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Vaticano, processo sul Palazzo di Londra. Tutto quello che c’è in gioco
Riprende il 5 ottobre il processo in Vaticano che vede 10 imputati, tra cui anche il Cardinale Angelo Becciu. Ecco quali sono i temi in gioco, e cosa è successo
Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , lunedì, 4. ottobre, 2021 11:00 (ACI Stampa).
Dieci imputati, tra i quali un cardinale. Un investimento finanziario che è finito del turbine di indagini per presunti crimini di estorsione e peculato. Diversi ex funzionari della Santa Sede a processo. Un monsignore collaborazionista. Il processo che riprende in Vaticano il 5 ottobre ha tutti gli elementi di una storia investigativa da romanzo. Ma, al di là della narrativa e dell’indiscutibile interesse mediatico, il processo presenta anche una serie di temi che vanno molto al di là dei fatti contestati. E che potrebbero persino incidere sul futuro della Santa Sede.
I temi riguardano l’attività giudiziaria della Santa Sede, che ha implicato anche un certo attivismo del Papa, il quale è personalmente intervenuto in sede di indagini con quattro rescritti; l’impatto internazionale che questo processo può avere, perché è vero che i giudici sono tutti italiani, ma il riferimento non può essere Roma, ma Bruxelles, almeno per una realtà internazionale inserita nel contesto europeo come la Santa Sede; e il ruolo stesso dei giudici vaticani, tutti italiani e tutti con attività al di fuori della Santa Sede. Ma c’è anche da decifrare il ruolo della Segreteria di Stato, che ha lavorato per proteggere l’investimento di Londra, con decisioni condivise e dettagliate in un memoriale dell’arcivescovo Edgar Peña Parra, sostituto della Segreteria di Stato, ora agli atti processuali, che rappresenta forse il documento più importante per ricostruire i fatti.
Di certo, quello che ci attende non sarà un processo breve. Prima di tutto, serve un po’ di storia.
Gli imputati e le accuse
Nel 2018, la Segreteria di Stato vaticana decide di investire circa 200 milioni di euro nell’acquisto di quote di una proprietà immobiliare nel centro di Londra, a Sloane Avenue, utilizzando un fondo gestito dal broker Raffaele Mincione. Gli accordi non sono vantaggiosi per la Santa Sede, che continua a perdere denaro sull’investimento, fino a quando non si avvale di un altro broker, Gianluigi Torzi, per rilevare le quote di Mincione e inglobarle in un’altra società. Anche in questo caso, il contratto non è vantaggioso, anche perché la Santa Sede possiede la maggioranza delle azioni, ma non quelle che in realtà controllano l’investimento.
Si decide così di chiudere l’accordo con Torzi, che negozia, per la vendita delle sue azioni, un prezzo di 15 milioni di euro. Torzi è attualmente uno degli imputati, accusato di estorsione. Così come lo è Mincione, con le accuse di peculato, truffa, abuso d’ufficio, appropriazione indebita e autoriciclaggio.
Per gli inquirenti, Mincione è “dominus indiscusso delle politiche di investimento di una parte considerevole delle finanze della Segreteria di Stato”. E imputato è anche Enrico Crasso, che ha gestito per diversi anni gli investimenti della Segreteria di Stato, e che ora si trova accusato dei reati di peculato, corruzione, estorsione, riciclaggio ed autoriciclaggio, truffa, abuso d’ufficio, falso materiale di atto pubblico commesso dal privato e falso in scrittura privata.
Sono imputati anche René Bruelhart, già presidente dell’Autorità di Informazione Vaticana, per il reato di abuso di ufficio, e Tommaso Di Ruzza, direttore della stessa autorità, per i reati di peculato, abuso di ufficio e violazione del segreto di ufficio. E ancora, Cecilia Marogna, che avrebbe operato in azioni di intelligence per la Segreteria di Stato, ricevendo somme ingenti in cambio, è accusata di peculato; e monsignor Mauro Carlino, già segretario del Cardinale Becciu in Segreteria di Stato, per estorsione e abuso di ufficio.
A spiccare, tra gli imputati, è il Cardinale Angelo Becciu, primo porporato ad essere giudicato da un Tribunale dello Stato di Città del Vaticano. Prima, i cardinali potevano essere solo giudicati dalla Segnatura, e da un collegio formato da tre porporati. Papa Francesco ha cambiato la norma lo scorso 30 aprile, stabilendo che i cardinali potessero essere giudicati anche da un tribunale ordinario. C’è comunque bisogno dell’assenso del Papa al processo, arrivato il 19 giugno, mentre il rinvio a giudizio è stato pubblicato il 13 luglio.
Il Cardinale Becciu è accusato di peculato ed abuso di ufficio, anche in concorso, nonché di subornazione (ovvero, avrebbe fatto pressioni su monsignor Alberto Perlasca per farlo ritrattare).
Il cambiamento della legge per permettere il processo al Cardinale Becciu non è il solo intervento del Papa nell’ambito legislativo. Già in sede di indagine, Papa Francesco ha firmato quattro rescritti, quattro documenti che di fatto hanno sospeso alcune garanzie giudiziarie, tra cui il segreto di ufficio, per permettere la prosecuzione delle indagini in maniera sommaria, vale a dire, secondo una procedura autorizzata direttamente dal Papa.
I rescritti sono stati redatti il 2 luglio 2019, 5 luglio 2019, il 9 ottobre 2019 e il 13 febbraio 2020.
Con i rescritti, Papa Francesco sospendeva gli obblighi di segnalazione all’Autorità di Informazione Finanziaria, stabiliti dalla legge 18 del 2013; disponeva l’autorizzazione all’uso di qualunque strumento di intercettazione necessario; autorizzava l’utilizzo di qualunque materiale sequestrato senza che vi si potesse opporre vincolo di segretezza; e confermava per altri sessanta giorni le prerogative speciali date al Promotore di Giustizia.
Papa Francesco è intervenuto, dunque, con forza nel processo. Ma era intervenuto anche durante le trattative della Segreteria di Stato per rilevare da Torzi le azioni del Palazzo di Londra. Una foto, infatti, lo ritraeva proprio insieme al broker, che era stato nella Domus Sanctae Marthae proprio per negoziare la sua uscita dall’affare.
Inizialmente, è stato detto che il Papa non sapeva dell’investimento di Londra, e nemmeno aveva incontrato i protagonisti dell’operazione. Alla pubblicazione della foto di Papa Francesco con Torzi, era stato detto che il Papa aveva incontrato il broker, ma non sapeva dell’operazione. Infine, rispondendo all’Associated Press, il Tribunale Vaticano ha affermato che il Papa era entrato nella stanza dove c’erano i negoziati per la liquidazione delle quote di Torzi, e che il Papa era entrato invitando tutti a trovare una soluzione. Giuseppe Milanese, amico personale di Papa Francesco, stava conducendo la transazione su richiesta del Papa. E, parlando con Report, Milanese ha aggiunto un dettaglio: che il Papa aveva chiesto di concludere con “il giusto salario”.
La presenza di Papa Francesco ai negoziati, la sua insistenza ad intervenire e voltare pagina sono confermati anche dal memoriale dell’arcivescovo Peña Parra. Ed è un memoriale che potrebbe essere sostanziale nella difesa della Segreteria di Stato.
Il ruolo della Segreteria di Stato
Il sostituto, entrato in carica nel novembre 2018, ha spiegato la sua posizione in un lungo memoriale di una ventina di pagine, con varia documentazione allegata. Nel memoriale, l’arcivescovo venezuelano, che si dice goda della fiducia di Papa Francesco, non si limita solo a ricostruire le vicende del Palazzo di Londra. Mette in luce un vero e proprio sistema a lui preesistente, racconta circostanze che dimostrano le sue affermazioni, riferisce che spesso le decisioni venivano fatte prendere in urgenza, e interrompendo riunioni in corso, proprio per indirizzare verso alcuni scenari già predestinati. Non solo. Accusa monsignor Alberto Perlasca, che era stato per 12 anni direttore dell’ufficio amministrativo della Santa Sede, di aver preso decisioni senza consultare superiori, di aver agito in combutta con Torzi, e di essere parte di un sistema che sfavoriva la Santa Sede.
Il sostituto difende le sue decisioni nel proteggere l’investimento di Londra, nota il lavoro che ha fatto nel riorganizzare le stesse finanze della Segreteria di Stato, e soprattutto spiega che la decisione di pagare per riprendere possesso del Palazzo di Londra era l’unica percorribile. Una causa legale sarebbe durata anni, e che con i contratti in essere sarebbe anche potuta concludersi in maniera sfavorevole per la Santa Sede. Avendo ripreso il controllo del Palazzo, avendo “ritarato” l’investimento secondo caratteristiche più consone alla Santa Sede (con ridestinazione d’uso), e nonostante l’accensione di un nuovo mutuo dovuta al fatto che lo IOR prima aveva accettato, e poi improvvisamente rifiutato, di finanziare l’operazione; insomma, in tutte queste circostanze l’investimento ora è più fruttuoso, e può portare un buon profitto nonostante le ingenti perdite.
La Segreteria di Stato ha comunque deciso di costituirsi parte civile al processo, perché dalle azioni di alcuni degli imputati avrebbe subito danni. Sarà da vedere quali saranno le conseguenze della scelta, se verrà provato in sede di processo che anche il Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, aveva approvato le operazioni.
Le indagini
In questo senso, colpisce l’assenza tra gli imputati di monsignor Perlasca, che pure è stato indagato e interrogato sei volte, e che però non è stato ritenuto responsabile di crimini dai magistrati vaticani. Non si sa se abbia pesato, in questo, la sua attiva collaborazione con i magistrati vaticani, arrivata dopo una iniziale ostilità.
Resta il fatto che le indagini stesse sono state oggetto di critiche, nemmeno troppo velate. Lo scorso marzo il giudice Tony Baumgartner aveva ribaltato una decisione iniziale di una corte inglese di accordare il sequestro dei conti correnti di Torzi su richiesta vaticana.
Nella sua sentenza, Baumgartner aveva persino messo in discussione l’affidabilità delle indagini vaticane, descrivendole spesso con le parole “mischaracterization” e “misinterpretation”, e sollevando alcune domande.
Per esempio: se Torzi era davvero considerato un imbroglione, perché gli è stato permesso di incontrare il Papa ed è stato trattato con cortesia? Perché l’arcivescovo Edgar Pena Parra ha accettato di pagare 15 milioni a Torzi per l’acquisto della proprietà di Londra, che era già formalmente nelle mani della Santa Sede?
A riprova di ciò, Baumgartner includeva una email di Pena Parra a Torzi, inviata il 22 gennaio 2019, in cui si negoziava un prezzo per l’acquisizione delle azioni. Baumgartner considera l’email come una prova di una negoziazione in corso, mentre il promotore di giustizia vaticano descrive l’email come parte di un clima particolarmente difficile, e che addirittura sembra ci si trovi di fronte ad una “supplica della Segreteria di Stato a Gianluigi Torzi”.
Nella sentenza di rinvio a giudizio dei dieci imputati (quasi 500 pagine che riassumono decine di migliaia di pagine di documentazione), ben sette pagine sono destinate proprio a rispondere alle obiezioni di Baumgartner, lamentando anche una presunta mancanza di collaborazione da autorità estere.
