione. Era il segno di un cambiamento di epoca.
Ora, la riforma della comunicazione vaticana ha preso un approccio completamente simile a quello del marketing. Vero che le notizie danno grande enfasi alle attività delle Chiese locali, e sono concepite come se ci si trovasse di fronte al giornale di un grande villaggio che è la Chiesa. Ma è altrettanto vero che il modo in cui le notizie vengono confezionate dà proprio l’idea della necessità di fare un prodotto appetibile, un giornale che tutti vogliano leggere e che abbia informazioni esclusive.
È
facile, per i media vaticani, avere le informazioni prima, perché discorsi e
nomine sono preparati in anticipo. Più difficile, da una prospettiva
istituzionale, dare un significato a tutto questo mantenendo un linguaggio
neutrale.
Così, la comunicazione vaticana si trova ad essere appiattita sulle attività e l’immagine del Papa, con un contorno di notizie locali senza però collegamenti. Questo crea diversi problemi: di gestione delle notizie, di gerarchia delle notizie, anche di rapporto con le fonti.
A questo, si aggiunge il problema di un Papa che fa interviste senza avvertire il Dicastero, che poi si trova costretto ad inseguire nel divulgare le sue parole. Non solo dunque, non c’è un disegno, ma non c’è nemmeno una cornice istituzionale che possa aiutare a prendere una direzione.
Il tema principale riguarda però la diffusione delle notizie e delle informazioni. Spesso, si saluta la nuova era dell’informazione vaticana come un momento in cui le notizie saranno diffuse con maggiore trasparenza. Non è stato così.
Alcuni
esempi. Nell’ultimo anno e mezzo la Santa Sede è stata scossa da diversi
scandali finanziari, e dunque è diventato necessario anche mostrare chiaramente
l’impegno per una trasparenza finanziaria che fosse indirizzato anche
all’interno delle Sacre Mura. Erano cinque anni che i bilanci della Santa Sede
non venivano pubblicati. È stato pubblicato solo il bilancio della Curia, ma
non quello del governatorato, ed è stato pubblicato con un comunicato e una
intervista “istituzionale” al prefetto della Segreteria dell’Economia, Padre
Juan Antonio Guerrero Alves, senza possibilità di contraddittorio con i
giornalisti.
Lo stesso è accaduto quando la Segreteria per l’Economia ha pubblicato le previsioni di budget del 2021. Ma è accaduto anche con il rapporto dell’Autorità di Informazione Finanziaria, che pure negli anni precedenti era sempre stato presentato in Sala Stampa. Mentre non c’è mai stata possibilità di un dialogo aperto con i giornalisti per quanto riguarda la pubblicazione dei rapporti dell’Istituto delle Opere di Religione, la cosiddetta “banca vaticana”: dal 2013, vengono pubblicati direttamente sul sito dell’Istituto, senza presentazione, con uno scarno comunicato, e – negli ultimi anni – addirittura nel pomeriggio, quando la Sala Stampa della Santa Sede non è più aperta ai giornalisti.
Non è una questione che riguarda le nuove restrizioni COVID, ma una sorta di tendenza diventata sempre più crescente. Non si fanno più nemmeno i briefing sui lavori del Consiglio dei Cardinali, protagonisti di una discussione sulla riforma della Curia che sembra non avere fine. Ci sono poche conferenze stampa, e quasi sempre su temi marginali.
Quando poi si arriva a decisioni del Papa che hanno un impatto serio, queste vengono commentate semplicemente da un editoriale o una intervista del direttore editoriale del Dicastero della Comunicazione, che in qualche modo segnala la linea.
Un approccio di tipo marketing, che si è così legato ad una certa ansia di controllare l’opinione pubblica, e che però porta a reticenze e silenzi che alimentano le idee di un complotto o del voler nascondere qualcosa.
A questo fa da contraltare l’attività del Papa, molto presente sui media più “popolari” (due libri-intervista già all’inizio di quest’anno, più varie interviste anche a media pop come Vanity Fair e al quotidiano sportivo La Gazzetta dello Sport) e persino in televisione con cicli di trasmissione interviste in cui commenta liberamente di temi come il Padre Nostro, il Credo, le virtù. Eppure, fino ad ora, sono state rare le interviste a Papa Francesco su temi scottanti, con domande vere.
È questo un risultato della riforma della Curia oppure semplicemente la necessità di andare dietro a un Papato informale e quasi non istituzionale? E quando si troverà un equilibrio?
Papa Francesco ama dire che le riforme si fanno in cammino, ed è stato questo che è successo con la riforma della comunicazione vaticana. Dopo sei anni, questa riforma è ancora incompleta. E però, nell’incompletezza, si pensa ad aggiungere un altro tassello, a includere una agenzia. Con la fiducia che tutti i limiti di questo sistema di riforma possano venire al pettine ed essere risolti.
Difficilmente, però, questo sarà possibile in maniera naturale. Servirà una riforma della riforma. Ma la farà il prossimo Papa, probabilmente, chiamato anche a ripristinare le buone pratiche messe da parte, ritornando anche a correre il rischio di parlare apertamente con i media. Ma questo si può fare solo in una cornice istituzionale valida, seria, ben definita. Non sarà banale ricrearla.
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