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giovedì 13 giugno 2024

La libertà religiosa come chiave della riconciliazione europea?

Il 5-6 giugno ho partecipato con un paper alla Seconda Conferenza Internazionale sulla Libertà di Religione e di Credo organizzata dall’Università Blanquerna di Barcellona. Nell’occasione, ho parlato a braccio di un tema che mi sta a cuore: la libertà religiosa come chiave della riconciliazione europea, a partire dal lavoro che i vescovi del Consiglio delle Conferenze Episcopali di Europa hanno fatto a partire dal 1975 in poi. È un tema che sto sviluppando anche in un dottorato di ricerca.

La conferenza era in inglese, e in inglese è stato il paper breve che ho preparato. Ho parlato comunque a braccio, perché più spontaneo e perché mi permetteva meglio di controllare i tempi. Il dibattito che è seguito al mio intervento è stato di grande interesse, perché ci si chiedeva in quale modo l’esperienza dei vescovi europei a partire dalla Dichiarazione di Helsinki del 1975 potesse essere un modello anche per l’Europa di oggi. Io ritengo che l’Europa, oggi, possa ricostruirsi solo se saprà riconciliarsi con la sua storia ferita. Ma anche questo è un tema da sviluppare.

Lascio qui, ad ogni buon conto, il testo lungo di preparazione della Conferenza, che riprende anche molti brani del mio libro “Cristo Speranza dell’Europa” (Città Nuova) sulla storia del CCEE.

 

La libertà religiosa come chiave per la riconciliazione europea

 

Sono Andrea Gagliarducci, giornalista, vaticanista, attualmente anche dottorando presso l’Istituto Universitario Sophia.

 

Nel corso di questi anni, mi sono occupato di storia della Chiesa in Europa, e in particolare della storia di un organismo della Chiesa Europea, che è il Consiglio delle Conferenze Episcopali di Europa, conosciuto come CCEE.

 

Il CCEE è una istituzione particolare e cruciale allo stesso tempo. Nasce durante il Concilio Vaticano II, come iniziativa personale dei vescovi di Europa, viene istituzionalizzata da Paolo VI nel 1971 e viene ulteriormente riformata da Giovanni Paolo II negli Anni Novanta, fino ad avere la forma attuale. Si tratta di un consiglio che racchiude i presidenti delle Conferenze Episcopali del continente europeo, cioè dall’Atlantico agli Urali, dal Portogallo alla Russia, senza dimenticare la Turchia.

 

Se la composizione di questo organismo è cambiata – prima era composto di vescovi delegati, poi è stato composto di presidenti delle conferenze episcopali – non ne è cambiata la natura. Si trattava di un raggruppamento geografico sin dall’inizio, in tempi in cui l’Europa non respirava con due polmoni, per usare una espressione cara a Giovanni Paolo II, perché parte dell’Europa era al di là della Cortina di Ferro.

 

Per sapere di più della storia di questa istituzione, rimando a un libro che ho scritto, “Cristo Speranza dell’Europa”, che la ripercorre fino al momento in cui questa compie 50 anni.

 

Il motivo per cui però sto parlando della storia di questa istituzione in una conferenza internazionale sulla libertà religiosa è un altro. È perché il tema della libertà religiosa è entrato prepotentemente nella storia dei vescovi europei, ed è stato dirimente anche negli eventi che hanno portato alla caduta della Cortina di Ferro.

 

E sono convinto che anche oggi, in un momento in cui la libertà religiosa sembra vivere una crisi generale, il tema della libertà religiosa possa essere elemento chiave per una Europa finalmente riconciliata.

 

La libertà religiosa tra i temi dei vescovi europei

 

Guardando indietro alla storia, l’anno cruciale è il 1975. In quell’anno avvengono due eventi, collegati tra loro, che sono decisivi per il futuro. Il primo evento è l’approvazione dell’accordo finale di Helsinki, l’11 agosto 1975, che è parte del cammino di distensione dei rapporti tra blocco occidentale e blocco orientale

 

Il secondo è il III Simposio dei vescovi europei, che si tiene dal 14 al 18 ottobre, su La Missione del vescovo al servizio della fede, e vede nel cardinale Karol Wojtyła uno dei principali relatori. Nelle discussioni, sarà lui a raccomandare, con forza, che il CCEE agisca perché l’accordo sia applicato, con l’appoggio dell’allora arcivescovo di Bruges Emiel Jozef De Smedt (1909-1995).

 

Solo un cardinale proveniente dall’altra parte della Cortina di Ferro poteva comprendere sia la portata del Trattato di Helsinki, sia il modo in cui questo avrebbe potuto avere un ruolo per le Chiese dell’Europa orientale e non solo. E solo un cardinale proveniente dall’altra parte della Cortina di Ferro poteva comprendere che era tempo, per i vescovi, di fare un salto di qualità, di guardare alle cose del mondo, di essere presenti e viverle.