Certamente, le indagini hanno lasciato aperte molte domande, e si spera che alcune troveranno risposta in dibattimento. Un dibattimento che si preannuncia lungo e duro. E che vede, dietro le quinte, persino una diatriba tra presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone, e Promotori di Giustizia, Gian Piero Milano e Alessandro Diddi. Questi hanno chiesto lo scorso luglio al presidente Pignatone di revocare la sua ordinanza “nella parte in cui ha statuito il deposito dei file audio video” che hanno registrato le deposizioni di monsignor Perlasca contro il Cardnale Becciu. E questo per via della possibilità che questi file possano essere eventualmente pubblicati, andando così contro le norme della privacy, non essendoci stata autorizzazione a ripresa fotografica o audiovisiva.
Dicendo no al presidente del Tribunale, i pm vaticani hanno chiesto di considerare che “quanti hanno presenziato agli atti istruttori non hanno dato consenso alla riproduzione e alla divulgazione in qualsiasi forma di file contenenti le registrazioni e, anzi, hanno accettato la registrazione sul presupposto e nella consapevolezza che la stessa fosse funzionale solo ad una più fedele verbalizzazione degli atti”. Da qui la richiesta di revocare la richiesta perché diversamente “risulterebbe irreparabilmente compromesso il diritto alla riservatezza delle persone coinvolte”.
Per lo stesso motivo, i pm vaticani hanno detto no anche alla richiesta della difesa di Torzi di acquisire registrazioni audio delle intercettazioni svolte durante l’indagine.
Il fatto che i promotori di giustizia dicano no ad una esplicita richiesta del presidente del Tribunale fa registrare un precedente importante, e sarà da definire quanti altri “pm” hanno questa libertà nei confronti del loro presidente.
I promotori di Giustizia
In questa vicenda, i promotori di Giustizia sono stati i veri protagonisti. Papa Francesco si è fidato del loro giudizio, ha dato loro carta bianca, e, di fatto, ha in qualche modo avallato il loro impianto accusatorio. E lo ha fatto alla vigilia di un giudizio, quello del comitato Moneyval del Consiglio d’Europa, che sarebbe andato a stabilire come il tribunale vaticano fosse efficace nel dare seguito alle segnalazioni di intelligence. L’ultimo rapporto MONEYVAL, nonostante la narrativa trionfalistica (addirittura, la soddisfazione per il rapporto è stata inclusa nel bollettino di un Consiglio dei Cardinali, mentre prima il lavoro concreto della Santa Sede sul tema era portato avanti con discrezione) non era stato particolarmente positivo per la Santa Sede.
Nel punto 257 del rapporto MONEYVAL, si notava come nel rapporto sui progressi del 2019 era stata segnalata una “vulnerabilità nel fatto che non tutti i promotori di giustizia offrono servizi esclusivi alla Santa Sede / Stato di Città del Vaticano”. Sempre lo stesso punto metteva in luce che “potenziali conflitti professionali e incompatibilità non poetssero essere esclusi”, e quindi chiedeva di considerare che i prossimi pm avrebbero dovuto lavorare, durante il tempo di nomina, solo per Santa Sede / Stato di Città del Vaticano”, e di non “fare pratica legale allo stesso momento in altre giurisdizioni”. Da dove veniva questa annotazione?
Scorrendo l’organigramma dei tribunali vaticani , si scopre che il giudice Riccardo Turrini Vita è Direttore Generale della formazione, Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Ministero della Giustizia italiano; il giudice Carlo Bonzano è avvocato a Roma, così come il giudice Paolo Papanti Pellettier, che risulta anche essere Presidente del Tribunale Magistrale di Prima istanza dell’Ordine di Malta. Anche il Promotore di Giustizia Gian Piero Milano è nel Tribunale di prima istanza dell’Ordine di Malta, mentre lavorano come avvocati a Roma i Promotori di Giustizia Roberto Zannotti e Gianluca Perone.
Avvocato a Roma è anche Alessandro Diddi, Promotore di Giustizia vaticano, che sta investigando sul palazzo di Londra. Diddi ha tra i suoi clienti, Salvatore Buzzi, condannato a circa 18 anni di reclusione nel caso “Mondo di mezzo” a Roma, noto alle cronache come “Mafia Capitale”.
Interessante notare che il procuratore generale di Roma al tempo del caso “Mondo di Mezzo” era proprio Giuseppe Pignatone, attuale presidente del Tribunale vaticano.
Le domande aperte
Alla fine, dopo lo scandalo, sono stati decapitati i vertici dell’Autorità di Informazione Finanziaria che pure avevano permesso alla Santa Sede di avere una ampia credibilità internazionale. In più, la Segreteria di Stato, coinvolta nello scandalo, ha perso la sua centralità nella Curia, e come prima cosa ha perso il controllo degli investimenti. E i giudici vaticani, tra l’altro tutti italiani e con interessi in Italia hanno acquisito un grande potere discrezionale all’interno dello Stato di Città del Vaticano. Un potere che va al di là anche della Santa Sede e dei suoi officiali. Si sono rovesciati i rapporti di forza. Lo Stato di Città del Vaticano esiste per sostenere la Santa Sede. Oggi, gli interessi di Stato sembrano essere andati in qualche modo a “mangiare” la Santa Sede.
È il segno di una “vaticanizzazione” della Santa Sede che prendendo sempre più corpo, tra le pieghe di una indagine che lascia molte domande aperte e poche risposte.
Per esempio: se il Papa ha sospeso il segreto di ufficio, allora è valido anche il sequestro di materiale di intelligence nello scambio tra l’Aif e Unità di Informazione Finanziaria estere. Ma come mai, dopo quel sequestro, l’Egmont Group ha sospeso la Santa Sede dal suo network sicuro, e lo ha riammesso solo dopo la firma di un protocollo di intesa tra AIF e Promotore di Giustizia vaticano?
Sono questioni che mostrano che questo processo non riguarda solo scandali interni il Vaticano. Ogni dettaglio può andare a toccare la natura stessa della sovranità della Santa Sede, proprio perché tutto è stato fatto considerando la Città del Vaticano, con i suoi giudici, come sistema assoluto. Non si tratta di non lavorare per la trasparenza e la giustizia. Si tratta di cercare di farlo non buttando giù un sistema costruito con pazienza, che serve proprio a mantenere l’identità internazionale della Santa Sede. E non si tratta di non perseguire i corrotti, ma piuttosto di comprendere a grandi linee i funzionamenti (o malfunzionamenti) e nel caso nell’apportare correttivi.
Sono questi i temi di quello che non è, come viene spesso liquidato, il processo di Becciu. È un processo che dovrebbe richiedere alla Santa Sede uno sforzo di riforma e giustizia. Ma, per farlo, forse dovrebbe riformare proprio il modo in cui amministra la giustizia.
Vaticano, processo sul Palazzo di Londra. Domani si decide come procedere
Seconda udienza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato ancora dedicata alle eccezioni procedurali. La proposta del promotore di Giustizia. Le risposte degli avvocati
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , martedì, 5. ottobre, 2021 15:00 (ACI Stampa).
Domani mattina, Giuseppe Pignatone, presidente del Tribunale Vaticano, risponderà a tutte le eccezioni sollevate dagli avvocati difensori dei dieci imputati del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, e valuterà se accettare o meno la proposta del promotore di giustizia. Gli avvocati notano vari vizi procedurali, e chiedono la nullità della citazione in giudizio. Il promotore di Giustizia, invece, propone addirittura che gli atti siano restituiti al suo ufficio, per ripartire da zero e procedere di nuovo agli interrogatori.
Entrambe le decisioni potrebbero rappresentare un colpo di scena nelle dinamiche del processo, che tra l’altro ha ricevuto grande attenzione mediatica anche per le modalità in cui si è proceduto: il Papa ha autorizzato, infatti, un procedimento sommario, e ha poi siglato quattro rescritti che hanno anche sospeso il segreto di ufficio nell’ambito delle indagini, esercitando una sua prerogativa, ma dimostrando un attivismo che ha in qualche modo cambiato le carte in tavola del processo.
E a questo si è riferito il Promotore di Giustizia aggiunto Alessandro Diddi, quando ha parlato di “pressione mediatica” per mettere a rischio la “terzietà” del processo, ricusando l’accusa di aver fabbricato prove false, e allo stesso tempo proponendo una riacquisizione degli atti da parte del suo ufficio per procedere agli interrogatori dando tutti i diritti alla difesa.
L’intervento di Diddi ha rappresentato l’inizio di un dibattimento durato 2 ore e 10 minuti. Gli avvocati di parte civile (IOR, APSA, Segreteria di Stato vaticana) hanno supportato le richieste del Promotore di Giustizia, mentre gli avvocati difensori hanno rilanciato sulle questioni di nullità. Al centro di tutto c’è il mancato deposito della registrazione audio / video degli interrogatori di monsignor Alberto Perlasca, per 12 anni capo dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato. Inizialmente indagato, monsignor Perlasca ha poi reso cinque dichiarazioni spontanee, registrate, ma delle quali è stato fornito solo un verbale.
Alla richiesta del presidente del Tribunale di depositare la registrazione nella cancelleria del Tribunale, per renderla disponibile, i promotori hanno opposto un diritto alla privacy delle persone coinvolte.
Buona parte dell’udienza ha riguardato proprio questa eccezione. L’avvocato Panella, che difende l’investitore Enrico Crasso e altre posizioni, ha notato i verbali sono confermati dagli avvocati, ma questo non vale per Perlasca, il quale si è presentato in una sola occasione con un avvocato, poi da lui revocato. Mentre l’avvocato Viglione, che difende il Cardinale Angelo Becciu, ha notato che le registrazioni sono necessarie, tanto che in un verbale si fa riferimento ad un interrogatorio precedente, solo che in quell’interrogatorio non ci sono i dati citai nel verbale successivo.
Altre eccezioni hanno riguardato anche la mancata disponibilità per la difesa di tutti gli atti, tanto che l’avvocato Bassi, che difende l’ex officiale della sezione amministrativa della Segreteria di Stato, ha messo in campo anche la possibile nullità per la “denegazione della giustizia”, tra l’altro previsto dal codice di procedura penale del 1913 in vigore in Vaticano.
Su quel codice si gioca anche l’opposizione del promotore di Giustizia a fornire i file audio e informatici, perché questi non sono ovviamente previsti da un codice redatto da prima dell’era del computer. Gli avvocati della difesa notano, però, che si parla di una totale disponibilità dei documenti, e documenti sono anche file e registrazioni audio video.
Non si tratta solo di diatribe procedurali. Lo stesso presidente Pignatone ha fatto notare che le difese devono avere a disposizione tutti gli atti. Al promotore di Giustizia che sottolineava come gli atti informatici ammontassero a 300 dvd, ma non tutto il materiale era rilevante per il processo, Pignatone ha spiegato che poteva espungere i dati non rilevanti prima della citazione in giudizio. “Abbiamo sbagliato”, ha risposto Diddi.
Altro tema, è la costituzione in parte civile dell’APSA, che ha preso la gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Per i difensori, potrebbe portare ad un “raddoppio della pretesa risarcitoria”, eventualità negata dai rappresentanti legali dell’APSA e della Segreteria di Stato.
C’è poi il tema delle garanzie giudiziarie. L’avvocato Borgogno, difensore dell’ex direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria Tommaso Di Ruzza, si è detto sorpreso dal “garantismo di ritorno del promotore di giustizia”, considerando che “Di Ruzza è stato oggetto di provvedimenti severi (sequestri e la sospensione dall’incarico)”, e che è “stato interrogato solo sei mesi dopo” su insistenza della difesa. L’avvocato Di Nacci, che difende l’ex presidente dell’AIF René Bruelhart, ha messo in luce il rischio di “stasi processuale”.
Su tutto questo, il presidente del Tribunale è chiamato a decidere. Se saranno accolte le eccezioni dei difensori, si rischia anche una nullità della citazione in giudizio. Se sarà accolta la richiesta del promotore di Giustizia, allora si ripartirà con gli interrogatori. Oppure il Tribunale troverà una terza via.
Processo Palazzo di Londra, tutto parzialmente da rifare
Il presidente del Tribunale Pignatone dispone che siano depositati tutti gli atti ancora non depositati. Alcuni fascicoli ritornano al Promotore. La richiesta di definire la posizione di monsignor Perlasca al processo
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , mercoledì, 6. ottobre, 2021 13:00 (ACI Stampa).
La richiesta di definire la posizione di monsignor Albero Perlasca. L’ordine di depositare tutti gli atti, incluse le intercttazioni. La parziale restituzione degli atti all’Ufficio del Promotore di Giustizia perché vengano rifatte le indagini, come richiesto dallo stesso promotore. Nella terza udienza sul processo della gestione dei fondi della Santa Sede, il presidente del Tribunale, Giuseppe Pignatone, decide di fare una parziale marcia indietro. Non c’è dichiarazione di nullità per la citazione in giudizio, come richiesto ieri dagli avvocati, né c’è un “reset” totale con restituzione degli atti all’accusa, come chiesto dal promotore di Giustizia. Ma c’è la considerazione della fondatezza di alcune eccezioni presentate dagli avvocati, con la decisione di ricominciare da zero per sanare eventuali posizioni.
Quello che probabilmente colpisce di più è la richiesta di definire la posizione di Monsignor Alberto Perlasca. La richiesta dell’audio video del suo interrogatorio è stata al centro delle eccezioni degli avvocati, considerando che monsignor Perlasca era prima indagato e poi è diventato una sorta di super-testimone, con dichiarazioni spontanee i cui verbali non erano stati supervisionati da un avvocato.
Il presidente Pignatone ha notato che il promotore di Giustizia vaticano aveva, nell’udienza del 27 luglio, inizialmente acconsentito a fornire la registrazione, sottolineando che era stata fatta con il consenso di tutti. Solo il 9 agosto, per rispondere ad una ordinanza del tribunale, il promotore Diddi aveva rifiutato il deposito del materiale, opponendo, tra le altre cose, ragioni di privacy delle persone coinvolte.
Il Tribunale non solo ha reiterato la consegna dei video, e di tutti gli atti ancora non depositati, ma ha anche chiesto “che il Promotore di Giustizia comunichi se monsignor Alberto Perlasca sia imputato in questi o altri procedimenti, e per quali reati, onde poterne apprezzare la veste processuale in future attività istruttorie”.
La richiesta è un colpo durissimo all’accusa e all’impianto del processo. Così come una analisi delle posizioni stralciate mette in discussione anche le stesse indagini, tra l’altro già contestate lo scorso marzo da un giudice inglese revocando un provvedimento richiesto dal Promotore di Giustizia vaticano contro Gianluigi Torzi.
Perché se la posizione di Perlasca è da chiarire, devono tornare al promotore anche alcuni atti delle indagini sul Cardinale Angelo Becciu, in particolare per il reato di subornazione (era accusato di aver fatto pressioni a monsignore Perlasca per ritrattare). Da rifare anche il procedimento per le accuse di peculato, e in particolare per la destinazione dei fondi alla coop S.P.E.S. e alla Caritas di Ozieri.
Tornano al promotore di giustizia tutti i fascicoli di don Mauro Carlino, all’epoca dei fatti segretario del sostituto Peña Parra, anche quelli del broker Raffaele Mincione, il primo ad occuparsi dell’affare del Palazzo di Londra, quelli dell’avvocato Squillace, e quelli di Fabrizio Tirabassi, officiale dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato. Si riparte dunque da zero, con nuovi interrogatori, in una situazione completamente diversa.
Il fascicolo di Enrico Crasso, gestore dei fondi della Segreteria di Stato, è rimandato al promotore di giustizia per le accuse di reati di peculato, di truffa (una riguardante anche il fondo Centurion, poi dismesso dalla Segreteria di Stato), e corruzione. Da rifare anche i procedimento per le accuse di peculato a Logsic e il procedimento per truffa a tre società riconducibili a Crasso.
Per Tommaso Di Ruzza, ex direttore dell’AIF, vengono rimandati al promotore gli atti riguardanti il presunto reato di peculato. Un dato che colpisce, perché l’accusa di peculato era quella utilizzata per fare breccia nell’impianto accusatorio. Il fatto che Pignatone abbia deciso di rimandarla agli atti è un segnale da non sottovalutare.
Ora tutto è rinviato al 17 novembre, mentre il presidente del Tribunale ha ordinato che entro il 3 novembre il promotore depositi tutti gli atti, incluse le registrazioni audio e video degli interrogatori, a partire da quelli di monsignor Perlasca, e anche le intercettazioni. Non solo. Pignatone ha anche disposto che le parti che ne facciano richiesta possano prendere visione del materiale sequestrato, anche quello informatico, lì dove si trova adesso, e di richiederne copia.
https://www.acistampa.com/story/18185/processo-palazzo-di-londra-tutto-parzialmente-da-rifare-18185
Processo Palazzo di Londra, quanto è coinvolto il Papa?
In uno degli audio video degli interrogatori di monsignor Perlasca, il promotore di Giustizia sottolinea che è stato già chiesto al Papa come sono andati i fatti. Processo rinviato, per decidere su altre eccezioni di invalidità
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , mercoledì, 17. novembre, 2021 17:00 (ACI Stampa).
“Monsignore, non c’entra niente. Noi prima di fare quello che siamo facendo siamo andati dal Santo Padre e abbiamo chiesto cosa è accaduto”. Lo dice il promotore di Giustizia Diddi in un interrogatorio a monsignor Alberto Perlasca, che è stato direttore dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato per 12 anni. E la registrazione di questo breve scambio è stata portata oggi nell’aula del Tribunale, nella terza udienza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Un processo che non è ancora cominciato, e “chissà quando comincerà”, ha chiosato ironicamente il presidente del Tribunale Vaticano Giuseppe Pignatone. Perché oggi sono state presentate altre eccezioni e richieste di invalidità, e la decisione sarà comunicata l’1 dicembre.
Al centro del processo, la vicenda dell’investimento della Segreteria di Stato in un immobile di lusso a Londra. Dei dieci imputati e quattro società coinvolte, gli stralci processuali decisi dal presidente del Tribunale Pignatone hanno lasciato solo sei imputati. Per gli altri, si sta rifacendo l’investigazione, in attesa di una eventuale nuova citazione in giudizio.
Sono tre le novità principali venute fuori dall’udienza. La prima è, appunto, questo coinvolgimento del Papa. Il promotore di Giustizia Alessandro Diddi si rifà alla conferenza stampa in aereo del Papa di ritorno dal Giappone del 26 novembre 2019, durante il quale Papa Francesco ha ricordato come il Promotore di Giustizia abbia “studiato la cosa, fatto le consultazioni e visto che c’era uno squilibrio nel bilancio”, e ha chiesto il permesso di fare le perquisizioni, che il Papa ha firmato. Insomma, Diddi ha parlato con Papa Francesco in quella occasione, e ha ricevuto tutte le autorizzazioni del caso.
Il punto, però, per l’avvocato Panella è diverso. Visto che in Vaticano ci si rifà al codice Finocchiaro – Aprile del 1913, allora il Papa, come sovrano, non poteva essere sentito. Ma, dato che il Papa fa giurisprudenza, allora il Papa rende possibile questa testimonianza, e deve essere verbalizzato.
Questioni di lana caprina? Da un certo punto di vista, sì. Dall’altro, va considerato che Papa Francesco è intervenuto nel processo firmando quattro diversi rescritti, e che la sua presenza è stata anche documentata dal Tribunale vaticano nella stanza dove si stava negoziando l’uscita dal broker Torzi dal controllo delle quote del palazzo di Londra.
La seconda novità: sia l’avvocato Panella che l’avvocato Viglione, che difende il Cardinale Becciu, hanno notato la presenza di diversi omissis nei video degli interrogatori. Si tratta di 53 dvd (52 di audio video di interrogatori a monsignor Perlasca e ad altri, 1 di intercettazioni) che dovevano essere depositati, da ordine del Tribunale, entro il 3 novembre. Sono stati depositati solo il 3 novembre stesso, e dunque per le difese è stato arduo studiare fino in fondo la documentazione.
Vengono contestati sia i molti omissis, considerando che poi di questi omissis non c’è traccia nei verbali, dove si trovano le stesse dichiarazioni oscurate nei video, sia la mancanza di “integralità” del materiale consegnato. Panella, che ha assunto anche un perito per visionare il materiale, fa anche notare che c’è un verbale di un interrogatorio di Perlasca di 11 pagine, a fronte di un materiale video di ben 7 ore. E Viglione nota che tutto quello che si chiede è “il diritto a difendersi”, lamentando anche che non sono state consegnate le copie forensi da lui richieste.
Sulla questione delle copie forensi, Diddi spiegherà poi che non ha ricevuto la richiesta, il presidente del Tribunale sottolineerà che c’è stato probabilmente un difetto di comunicazione tra la Cancelleria e il Promotore, e dunque probabilmente questa questione verrà sanata.
Sulla questione degli omissis, invece, Diddi sottolinea che questi sono nati dal fatto che “purtroppo sono stati aperti altri procedimenti e quindi dovendo dare attuazione alla vostra ordinanza ci siamo posti il problema del segreto investigativo”. In pratica, la notizia è che ci sarebbero altri procedimenti correlati al processo, altre indagini di cui non c’è stata notizia, e che sarebbero sei nuove istruttorie, alcune precedenti alla vicenda del palazzo.
Poi c’è la questione della presunta testimonianza del Papa. Perlasca stava parlando nell’interrogatorio del 19 aprile 2020, e le domande riguardavano le accuse di corruzione per Crasso. Diddi lo ha interrotto dicendo che, avevano, appunto, parlato con il Papa, cosa che tra l’altro per l’avvocato Panella è una pressione se detta ad un prete che ha il dovere di obbedire al Papa. Diddi la ha spiegata così: “C’è un momento in cui spesso accade in tutti gli interrogatori in cui Monsignor Perlasca si stava andando a sbattere contro un muro e il promotore lo ha avvertito, perché avevamo consapevolezza di tutti gli atti”.
La terza novità riguarda invece la nomina di un giudice aggiunto, Lucia Bozzi. La decisione è venuta da una ordinanza di Pignatone. Lucia Bozzi era stata nominata magistrato applicato il 19 maggio 2021, vale a dire un magistrato chiamato a servire il tribunale per tre anni, figura prevista dalla nuova legge dell’ordinamento dello Stato di Città del Vaticano promulgata il 16 marzo 2020 con un motu proprio. È un dato interessante, perché da una parte si nota la volontà di portare avanti il processo in maniera spedita (il magistrato aggiunto può anche subentrare in caso di assenza di uno dei tre del collegio), dall’altra mette in luce un nuovo protagonismo del Tribunale vaticano.
Va considerata, in questo senso, anche la nomina di un promotore di Giustizia applicato nella persona dell’avvocato Gianluca Perone, e la nomina di Catia Sumaria come promotore di Giustizia della Corte di Appello vaticana, incarico poi in qualche modo venuto meno con il motu proprio di Papa Francesco recante “modifiche in materia di giustizia” che, di fatto, ridimensionava molto il ruolo della Corte d’Appello vaticana, stabilito l’8 febbraio 2021, che di fatto sembrava concentrare Tribunale e Corte di Appello in un solo ufficio del Promotore.