 

Perché l’Atto di Helsinki è così importante? Perché il suo VII principio sottolinea «la libertà dell’individuo di professare o praticare, solo o in comune con altri, una religione o un credo, agendo secondo i dettami della propria coscienza».

 

La formulazione era stata proposta dall’allora mons. Achille Silvestrini (1923-2019), negoziatore vaticano alla Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa.

 

La Santa Sede partecipava su richiesta dell’Unione Sovietica, che aveva promosso l’incontro e che puntava a rafforzare i confini, dato che mai i sovietici avevano avuto i piedi così ben saldi in centro ed est Europa come allora. L’invito aveva suscitato ampi dibattiti all’interno della segreteria di Stato. Anzi, il segretario di Stato, il card. Jean-Marie Villot, era contrario, mentre l’allora mons. Casaroli la considerava una straordinaria opportunità. E Paolo VI la pensava come lui.

 

Nella conferenza, infatti, secondo Paolo VI e Casaroli si poteva capitalizzare il lavoro fatto nel dialogo con i Paesi di là della Cortina di Ferro, e allo stesso tempo riaffermare l’Europa come un unico continente, senza alcuna “cortina a dividerlo”.

 

Da qui, l’idea della Santa Sede di puntare sul tema della libertà religiosa, una questione proposta non senza emozione da mons. Silvestrini il 7 marzo 1973.

 

L’Europa – era il ragionamento – ha una comune cultura, la cultura cristiana, ed è per questo che la libertà religiosa era un tema fondamentale. Non ci aveva pensato nessuno, e il cambio di paradigma era importante. Fino ad allora, la conferenza era stata soprattutto intorno alla stabilizzazione delle frontiere, e le proposte erano di cooperazione in campo economico, scientifico, ambientale, umanitario.

 

La proposta fu accettata, vi aderirono tutti i Paesi europei, incluse le due Germanie, la Santa Sede e il Principato di Monaco. Solo l’Albania votò contro, ma era una eccezione logica, essendo l’unico Paese dichiaratamente ateo di Europa – che aderirà solo nel 1990.

 

Probabilmente, però, i Paesi dell’Est non immaginavano in che modo questo semplice paragrafo avrebbe avuto un impatto all’interno dei loro sistemi.

 

Lo immaginava, invece, il cardinale Wojtyła. E, ovviamente, lo sapeva anche Paolo VI, che nella sua allocazione di chiusura del simposio dei vescovi europei insistette moltissimo sulla tradizione cristiana d’Europa e sulla sua unità.

 

Mons. Šuštar, segretario generale del CCEE, in un resoconto finale dei lavori, riprendendo il discorso di Paolo VI, mise in luce che il papa aveva sottolineato in particolare la tradizione cristiana e l’unità, e spiegava che queste due sottolineature “dopo la Conferenza di Helsinki, sono di importanza primaria per la Chiesa”, e che ora “la collaborazione delle Conferenze Episcopali Europee ha bisogno di essere ulteriormente incoraggiata”, e per questo “l’allocuzione del papa è un invito allo sviluppo e alla cooperazione, cui il simposio deve preparare”.

 

Dall’elezione di Giovanni Paolo II alla caduta del Muro di Berlino

 

Nel 1978, quello stesso Karol Wojtyła viene eletto papa e prende il nome di Giovanni Paolo II.

 

Questi conosce le potenzialità del CCEE e conosce la situazione nei Paesi dell’Europa orientale. Con il suo pontificato, comincia un lavoro diverso, teso a una maggiore responsabilizzazione nelle questioni del mondo. Intervenendo al Simposio CCEE sui giovani e la fede, che si tiene nel 1979, Giovanni Paolo II parla di evangelizzazione, sottolinea che “l’Europa è ancora sempre la culla del pensiero creativo, delle iniziative pastorali, delle strutture organizzative”, e ha “un grandioso passato missionario». Ma l’Europa «non sta per diventare essa stessa un continente missionario?”

 

La domanda rimaneva sospesa, perché Giovanni Paolo II voleva che tutti i vescovi partecipassero questo processo, e per questo “vanno resi intensamente presenti coloro che sono assenti”.

 

Le sollecitazioni di Giovanni Paolo II sono subito recepite. Nel 1980, i vescovi d’Europa si riuniscono a Subiaco, lì dove san Benedetto cominciò il suo straordinario progetto che è alle radici della cultura europea, e redigono una dichiarazione sulla Responsabilità dei cristiani di fronte all’Europa di oggi e di domani.