Il processo ora si aggiorna all’1 dicembre. Da una parte, gli avvocati continuano a sottolineare ampi profili di invalidità nelle procedure, arrivando anche a chiedere la nullità del processo. Dall’altra, il Promotore di Giustizia vaticano si difende quasi con stizza, proclamando la legittimità delle procedure. Di fatto, ci sono state delle mancanze giuridiche sul tema dei diritti fondamentali che il presidente Pignatone ha provato a sanare rimandando alcune posizioni al Promotore di Giustizia.
Sembra, dunque, spostarsi il centro del dibattito sul processo. Non si tratta più del problema di gestione di investimenti. Si tratta ora di capire come viene esercitata la giustizia in Vaticano. E l’ingresso del Papa nello scenario sarà centrale nel corso del processo.
https://www.acistampa.com/story/18504/processo-palazzo-di-londra-quanto-e-coinvolto-il-papa-18504
Processo per il palazzo di Londra, il Tribunale fa trascrivere tutte le testimonianze
Pignatone lo aveva detto che il processo non sarebbe partito fino al deposito di tutti gli atti. Prossima udienza il 25 gennaio, sperando che sia l’ultima della fase preliminare
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Processo Palazzo di Londra | Una delle udienze del processo in Vaticano | Vatican Media / ACI Group
Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , martedì, 14. dicembre, 2021 12:30 (ACI Stampa).
Tutti gli interrogatori videoregistrati del processo sulla gestione di fondi in Segreteria di Stato devono trascritti entro il 10 gennaio 2022. A quel punto, ci sarà il 25 gennaio un’altra udienza, con la speranza che anche le quattro posizioni stralciate dal processo rientrino nei binari o ne escano definitivamente, per poi presumibilmente entrare nel vivo del processo già a febbraio. Il presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, calendarizza così i prossimi appuntamenti del processo che si sta celebrando in Vaticano.
Al centro del processo, la vicenda dell’investimento della Segreteria di Stato in un immobile di lusso a Londra. Dei dieci imputati (tra cui il Cardinale Angelo Becciu) e quattro società coinvolte, gli stralci processuali decisi dal presidente del Tribunale Pignatone hanno lasciato solo sei imputati. Per gli altri, si sta rifacendo l’investigazione, in attesa di una eventuale nuova citazione in giudizio.
L’udienza di oggi, inizialmente prevista all’1 dicembre e poi rinviata di due settimane perché in quel giorno il Tribunale vaticano era impegnato in altri due procedimenti, serviva per rispondere alle ulteriori eccezioni che erano state avanzate lo scorso 17 novembre, quando i difensori lamentarono la parzialità delle registrazioni, la difficoltà a reperire gli atti (un problema di comunicazione poi sanato), e arrivarono a discutere anche un eventuale intervento del Papa. Il presidente Pignatone, in quell’occasione, era stato chiaro: il processo non sarebbe partito se le difese non avrebbero avuto in mano tutti i documenti per potersi difendere.
Così, lo stesso Pignatone fa subito sapere di aver “disposto l’incarico di trascrizione degli interrogatori videoregistrati degli imputati del processo come era a luglio” (cioè, con tutti gli imputati, anche quelli la cui posizione è stata poi stralciata), e anche di “monsignor Alberto Perlasca”, testimone chiave dell’accusa.
Il termine per consegnare le registrazioni è al 10 gennaio 2022, e si è fissata la prossima udienza al 25 gennaio 2022, alle ore 12.
Una udienza che Pignatone stesso definisce “transitoria, speriamo per l’ultima volta”, in cui si fisserà la data per i rinvii a giudizio o l’archiviazione dell’altro troncone di indagini, e poi ci sarà un’altra udienza, che sarà fissata dopo la metà di febbraio, in cui i due tronconi dovrebbero essere riunificati e si spera che si possa cominciare ad entrare nel vivo del processo.
Note a margine: l’avvocato di Enrico Crasso, Panella, ha chiesto la possibilità di nominare un consulente che partecipi ai lavori di trascrizione, ma Pignatone ha detto che questo non è previsto dall’ordinamento vaticano, e che comunque le trascrizioni potranno poi essere confermate e riviste.
“Siamo un cantiere aperto – ha detto Pignatone - Quando il promotore avrà deciso le sue posizioni, il tribunale intende, se ci sarà richiesta di citazione in giudizio, il Tribunale intende riunire i processi per meglio difendere gli interessi degli imputati, altrimenti non avrebbe senso. È chiaro a quel momento tutte le richieste istruttorie ripartiranno da zero”.
Tra le altre cose, Pignatone ha anche ricordato che i supporti informatici non sono in cancelleria, ma in luoghi “prestati” dalla Gendarmeria, e per consultarli ci si deve accordare con chi li tiene in custodia.
Pignatone ha chiesto anche al Promotore di Giustizia di spiegare lo stato degli atti per quanto riguarda l’accusa. Ha preso la parola il Promotore di Giustizia applicato Gianluca Perone, il quale ha spiegato che dei quattro imputati rinviati al promotore “solo uno si è reso disponibile all’interrogatorio”, ma che comunque si conta di concludere entro la metà di gennaio 2022, e precisamente entro il 20.
Perone ha poi ricordato che nell’ultima udienza sono state reiterate eccezioni di nullità del processo, che hanno anche lamentato l’assenza di atti. E per questo, il Promotore di Giustizia ha annunciato che è stata depositata una specifica memoria che indica dove sono gli atti ritenuti mancanti.
Successivamente, il Promotore di Giustizia ha voluto specificare con una dichiarazione che questa decisione non va vista come una accettazione delle tesi dell’accusa sulla mancanza di documenti.
“Nell’esprimere apprezzamento – scrive l’ufficio del Promotore - per l'ordinaria dialettica tra le parti, accusa e difesa, che conferma la solidità dell’impianto processuale, si ribadisce che tutti i documenti fonte di prova erano stati depositati e sono rinvenibili negli atti del giudizio. Ad oggi, tuttavia, nessuno degli imputati ha chiesto di consultare le copie forensi”.
Processo Palazzo di Londra, tutto si definisce il 18 febbraio
Continua la fase preliminare del processo sulla gestione di fondi della Segreteria di Stato. Le difese eccepiscono ancora nullità. Archiviato il reato di peculato per Di Ruzza
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , martedì, 25. gennaio, 2022 16:45 (ACI Stampa).
Tutto rinviato al 18 febbraio. La sesta udienza del processo che riguarda la gestione dei fondi in Segreteria di Stato, è iniziata con due ore e dieci di ritardo perché nella mattinata sono state depositate da parte del Promotore di Giustizia le richieste di citazioni in giudizio delle cause che erano state originariamente stralciate dal procedimento, e il presidente ha “semplicemente firmato”, fissando la discussione sui nuovi rinvii a giudizi e delle eccezioni alla data del 18 febbraio prossimo, in cui si riuniranno i due tronconi del processo.
Tutti assenti gli imputati, incluso il Cardinale Angelo Becciu, che pure aveva partecipato a tutte le udienze finora. Le citazioni in giudizio vengono notificate oggi alle parti, con alcune decine di pagine di motivazioni. Le nuove citazioni in giudizio riguardano tutti gli imputati che erano stati stralciati (Mincione, Tirabassi, Squillace e monsignor Mauro Carlino), ma non è stato definito se sono stati ri-ipotizzati tutti i reati stralciati o solo alcuni. Per il Cardinale Becciu è stata chiesta la citazione in giudizio anche per l’ipotesi di reato di subornazione di testimone, che era stato inizialmente stralciato. Chiesta l'archiviazione per l’ipotesi di reato di peculato attribuita a Tommaso Di Ruzza, ex direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria, che era stata stralciata.
Il 18 febbraio, dunque, si uniscono i due tronconi del processo, e si decide ancora delle eccezioni di nullità. L’avvocato del Cardinale Becciu, Viglione, ha lamentato che dei 255 supporti informatici sequestrati, 239 non sono stati rilasciati in copia, ma ne sono stati rilasciati solo 16, nessuna delle copie conferite può essere qualificata come copia forense, e “la totalità delle copie è costituita da dati più che parziali”.
Viglione ha anche sottolineato che sono state consegnate solo copie di selezioni del materiale, senza però che il criterio della scelta fosse stato comunicato alla difesa, e questo “impedisce di operare qualsiasi verifica, non c’è un verbale sui criteri di scelta o di selezione”.
Viglione ha dunque chiesto la nullità del decreto per mancato deposito, ma anche la nullità per violazione delle regole dell’interrogatorio, a motivo del fatto che tra le domande del promotore di Giustizia a Perlasca ci sono insinuazioni su un rapporto di altro tipo tra il Cardinale Becciu e Cecilia Marogna e anche affermazioni offensive riguardo la provenienza del Cardinale dalla Sardegna. La nullità riguarda il diritto dell'imputato di non vedere messa in discussione la sua moralità.
L’avvocato Panella, difensore di Crasso, ribadendo queste motivazioni, ha richiamato anche l’interrogatorio del 29 aprile 2020, durante il quale a Perlasca è stato chiesto conto di un incontro tra l’ex officiale della sezione amministrativa della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi e i broker Crasso e Torzi, che “non sarebbe mai avvenuto”. “L’imputato ha diritto che non si facciano domande né sulla moralità, né su fatti mai avvenuti”, ha detto Panella. Richiesta di nullità cui si è associato l’avvocato Ruggiu, che difende Cecilia Marogna.
Il Promotore di Giustizia Alessandro Diddi ha invece sottolineato di non sapere cosa non sia stato dato, e allora il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone ha dato termine fino al 31 gennaio al promotore di giustizia di verificare insieme al consulente della difesa quali sono le parti mancanti degli atti.
Per quanto riguarda i verbali, Diddi ha detto che si è “cercato rappresentare tutto quello che è stato dichiarato, senza lasciare traccia di elementi che potessero ledere alla moralità degli indagati, e lo stesso avvocato ha sottoscritto il verbale dopo la lettura”. Sull’incontro mai avvenuto, Diddi ha risposto che “tante volte capita di fare domande su presupposti sbagliati, ma noi siamo sicuri che quell’incontro sia avvenuto”, e se poi non riusciranno a dimostrarlo, ammetteranno l’errore.
L’avvocato Lipari dello IOR, da parte sua, ha detto di rigettare l’eccezione, perché le nullità eccepite dalle difese non possono essere applicate secondo le normative cui facevano riferimento.
Processo Palazzo di Londra, l’1 marzo si decide come proseguire
Ultima udienza interlocutoria sulle eccezioni delle nullità. Le ragioni delle parti civili. La risposta del Promotore di Giustizia
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Una udienza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato | Una udienza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato | Foto: Vatican Media / ACI Group
Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , lunedì, 28. febbraio, 2022 16:30 (ACI Stampa).
Si deciderà domani se il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato andrà avanti, e secondo quale calendario. Dopo una ottava udienza durata 3 ore e 20 minuti, in cui sono state analizzate le ultime eccezioni di nullità, sono state ascoltate le parti civili ed è stato garantito diritto di replica al promotore di Giustizia, il presidente del Tribunale vaticano Giuseppe Pignatone, come previsto, si prende mezza giornata per rispondere. Ma, e lo fa mettere agli atti, non ritiene che le difese abbiamo fatto “ostruzionismo fino ad ora”, rispondendo direttamente ad una accusa, indiretta ma nemmeno velata, di aver rallentato la giustizia avanzata da una delle parti civili citando un discorso di San Giovanni Paolo II alla Rota Romana.
Ma il promotore di Giustizia Alessandro Diddi fornisce anche una stima delle perdite nell’investimento sul palazzo di Londra di Sloane Avenue, che è il filone più grande del processo. Le perdite ammonterebbero, secondo Diddi, a 217 milioni di euro. L’ultimo bilancio della Curia Romana ha affermato, comunque, che la Santa Sede ha venduto l’immobile, guadagnando anche il 10 per cento in più di quanto previsto.
Al centro del processo, vale la pena ricordarlo la vicenda dell’investimento della Segreteria di Stato in un immobile di lusso a Londra. Ci sono dieci imputati e quattro società coinvolte, e le accuse vanno anche a coprire reati diversi, facendo del processo un processo più ampio sul modo in cui venivano gestiti i fondi della Segreteria di Stato. Si sono costituite come parti civili la Segreteria di Stato, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, l’Istituto per le Opere di Religione e, ultima aggiunta con richiesta del 31 gennaio 2022, l’Autorità di Sorveglianza e Informazione Finanziaria.
Le eccezioni presentate dai difensori sentiti oggi hanno reiterato la difficoltà nel ricevere tutta la documentazione da parte della difesa, ma anche la denegata giustizia, la mancanza di una convocazione appropriata nel caso dell’avvocato Squillace (cui il promotore di giustizia ha risposto con forza, smentendo di non aver notificato interrogatori e sequestri) e vari altri errori procedurali.
L’avvocato Giovanni Flick, che rappresenta l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica costituitasi in parte civile, ha sottolineato che da sempre l’APSA è destinata a gestire i fondi della Santa Sede, ha parlato di “silenzio e reticenza” riguardo l’acquisto dell’immobile di Sloane Avenue a Roma,
L’avvocato Anita Titomanlio, che rappresenta l’ASIF, ha detto che è “stato gettato forte discredito” con ricadute reputazionali sull’Autorità di Sorveglianza e Informazione Finanziaria, con conseguenze sia nella sospensione dell’Autorità dal circuito Egmont, che raggruppa le Unità di Informazione Finanziaria di tutto il mondo, sia con una successiva ricaduta nel rapporto del comitato del Consiglio d’Europa MONEYVAL sulla Santa Sede / Stato Città del Vaticano – rapporto in cui, tra l’altro, il processo a due figure apicali dell’Autorità era messo in luce come un problema strutturale, e conteneva anche una critica dello stesso promotore di giustizia per come erano state condotte le indagini sull’Immobile di Londra.
L’avvocato Nicola Lipari dello IOR ha sottolineato di aver fornito “la provvista” per i fatti destinati dello stesso processo, vedendo ledere la sua immagine di “custode dei beni finanziari della Chiesa”. L’avvocato si riferisce alla donazione fatta dallo IOR al Santo Padre di circa 50 milioni l’anno. Manca di notare, però, che la provvista al Santo Padre è diminuita nel corso degli anni, con un calo di profitti dello Istituto difficilmente ascrivibili solo alla vecchia gestione, almeno stando ai dati dei bilanci pubblicati ogni anno.
L’avvocato Annichiarico, sempre dello IOR, ha invece difeso la legittimità dei rescritti del Papa – sono quattro – perché fatti in maniera emergenziale, come è successo anche in altri casi in Italia. Nessun “tribunale speciale, quindi”.
Diddi ha risposto punto per punto alle eccezioni, ha respinto l’accusa di non aver fornito la documentazione della quale è stata fornito “un indice dettagliato” andando oltre ai suoi compiti, e che comunque le parti civili avevano trovato i documenti di cui le difese parlavano, dunque non c’erano eccezioni da fare.
Sui rescritti, ha sottolineato che sono quattro e riguardavano diversi processi, perché diversi erano i filoni di indagine, e poi erano stati riconfermati uguali quando le varie indagini erano state riuniti.
Sulla selezione delle carte, ha detto che si è trattata di “una tempesta in un bicchiere di acqua”, che atti e documenti sono stati messi a disposizione di tutti, e addirittura digitalizzati, e che li ha riscontrati “solo la parte civile”, e non è venuto nessuno a riscontrare gli atti.
Domani, ordinanza del presidente del Tribunale Pignatone. E poi il processo dovrebbe finalmente entrare nel vivo.
Processo Palazzo di Londra, si comincia davvero il 17 marzo
Fissato per quella data l’interrogatorio al Cardinale Becciu, relativo però solo alle questioni sarde. Pignatone rigetta tutte le eccezioni delle difese
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , martedì, 1. marzo, 2022 15:00 (ACI Stampa).
Dopo sette mesi, il processo vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato entra nel vivo. Si comincia il prossimo 17 marzo, con un interrogatorio al Cardinale Giovanni Angelo Becciu, ma solo limitatamente ai fondi arrivati in Sardegna alla diocesi di Ozieri e alla cooperativa Spes. Poi, il 18 marzo, con la presentazione degli atti e dei documenti, e così via, due udienze consecutive ogni due settimane, fino ad esaurimento, a partire dai testimoni chiesti dal Promotore di Giustizia vaticano.
Con una lunga ordinanza in 22 punti, in cui entra nel dettaglio di tutte le eccezioni prodotte dagli avvocati dei dieci imputati, Giuseppe Pignatone, presidente del Tribunale vaticano, ha rigettato tutte le eccezioni difensive. Ha accolto, però, la richiesta di depositare i decreti di archiviazione per monsignor Alberto Perlasca e per l’officiale di Segreteria di Stato Vincenzo Mauriello. Da questi decreti di archiviazione, si potrà capire come l’accusa ha tarato la sua ricostruzione degli affari di Londra.
Tutte le nullità di Pignatone partono dalla premessa che i riferimenti fatti, nel corso del dibattimento, alla Costituzione Italiana, o anche alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, non sono pertinenti perché in Vaticano c’è un ordinamento diverso. Pignatone ha sottolineato che in Vaticano non c’è un processo speciale, che i rescripta del Papa (quattro) non vanno ad inficiare il giusto processo, che anzi è garantito dalla legge 351 del 13 marzo 2013 e dall’articolo 35 della legge IX del luglio 2013.
In particolare, riguardo il mancato deposito di alcuni atti da parte del promotore, o degli omissis che sono negli atti, Pignatone ha considerato risolta la questione delle eccezioni con i depositi del 3 novembre 2021 da parte del promotore, e dunque l’eccezione è stata sollevata. Pignatone ha detto anche di “non avere il potere di ordinare ai promotori” di depositare ulteriore documentazione, perché nel sistema vaticano decide il promotore quali atti siano necessari.
Tutte accettate le parti civili, così come è stato accettata la possibilità di risarcire anche per danni non patrimoniali. Sono considerati validi anche gli interrogatori di monsignor Alberto Perlasca.
Gli avvocati difensori hanno eccepito la nullità dell’ordinanza, e in particolare con riserva sui rescripta del Papa, che – ha detto l’avvocato Panella – “non sono nel codice e non sono una legge, altrimenti si dovrebbe ammettere legge segreta”.
L’avvocato Ruggiu di Cecilia Marogna ha sottolineato che la sua assistita ha chiesto di essere sollevata dal segreto da Nato, Segreteria di Stato e Italia, e che teme per la sua incolumità.
Si comincia, dunque, il 17 marzo. Il Cardinale Becciu risponderà solo sulla questione dei fondi alla diocesi di Ozieri e alla cooperativa Spes, ma non sugli altri due filoni di indagine, che riguardano appunto Marogna e Sloane Avenue. Il 18 marzo, gli avvocati sono chiamati a chiedere altre prove. Successivamente, si definiranno anche eventuali testimoni della difesa.
Pignatone ha anche provveduto di restituire il materiale sequestrato, e di fare istanza di dissequestro, ed eventualmente di fare istanza di visionare il materiale prima che sia dissequestrato, fermo restando che il Promotore di Giustizia dovrà accogliere le richieste. Le richieste vanno presentate entro il 7 marzo.
Processo Palazzo di Londra, il cardinale Becciu: “Contro me, accuse mostruose”
L’ex sostituto della Segreteria di Stato risponde alle domande sul denaro inviato alla Caritas in Sardegna. “Solo per fini di carità”, spiega. Altre eccezioni delle difese
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Udienza Palazzo di Londra | Una udienza del processo in Vaticano sulla gestione dei fondi in Segreteria di Stato | Vatican Media / ACI Group
Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , giovedì, 17. marzo, 2022 17:00 (ACI Stampa).
Il Cardinale Angelo Becciu, da sostituto della Segreteria di Stato, ha sottotlineato di aver inviato 125 mila euro alla diocesi di Ozieri solo per motivi di carità, e ha respito le affermazioni dei promotori di giustizia vaticani che mettevano in luce al limite un conflitto di interessi per aver giovato suo fratello, che era il direttore della Caritas.
È il giorno del Cardinale Angelo Becciu, nel processo vaticano che riguarda la gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Al centro del processo la vicenda dell’investimento della Segreteria di Stato in un immobile di lusso a Londra. Ci sono dieci imputati e quattro società coinvolte, e le accuse vanno anche a coprire reati diversi, facendo del processo un processo più ampio sul modo in cui venivano gestiti i fondi della Segreteria di Stato, e che tocca il Cardinale Angelo Becciu anche per dei fondi inviati alla Caritas della diocesi di Ozieri.
Ed è solo su questa parte, la cosiddetta “vicenda Sardegna”, che si è concentrato l’interrogatorio del presidente del Tribunale vaticano Pignatone, l’unico a porre domande dato che il Promotore di Giustizia, adducendo situazioni contingenti di emergenza nell’ufficio, si è riservato di fare successivamente il suo interrogatorio. Diddi ha fatto sapere di avere molte cose da gestire anche rispondendo alle difese che chiedevano la produzione di ulteriore materiale documentale non consegnato, portando Pignatone a chiedere al promotore di dare totale precedenza a questo procedimento.
Oggi era dunque il giorno del Cardinale Becciu, il primo porporato a testimoniare davanti al Tribunale Vaticano. Il Cardinale ha affermato di non poter negare che suo fratello Antonino Becciu fosse il legale rappresentante della Spes, che è il braccio operativo dell'operazione di beneficenza Caritas della diocesi di Ozieri, ma ha anche sottolineato che Spes avesse una lunga esperienza di buone opere nella sua diocesi d'origine.
Allo stesso tempo, entrando più nel dettaglio di come i fondi della Segreteria di Stato erano destinati, il Cardinale ha ricordato che le donazioni di denaro della Santa Sede, che era autorizzato a distribuire, rispondevano a bisogni verificabili richiesti dal vescovo di Ozieri: un'iniziativa riguardava la ricostruzione di un una panetteria bruciata che dava lavoro a giovani svantaggiati, mentre un'altra doveva costruire un centro sociale multiuso per i poveri.
Becciu ha letto una dichiarazione introduttiva alla corte, insistendo sulla sua innocenza e denunciando la campagna mediatica "violenta, volgare" scoppiata contro di lui dopo che papa Francesco ha costretto le sue dimissioni nel settembre 2020. Da allora, il cardinale Becciu ha perso le prerogative di cardinale.
“Sono stato descritto come un uomo corrotto. Avido di soldi. Sleale al papa. Preoccupato solo per il benessere della mia famiglia - ha proseguito il Cardinale Becciu - Hanno insinuato infamie sull'integrità della mia vita sacerdotale, avendo finanziato testimoni in un processo a carico di un confratello, pur essendo proprietari di pozzi petroliferi o paradisi fiscali”.
Becciu le ha definite accuse “assurde, incredibili, grottesche, mostruose”, e ha detto di chiedersi chi volesse tutto questo e per quale scopo, sottolineando di aver agito sempre per interesse della Santa Sede, di non aver mai voluto usare in maniera impropria il denaro vaticano, e di confidare che il tribunale vaticano sarebbe arrivato alla verità, confidando anche nella fiducia del Papa che avrebbe detto di credere alla sua innocenza.