 

Nel millecinquecentenario della nascita di San Benedetto, i vescovi affermarono che “nonostante gli indubbi progressi, i diritti dell’uomo restano minacciati sia dall’abuso della libertà che si spinge fino a reclamare il diritto ad un consumismo senza limiti, sia dall’annullamento della persona umana nella società”. Aggiunsero che la Chiesa “non può lasciarsi ridurre al silenzio quando i diritti dell’uomo sono minacciati”. Pur apprezzando le Dichiarazioni sui diritti umani, sottolinearono, “alcune di queste dichiarazioni restano in parte lettera morta», e per questo «è necessario impegnarci a fondo per la causa dei diritti dell’uomo”, poiché “non si difende pienamente l’uomo se non se ne rispetta concretamente la dignità in tutti i suoi aspetti”.

 

Cosa può fare la Chiesa in Europa, dunque? Essere solidale “con gli uomini che lottano per la giustizia, la libertà e la pace», ma anche sviluppare riconciliazione, perché «se è vero che la Chiesa è stata altre volte fattore di unità in Europa, è altrettanto vero che proprio nel nostro continente hanno avuto origine lacerazioni del tessuto ecclesiale le quali sono state gravide di conseguenze”. I vescovi delineano dunque le forme di collaborazione, tra vescovi, tra le Chiese particolari di diverse nazioni, nella Chiesa in Europa, e nel cammino ecumenico, senza dimenticare gli uomini di buona volontà.

 

Con il documento di Subiaco si ha dunque un cambio di passo nella mentalità del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee.  

 

Sollecitato dal papa, lo scopo del Consiglio si va definendo come quello di una presenza europea forte, attenta, presente a livello locale e connessa a livello continentale. Si trovano, nel testo, tutti i grandi temi che sarebbero poi stati affrontati negli anni successivi, e che sono ancora attuali.

 

Il tema della libertà religiosa

 

Il tema della libertà religiosa, come primo tra tutti i diritti, diventa parte di una dialettica fortissima. È opinione comune che fu proprio quella possibilità data dalla dichiarazione di Helsinki a creare una frattura nel mondo sovietico, e a creare i presupposti per la caduta del Muro di Berlino.

 

Il Cardinale Paul Poupard mi ha raccontato in una intervista che Giovanni Paolo II lo inviava oltre cortina ad impegnarsi in dibattiti teologici basati sulla libertà religiosa e sul senso della fede, per superare con la dialettica le falle del sistema. Era il metodo Wojtyla: non si combatte frontalmente contro il regime, ma si lavora sulla cultura, e si creano nuove basi culturali.

 

Wojtyla però aveva un’altra ispirazione, ed era quella della riconciliazione. Nel 1965, il Cardinale Bronislaw Kominek, arcivescovo di Wroclaw, aveva lanciato l’iniziativa di una lettera dell’Episcopato Polacco all’Episcopato tedesco. “Perdoniamo e chiediamo perdono” erano le parole chaive della lettera.

 

Era una lettera di riconciliazione, che partiva dalla consapevolezza che l’Europa non poteva ricostruirsi se non ci fosse stato il perdono tra le nazioni che erano state contrapposte durante la Seconda Guerra Mondiale.

 

Robert Schumann aveva fatto la sua famosa dichiarazione l’8 maggio 1950 proprio pensando alla necessità di una riconciliazione dei popoli, di rendere impossibile la guerra.

 

Oggi, credo sia tempo di una nuova riconciliazione, e di una nuova dichiarazione Schumann.

 

La libertà religiosa sotto attacco

 

Le società che si sono costituite sul suolo europeo mettono sempre più a rischio la libertà religiosa, la libertà di tutte le libertà. La Francia ha recentemente incluso nella sua costituzione la libertà di abortire, con una formulazione tale che non apre nemmeno all’obiezione di coscienza. La Scozia si appresta in questi giorni ad approvare un disegno di legge sull’aborto che renderebbe automaticamente fuorilegge chi si pone in preghiera silenziosa davanti le cliniche abortiste.

 

In un mondo in cui la libertà religiosa è messa a rischio, viene messa da parte anche l’idea stessa di Dio. Ma se Dio viene messo da parte, dove si trovano le basi per quell’esercizio assolutamente necessario del perdono?

 

Vediamo i frutti della guerra in Ucraina e ci rendiamo conto che è anche una guerra di narrativa, in cui le ferite del passato arrivano con forza e durezza e colpiscono ancora. È una guerra che trova le sue giustificazioni in ferite che sono rimaste profonde, e che nessuno ha mai guarito. E queste ferite sono rimaste profonde proprio perché il ruolo della fede è stato messo da parte. In Ucraina c’è stata persino una legge che obbligava i sacerdoti ad andare al fronte, in un atto di difesa cieca della patria che sopravanzava ogni religione.

 

Per questo, io sono convinto che l’esperienza del Consiglio delle Conferenze Episcopali di Europa, il loro lavoro sulla libertà religiosa e quello conseguente sulla riconciliazione, sia una vera chiave per una Europa riconciliata, e per la ricostruzione dell’Europa oggi ferita.