Rispondendo ad alcune domande del giudice Giuseppe Pignatone, Becciu ha insistito sul fatto di non sapere come fossero organizzati i conti bancari diocesani di Ozieri e si è limitato a trasferire i fondi al numero di conto Iban indicato dal vescovo.
Riguardo alla prima tranche di 100 mila euro trasferiti dal suo conto alla diocesi di Ozieri, e in particolare alla Spes, il Cardinale ha spiegato che si trattava di un prestito, di cui gli è stata restituita la metà, mentre l’altra metà l’avrebbe lasciata per aiutare un prestito in cui credeva. Riguardo invece la seconda tranche di 25 mila euro, ha spiegato si trattava di un aiuto per una opera della diocesi che stava al tempo reperendo fondi.
Il Cardinale ha invece confermato di voler rispettare il segreto pontificio sui suoi rapporti con Cecilia Marogna, e che avrebbe parlato solo se fosse stato autorizzato. Nella sua ordinanza, il presidente del Tribunale Pignatone ha fatto sapere che avrebbe chiesto una autorizzazione alla Segreteria di Stato per comprendere se avrebbe pottuto rispondere.
Così, il 6 aprile Becciu sarà di nuovo interrogato, e tra i temi potrebbe entrare anche l'assunzione di Cecilia Marogna come consulente esterno del Vaticano per negoziare la libertà di alcuni ostaggi in Africa.Becciu ha autorizzato pagamenti per oltre mezzo milione di euro all'analista che, secondo i registri bancari, li avrebbe utilizzati per spese personali di lusso.
Questo il prossimo calendario delle udienze: il 30 marzo sarà sentito don Mauro Carlino, il 5 aprile saranno sentiti René Bruelhart, già presidente dell'Autorità di Informazione Finanziaria, e Tommaso Di Ruzza, direttore emerito dell'Autorità; il 6 aprile di nuovo il Cardinale Becciu insieme al broker Enrico Crasso, che curava investimenti per la Segreteria di Stato; il 27 aprile sarà sentito Maurizio Tirabassi, già officiale della Segreteria di Stato vaticana nella sezione amministrativa; il 28 aprile di nuovo Crasso; il 5 maggio non c'è ancora alcun interrogatorio calendarizzato, mentre il 6 maggio sarà interrogato il broker Raffaele Mincione, che aveva gestito le fasi iniziali dell'investimento di Londra.
Sono previste altre due udienze il 19 e 20 maggio, ancora senza interrogatori programmati. Non è previsto ancora un interrogatorio del broker Gianluigi Torzi, che non vuole andare in tribunale per questioni psicologiche, dopo che è finito in arresto al termine degli interrogatori del giugno 2020.
Processo Palazzo di Londra, la testimonianza di monsignor Carlino
L’ex segretario del sostituto ha sottolineato che era il Papa a volere la trattativa, ha ribadito di aver fatto tutto in obbedienza ai superiori, ha messo in luce l’errore fatto nel cedere il controllo del palazzo
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , mercoledì, 30. marzo, 2022 17:05 (ACI Stampa).
Papa Francesco voleva che ci fosse una trattativa per prendere il controllo del palazzo di Londra al centro del processo, che per questo si sono avuti rapporti con il broker Gianluigi Torzi per rilevare le 1000 azioni del Palazzo che questi aveva mantenuto e che erano le uniche con diritti di voto, che dallo stesso Papa è arrivato l’input a chiudere la trattativa pagando il meno possibile.
Vaticano, processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. È il giorno di monsignor Mauro Carlino, segretario particolare del sostituto, prima l’allora arcivescovo Becciu e poi l’arcivescovo Edgar Pena Parra. Ed è quest’ultimo che gli avrebbe chiesto di coinvolgersi, come sua persona di fiducia, nella questione del Palazzo di Londra, insieme all’ingegnere Luciano Capaldo, che pure aveva avuto rapporti di affari con Torzi precedentemente (avrebbe smesso un giorno prima della collaborazione in Segreteria di Stato, secondo gli avvocati di Torzi), all’avvocato Luca Del Fabbro, che poi è uscio di scena, e all’officiale della sezione amministrativa della Segreteria di Stato vaticana Fabrizio Tirabassi, anche lui imputato nel processo, che aveva seguito la compravendita del Palazzo sin dall’inizio.
Al centro del processo la vicenda dell’investimento della Segreteria di Stato in un immobile di lusso a Londra. Ci sono dieci imputati e quattro società coinvolte, e le accuse vanno anche a coprire reati diversi, facendo del processo un processo più ampio sul modo in cui venivano gestiti i fondi della Segreteria di Stato.
Inizialmente, l’investimento della Segreteria di Stato sul Palazzo di Londra era stato affidato a Fabrizio Mincione, quindi la gestione era stata affidata all’altro broker Gianluigi Torzi, che aveva mantenuto per sé mille azioni della proprietà, ma le uniche con diritto di voto. Alla fine, la Segreteria di Stato ha preso la decisione di rilevare il palazzo, chiudendo ogni tipo di rapporto con Torzi, ed è qui che entra in scena monsignor Carlino.
L’ex officiale della Segreteria di Stato vaticana ricorda prima di tutto di essere sacerdote, e che tutta la sua vita sacerdotale è stata caratterizzata dall’obbedienza ai superiori, ricordando come non ha mai svolto alcun incarico, nemmeno non pastorale, senza considerare il suo essere sacerdote.
Quando lo chiama per aiutarlo a gestire la vicenda, a monsignor Carlino viene chiesta da Edgar Pena Parra fedeltà, obbedienza e riservatezza, per risolvere “un grave errore” che è stato fatto. E l’errore sarebbe quello fatto da monsignor Alberto Perlasca, allora capo dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, che avrebbe firmato documenti senza l’autorizzazione del superiore, portando dunque all’assegnazione delle mille azioni a Torzi. Tirabassi, invece, era uscito dall’amministrazione della GUTT, la società di Torzi che controllava le azioni, proprio perché si era reso conto della situazione.
Compito di monsignor Carlino è quello di fare l’intermediario tra le istanze del sostituto e dei collaboratori del sostituto e Torzi, e quindi, specifica, non è mai entrato nella parte tecnica delle trattative. Torzi all’inizio chiedeva 20 milioni per uscire dalla gestione dal palazzo, e voleva assolutamente chiudere entro marzo. Alla fine, Torzi accettò di cedere le azioni a 15 milioni, e dunque la crisi della trattativa rientrò.
Obiettivo primario era quello di preservare l’asset, cioè l’investimento, ed è il motivo per cui si decise di ristrutturare l’investimento, e non di denunciare, come invece avrebbe voluto monsignor Perlasca, ma anche Capaldo. Il sostituto aveva invece escluso le vie legali per un possibile danno reputazionale sulla Santa Sede.
Sarebbe complicato entrare nei dettagli delle operazioni. Basti dire che lo studio Mishcon de Reya, che lavora con la Segreteria di Stato, aveva comunque fatto una segnalazione alla National Crime Agency del Regno Unito, controparte dell’Autorità di Informazione Finanziaria vaticana, e che questa bloccò inizialmente il procedimento, finché non fu ristrutturato in modo che fosse anche finanziariamente sostenibile.
Di fatto, anche le fatture emesse da Torzi quando riceve i pagamenti non sono gradite alla Segreteria di Stato, che voleva invece definito nelle fatture che si trattasse di una transazione finale, con l’idea di tagliare completamente i ponti.
Alcuni dettagli interessanti. Nel rinvio a giudizio, si notava un eventuale pedinamento di Torzi disposto dal sostituto. Ma la chat incriminata era incompleta, e monsignor Carlino, usando il suo cellulare prima sequestrato e poi restituitogli, ha invece mostrato che si trattava di una precauzione riguardo Giuseppe Milanese. Capo della cooperativa OSA; amico del Papa sin dai tempi dell’Argentina, Milanese era stato coinvolto dal Papa nei primi negoziati con Torzi, come lo stesso Milanese ha ammesso in una intervista tv. In pratica, quando la trattativa si era arenata, si era voluto verificare se Milanese fosse andato a Londra, per fugare ogni sospetto. Il sospetto era che fosse in combutta con Torzi.
Secondo dettaglio: alcune domande del promotore di Giustizia Alessandro Diddi, non ammesse al Tribunale, riguardano un altro fascicolo, riguardante i fondi CEI inviati alla diocesi di Ozieri. Il fascicolo si riferisce ai finanziamenti CEI per la SPES, ma di questo fascicolo ulteriore non si era ancora avuta notizia – è invece rinviato a giudizio il Cardinale Angelo Becciu, sempre per aver inviato fondi alla SPES.
Terzo dettaglio: lo IOR accetta inizialmente di concedere il finanziamento di 150 milioni che aiuterebbe a rilevare il palazzo di Londra e di rifinanziare il mutuo.
Racconta Carlino: “Il 24 maggio 2019, il presidente IOR de Franssu dice che lo IOR accetta di rifinanziare. Il 4 giugno il sostituto presenta al Papa la questione ringraziando anche perché lo IOR aveva accettato questo finanziamento, che avrebbe comportato un risparmio per la Segreteria di Stato perché è chiaro che il mutuo veniva portato in casa, e mentre la banca prendeva interessi… ma cosa accadde? Il Papa approvò, il sostituto era felice della conclusione della vicenda, e poi però arriva comunicazione che a conclusine di tutto non era stato approvato e questo rappresentò al dottor Mammì a questa riunione del 28 o 29 giugno”.
Il 28 giugno, però, monsignor Carlino invia a Capaldo i numeri di Mammì, e questo perché – spiega il monsignore – “il sostituto aveva chiesto informazioni, e in seguito alla stranezza di un finanziamento accordato e negato aveva chiesto al dottor Giani, allora comandante della Gendarmeria, di fare delle verifiche”.
L’interrogatorio di Carlino proseguirà il 5 aprile, giorno in cui saranno sentiti anche Tommaso Di Ruzza e René Bruelhart, già direttore e presidentte dell’Autorità di Informazione Finanziaria. Il 7 aprile, sarà ascoltato di nuovo il Cardinale Angelo Becciu, che potrà rispondere, se vorrà, anche sulle vicende legate all'utilizzo di Cecilia Marogna come consulente della Segreteria di Stato. Ad inizio seduta, infatti, il presidente del Tribunale Pignatone ha letto una ordinanza che prendeva atto della risposta della Segreteria di Stato vaticana che aveva ricevuto dal Papa l'ok affinché il Cardinale non fosse vincolato da segreto pontificio nella testimonianza.
Processo Palazzo di Londra, l’interrogatorio di Bruelhart
Continuano gli interrogatori del processo sulla gestione dei fondi in Segreteria di Stato. Interrogato l’ex presidente dell’AIF e completato l’interrogatorio di monsignor Carlino. Prossime udienze dopo Pasqua
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Processo Palazzo di Londra | Processo del Palazzo di Londra, una delle passate udienze | Vatican Media / ACI Group
Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , martedì, 5. aprile, 2022 18:05 (ACI Stampa).
Non ci sarà l’interrogatorio del Cardinale Angelo Becciu il prossimo 7 aprile, per indisponibilità dell’avvocato, e non c’è stato oggi l’interrogatorio dell’ex direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria Tommaso Di Ruzza. Udienza fiume di sette ore, oggi, per il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, che ha al centro la vicenda dell’investimento della Segreteria di Stato in un palazzo a Londra.
Udienza interlocutoria, per il processo, anche perché si affrontava una posizione più defilata del processo, quella di René Bruelhart, già presidente dell’Autorità di Informazione Finanziaria vaticana. Questi ha parlato in inglese, coadiuvato da un traduttore, e ha poi risposto alle domande del promotore di giustizia, delle parti civili e di alcuni avvocati.
In una dichiarazione spontanea resa all’inizio della sua deposizione, Bruelhart ha ricordato di essere entrato in Vaticano come consulente ad hoc per l’antiriciclaggio dell’Autorità di Informazione Finanziaria.
Bruelhart, proveniente dalla presidenza dell’Unità di Informazione Finanziaria del Liechtenstein e dalla vicepresidenza del Gruppo Egmont, era stato chiamato ad aiutare la Santa Sede a consolidare la posizione sulla trasparenza finanziaria, perché al tempo la Santa Sede era considerato Paese ad alto rischio e c’erano gravi problemi con le istituzioni bancarie, che tra l’altro portarono anche allo sganciamento della Santa Sede dal circuito dei bancomat.
Il primo incarico era per 18 mesi, cui si era aggiunto l’incarico di direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria vaticana dal 7 novembre 2012.
Bruelhart è stato rinnovato come consulente della Segreteria di Stato nel 2014 per altri 12 mesi, e quindi, nel marzo 2015, il contratto gli veniva rinnovato per un mandato di cinque anni. Nel frattempo, nel 2014 era stato nominato presidente dell’AIF.
Bruelhart aveva dunque la doppia veste di presidente dell’Autorità di vigilanza e consulente che, ha ribadito anche al promotore di giustizia, non costituiva conflitto di interessi, perché l’AIF non supervisionava la Segreteria di Stato.
Bruelhart ha spiegato che fu coinvolto nella questione del Palazzo di Londra dall’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato vaticana, che, in un incontro del 7 marzo 2019, aveva relazionato che sulla questione dell’immobile la Segreteria di Stato avesse posizione debole, che era necessario di non perdere la titolarità dell’immobile, e il potenziale rischio reputazionale della Santa Sede, motivi anche addotti dal sostituto per non aver presentato denuncia.
Nell’occasione, Bruelhart ha detto al sostituto che “se ci fossero stati elementi per fare segnalazione di attività sospetta, questo avrebbe permesso all’AIF di far partire indagine, stabilire canali e indagare i flussi legali”, ma la decisione spettava solo alla Segreteria di Stato.
L’arcivescovo Pena Parra decise di fare la segnalazione, e l’AIF cominciò così lo scambio di informazioni con le altre unità di informazioni finanziaria.
Al di là dei dettagli degli scambi, è da notare che l’Autorità non solo avrebbe continuato gli scambi di cooperazione internazionale, ma ha sempre reso noto che avrebbe dovuto proseguire le indagini sui flussi finanziari.
L’Autorità prima suggerisce di non proseguire alla transazione, in quello che era più un parere generale, perché “l’AIF non aveva potere di vigilanza e blocco nei confronti della Segreteria di Stato”.
E alla fine, in questa valutazione generale, l’AIF prospetta due scenari.
Il primo, di “non procedere a operazione, e chiamare in giudizio le controparti”, cosa che però lasciava il rischio di danni economici o di immagine, e sul piano legale gli stessi accordi. L’AIF sarebbe chiamata a proseguire indagini e non sarebbe esclusa in caso di responsabilità personali trasmissione rapporto a promotore di giustizia”.
Oppure, una ristrutturazione dell’operazione finanziaria, che però prevedeva anche la necessità di conoscere le provvigioni da pagare agli intermediari, e che richiedeva che le azioni fossero completamente trasferite alla Segreteria di Stato. Una ristrutturazione, si faceva notare, che avrebbe potuto far superare le riserve dell’AIF, ma che questa sarebbe stata comunque chiamata a proseguire le indagini e il suo scambio con le altre unità di informazioni finanziarie. Era comunque necessario rifinanziare l’investimento, ed è qui che nasce la richiesta di anticipazione all’Istituto per le Opere di Religione.
Una richiesta che si poteva fare, ha spiegato Bruelhart, ma doveva essere delineata bene, perché lo IOR non è una banca e le richieste non possono configurarsi come operazioni bancarie come un prestito. È anche vero, come nota a margine, che lo IOR in altre circostanze ha concesso anticipazioni per fini istituzionali.
Nel corso delle sue dichiarazioni, Bruelhart ha fatto notare di aver anche ricevuto notifica che Gianluigi Torzi avrebbe avuto diritto a delle fees, a dei compensi per le azioni. Torzi era il broker che si occupava dell’investimento, e che aveva detenuto il controllo del Palazzo di Londra tenendo per sé mille azioni, ma le sole con diritto di voto, ed era con lui che si doveva trattare. L’obiettivo era liquidarlo, affinché la Segreteria di Stato riprendesse controllo dell’immobile, e anche Papa Francesco - ha detto Bruelhart – aveva chiesto in una udienza privata di sostenere la Segreteria di Stato.
Perché fosse liquidato, doveva essere chiaro che la Segreteria di Stato aveva pagato tutto il dovuto, e si era individuata una società appartenente a Torzi su cui effettuare il bonifico, che ammontava a dieci milioni. Altri cinque milioni sono stati accreditati a Torzi su un’altra società, ma di questo Bruelhart ha saputo solo da una fattura ricevuta via whatsapp da monsignor Carlino, che poi non avrebbe potuto reperire per chiedere spiegazioni. Carlino ha detto a sua volta di aver ricevuto la fattura direttamente dal sostituto.
Dettagli a margine: all’inizio dell’udienza sono state fatte altre eccezioni di nullità del processo perché il promotore di giustizia ha negato alcuni documenti senza motivazione (documenti non depositati), rigettate comunque da Pignatone. Carlino ha fatto sapere di essere andato via da Domus Sanctae Marthae su richiesta dei superiori, ma non del Cardinale Becciu, e che non è mai andato a Londra l’1 maggio 2019, come ricostruito dal promotore di giustizia.
C’è un nuovo calendario di udienze, ora. Si ritorna in aula il 27 aprile con l’interrogatorio di Tommaso Di Ruzza, già direttore dell’AIF. Il 28 aprile l’interrogatorio del broker Enrico Crasso, che curava gli investimenti della Segreteria di Stato. Il 5 e il 6 maggio sarà interrogato il Cardinale Becciu, su tutti i casi di imputazione, il 19 maggio sarà la volta di Fabrizio Tirabassi, officiale dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato vaticana. Il 20 maggio sarà una udienza utilizzata eventualmente per completare gli interrogatori rimasti sospesi.
https://www.acistampa.com/story/19537/processo-palazzo-di-londra-linterrogatorio-di-bruelhart-19537
Processo Palazzo di Londra, l’interrogatorio di Di Ruzza
L’ex direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria vaticana chiarisce la sua posizione, spiega la ratio delle decisioni dell’autorità, ricorda che i suoi interlocutori sono sempre stati i vertici della Segreteria di Stato
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Processo Palazzo di Londra | Una udienza del processo del Palazzo di Londra in Vaticano | Vatican Media / ACI Group
Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , mercoledì, 27. aprile, 2022 17:00 (ACI Stampa).
L’Autorità di Informazione Finanziaria ha sempre agito secondo le sue prerogative, supportando la Segreteria di Stato quando questa ha fatto richiesta di valutare la ristrutturazione dell’investimento sul palazzo di Londra, e anche sottolineato la fattibilità di un prestito dell’Istituto delle Opere di Religione alla Segreteria di Stato per poter rimodulare l’oneroso mutuo acceso per la gestione dell’immobile. Ma non ha mai superato le sue prerogative, mai è entrato in conflitto di interessi, e soprattutto mai ha approvato formalmente una decisione, che poteva spettare solo all’organo di governo.
Tommaso Di Ruzza, direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria vaticana dal 2016 al 2021, ha spiegato nei dettagli il ruolo dell’Autorità di Informazione finanziaria durante la 13esima udienza del processo sulla gestione di fondi della Segreteria di Stato vaticana. Un processo che ruota intorno all’acquisto di un immobile di lusso a Londra, un investimento della Segreteria di Stato finito al centro di un complicato schema finanziario, ma anche accuse diverse di peculato rivolte al Cardinale Angelo Becciu per aver destinato dei fondi quando era sostituto della Segreetria di Stato vaticana.
L’interrogatorio di Di Ruzza permette di chiarire diversi aspetti dell’operazione. Cruciale il tema del rifinanziamento del prestito chiesto all’Istituto delle Opere di Religione. Lo IOR prima aveva acconsentito alla richiesta, poi aveva improvvisamente aveva deciso di non destinare più l’immobile. La segnalazione che ha portato al processo è partito proprio da una denuncia dello IOR.
Ma lo IOR, ha spiegato Di Ruzza, poteva fare prestiti. L’unico vincolo era quello di non fare prestiti come un istituto di credito, cosa che lo IOR non è. Il prestito di un istituto di credito, ha spiegato Di Ruzza, si basa su due pilastri: la raccolta di fondi al pubblico e la concessione di credito per conto proprio. Lo IOR, però, non è una banca, non fa raccolta di fondi al pubblico, non è aperto all’esterno, non ha filiali fuori dal Vaticano.
Lo IOR è autorizzato a concedere prestiti dal 2015, ma è un prestito che deve essere fatto a garanzia, in modo da preservare anche la peculiarità dell’istituto. Vengono da qui anche le modalità particolari in cui è stato descritta l’anticipazione di credito (lo IOR aveva parlato anche di uno scoperto di conto, una modalità già usata per una altra operazione con la Segreteria di Stato nel 2017). Si tratta, in fondo, anche di tutelare i rapporti con l’Unione Europea, perché se lo IOR entrasse nella cornice di un istituto di credito cambierebbero necessariamente i rapporti internazionali.
Si trattava comunque di estinguere il mutuo acceso per finanziare l’acquisto dell’immobile di Londra, per una quantità di 150 milioni, mentre quello che si chiedeva allo IOR era un surrogato di mutuo, con un interesse dell’1 / 2 per cento l’anno. Insomma, un prestito dello IOR avrebbe portato un considerevole risparmio alle casse della Santa Sede, come tra l’altro delineato anche dal memoriale consegnato dall’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato vaticana.
È stato chiesto anche se si è mai pensato di denunciare le operazioni. Di Ruzza ha spiegato che la decisione spettava alla Segreteria di Stato, che le opzioni erano quella di denunciare (ma c’era il rischio di un giudizio sfavorevole nei tribunali londinese) o quella di ristrutturare l’investimento, che la prima ristrutturazione lasciava dubbi perché si trattava di andare a pagare un immobile che già la Santa Sede possedeva. Invece, la strada indicata è stata quella di risolvere il contratto con il broker Gianluigi Torzi, che aveva in gestione le azioni dell’immobile con diritto di voto, e quindi la negoziazione è stata per l’uscita del contratto. “Dovevo denunciare chi? Il sostituto?”, ha chiesto Di Ruzza, notando come tutte le decisioni fossero prese direttamente dalla Segreteria di Stato, e che l’Autorità di Informazione Finanziaria si limitava a dare un supporto, verificando la fattibilità.
Non c’è stata mai denuncia, comunque, perché non ci sono stati i profili per mettere in luce una cosiddetta “attività di transazione sospetta”, che è il profilo per cui l’AIF (ora ASIF) fa una segnalazione al promotore di Giustizia vaticano, come ha fatto in diverse altre occasioni. Piuttosto, va segnalato che l’Autorità ha fatto sapere che avrebbe continuato a monitorare il flusso del denaro, anche dopo il pagamento delle due fatture a Gianluigi Torzi.
Ha spiegato Di Ruzza che, dopo aver avuto notizia delle fatture, “abbiamo chiesto informazioni per seguire il flusso delle movimentazioni. Subito dopo furono attivati enti interni (APSA, IOR) e il 9 agosto 2019 il corpo della Gendarmeria per avere informazioni non investigative, non finanziarie, ma amministrative”.
Le informazioni erano state chieste anche alle UIF estere coinvolte. La Gendarmeria, tuttavia, non ha mai dato riscontro. “Durante il 2019 – ha detto Di Ruzza - ci furono 14 incontri tra AIF, Gendarmi e Promotori, e rappresentai la richiesta dell’AIF anche ai Gendarmi. Non c’è mai stata risposta e l’1 ottobre ne abbiamo scoperto il motivo”. In pratica, le indagini del processo hanno anche bloccato ogni possibile sviluppo investigativo di una operazione finanziaria di cui era stata già delineata fattibilità e sostenibilità.
“I vertici dello IOR erano a conoscenza che l’AIF stesse effettuando approfondimenti. Ci tengo a precisare a tutti i livelli era noto che si stessero svolgendo approfondimenti”, ha sottolineato l’ex direttore dell’AIF.
Prima dell’interrogatorio, Di Ruzza ha fornito una dichiarazione spontanea in cui ha confermato quanto detto negli interrogatori in fase istruttoria, con alcune precisazioni doverose perché, al momento dell’interrogatorio, Di Ruzza non aveva totale conoscenza degli atti. Ad esempio, alcune dichiarazioni erano dovute al fatto che a Di Ruzza non fosse stato reso noto che l’architetto Luciano Capaldo e monsignor Mauro Carlino Carlino “avessero ricevuto dal Sostituto S.E. Mons. Peña Parra l’incarico di occuparsi della transazione con il dott. Gianluigi Torzi, agendo in stretto contatto con lo Studio Mishcon de Reya”, lo studio legale della Segreteria di Stato vaticana. Un dettaglio, questo, spiegato bene da monsignor Carlino nella sua testimonianza.
Si ricomincia ora il 5 maggio, con l’interrogatorio al Cardinale Becciu, per poi proseguire secondo un calendario che è stato definito fino a giugno.
https://www.acistampa.com/story/19715/processo-palazzo-di-londra-linterrogatorio-di-di-ruzza-19715
Processo Palazzo di Londra, l’interrogatorio di Becciu
Nella 14esima udienza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, prima parte di un interrogatorio al Cardinale Becciu che sarà lunghissimo. Perlasca si costituisce parte civile
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , giovedì, 5. maggio, 2022 19:30 (ACI Stampa).
Una dichiarazione spontanea fiume di due ore e mezza, un interrogatorio lungo che ancora non è terminato, e una costituzione di parte civile un po’ a sorpresa: la quattordicesima udienza del processo sulla gestione di fondi della Segreteria di Stato è tutto centrato sull’interrogatorio del Cardinale Angelo Becciu, sotto accusa per peculato che sarebbe avvenuto nei tempi in cui era sostituto della Segreteria di Stato, ma a prendere la scena è la decisione di monsignor Alberto Perlasca, già capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato vaticana, di costituirsi parte civile.
Decisione a sorpresa, perché monsignor Perlasca era stato prima messo sotto indagine, e poi invece ha collaborato con le indagini, fino ad uscire definitivamente dal numero di imputati del procedimento. Quale sarebbe, dunque, il danno contro di lui?
L’avvocato Sammarco, difensore di Perlasca e già difensore di Francesca Immacolata Chaouqui, ha spiegato che sono due i motivi per cui monsignor Perlasca si costituisce parte civile: per la subornazione che il Cardinale Becciu avrebbe operato nei confronti del suo vescovo Cantoni, di Como, e contro gli imputati Tirabassi, Crasso e Torzi che lo avrebbero indotto a firmare il cosiddetto framework agreement che destinava al broker Torzi le mille azioni con diritto di voto che gli davano il totale controllo dell’investimento sul palazzo di Londra.
Vale la pena di ricordare che il processo ruota intorno all’investimento della Segreteria di Stato su un palazzo di lusso a Londra. Prima l’affare era gestito dal broker Raffaele Mincione, poi fu gestito dal broker Gianluigi Torzi e infine la Santa Sede rilevò il controllo del Palazzo, cercando di trasformare in vantaggioso un investimento che era diventato svantaggioso e che aveva dato a Torzi il controllo dell’immobile. Il Cardinale Becciu è anche imputato per peculato per dei fondi che, da sostituto, destinò alla Caritas della sua diocesi natale Ozieri e alla cooperativa SPES.
Il Cardinale Becciu ha rilasciato una lunga dichiarazione spontanea, durata circa due ore e mezza, rispondendo a tutti i capi di accusa, specificando anche il modo di lavorare del sostituto della Segreteria di Stato, un incarico complesso, che gestisce tutti gli affari vigenti e che è chiamato a corrispondere con il Papa almeno una volta a settimana. Il sostituto ha autonomia, ha le deleghe del Segretario di Stato, ed è di fatto il vero motore di tutta l’attività della Santa Sede.
In questa situazione, ha spiegato il Cardinale Becciu, è necessario fidarsi dei collaboratori, specialmente quando si tratta di temi come quelli amministrativi. E lì il cardinale Becciu ha ricordato che monsignor Alberto Perlasca era già capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato prima che lui fosse nominato sostituto nel 2011, che di certo era molto competente e che lui si fidava, ma che aveva anche una personalità irascibile e complicata.
Anzi, il Cardinale ha notato che monsignor Perlasca era caduto in depressione dopo essere stato allontanato dalla Segreteria di Stato, al punto di voler tentare il suicidio, e che proprio il Cardinale Becciu aveva cercato di aiutarlo. Inoltre, Becciu ha denunciato il comportamento di una amica di monsignor Perlasca, Genevieve Ciferri, che si sarebbe spesa in maniera anche insolente, dalla descrizione del cardinale, perché Perlasca fosse ripristinato in Segreteria di Stato, fino a minacciare lo stesso cardinale di perdere la porpora entro fine settembre 2020 se non avesse aiutato Perlasca.
Il Cardinale Becciu ha notato come, nel primo interrogatorio, Perlasca difendeva l’operato della Segreteria di Stato, mentre dopo ha cambiato radicalmente versione.
Tra le note di interesse, il fatto che la Segreteria di Stato doveva contribuire con 5 milioni il mese alle spese della Curia, che sono diventati poi 8 milioni il mese con la riforma del Cardinale Pell. Si trattava, alla fine, di 96 milioni l’anno, che non potevano essere coperti con i soldi dell’Obolo di San Pietro.
L’Obolo, infatti – ha spiegato il Cardinale – nasce per supportare la Santa Sede quando questa perde lo Stato pontificio, non con lo scopo precipuo di fare la carità, che pure poi fa. E l’Obolo comunque garantiva 45- 50 milioni l’anno, non abbastanza per fare fronte alle spese di cassa, cosa che rendeva necessario “investire il denaro”.
L’investimento di Londra è venuto dopo che era stato bocciato un altro investimento su un giacimento petrolifero in Angola, che era stato suggerito al Cardinale da un suo amico dei tempi in cui era nunzio nel Paese africano, e che però Becciu sostiene di non aver “sponsorizzato”, accettando il fatto che lo stesso Perlasca lo aveva considerato poco sicuro.
Ma – ed è questa la chiave della testimonianza del Cardinale Becciu – lui aveva totale fiducia nei suoi collaboratori, e per quanto venisse costantemente informato comunque dava totale fiducia a quanti considerava più esperti di sé.
Altra nota di interesse, il rapporto con Cecilia Marogna, per la quale il cardinale ha professato una stima paria a quella che poi gli aveva tributato il comandante della Gendarmeria Domenico Giani, e che avrebbe aiutato a liberare suor Gloria Narvaaez, ammettendo anche il pagamento di un riscatto.
Sulla questione del Cardinale George Pell, che aveva alluso al fatto che Becciu avesse trasferito 2 milioni e 200 mila dollari australiani per pagare una falsa testimonianza al processo contro di lui, Becciu ricorda che c’è una lettera del Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, inviata come nota verbale all’ambasciata di Australia presso la Santa Sede che chiariva come quei soldi erano stati il pagamento dell’estensione web .catholic, un pagamento che era stato tra l’altro autorizzato dallo stesso cardinale Pell.
Nell’interrogatorio, il Cardinale Becciu ha anche notato che l’ufficio del Revisore Generale, il cui rapporto ha dato il via al processo, non può avere totale contezza delle attività di investimento della Segreteria di Stato, che aveva totale autonomia e che non era soggetto nemmeno ai controlli della Segreteria per l’Economia. Anzi, erano stati fermai i tentativi della Segreteria di avere un controllo sulla Segreteria di Stato, perché rimaneva organismo indipendente.
In effetti, Becciu contesta che per l’investimento del palazzo di Londra non sono stati usati fondi dell’Obolo, come sosteneva il rapporto del Revisore Generale, il quale “non è mai entrato nei nostri uffici perché c’era la sovranità dei fondi”.
Richiesto se il Papa veniva informato degli investimenti, il Cardinale Becciu ha sottolineato che lui sottoponeva al Papa il semestrale e alcuni casi particolari, ma che non c’erano autorizzazioni specifiche. “Io sono vecchia scuola – ha detto il Cardinale - in odiosis non feci nomen ponifici. Si cerca di preservare la autorità morale del Papa senza coinvolgerlo nelle cose terrene. Che non significa non informarlo, ma non dargli la responsabilità”.
Becciu è stato anche chiamato a chiarire perché la Segreteria di Stato concentrasse tutti gli investimenti su Credit Suisse, e questi ha detto che già questo era in atto quando lui era diventato sostituto. Allo stesso modo, anche il broker Enrico Crasso era consulente della Segreteria di Stato da tempo.
L’interrogatorio, particolarmente teso e a volte arrivato a menzionare questioni marginali o fuori dai capi di imputazione, dovrà essere ripreso nella prossima udienza, tanto che varie volte il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone non ha ammesso molte delle domande del promotore di Giustizia Alessandro Diddi, e addirittura è arrivato a sospendere per cinque minuti l’udienza per calmare gli animi.
https://www.acistampa.com/story/19780/processo-palazzo-di-londra-linterrogatorio-di-becciu-19780
Processo Palazzo di Londra, prosegue l’interrogatorio di Becciu
Otto ore di domande e risposte del promotore di Giustizia vaticano con il Cardinale Angelo Becciu, su tutti i capi di imputazione. Vari momenti di tensione nell’udienza
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , mercoledì, 18. maggio, 2022 20:00 (ACI Stampa).
Ci sono anche momenti di tensione, nella seconda parte dell’interrogatorio del promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi nei confronti del Cardinale Angelo Becciu. Perché a un certo, dopo che il Cardinale ha detto di non ricordare una circostanza, il promotore di giustizia ha commentato “lei finge di non ricordare”, e a quel punto Giuseppe Pignatone, presidente del Tribunale vaticano, ha sospeso l’udienza.
È la seconda volta che Pignatone deve intervenire per calmare gli animi, nella seconda parte di un interrogatorio durato 8 ore, con domande su tutti i temi: dal ruolo nel processo di acquisizione del palazzo di Londra ai finanziamenti arrivati alla Caritas della diocesi di Ozieri e alla cooperativa SPES, toccando anche temi che esulano dai capi di imputazione, come i finanziamenti dell’8 per mille arrivati per finanziare le attività della diocesi Ozieri.
Moltissime le opposizioni alle domande, considerate dai difensori del cardinale come “requisitorie”. Spesso il presidente Pignatone ha invitato il promotore di Giustizia a fare domande precise, e anche a non fare provocazioni. In una occasione, Diddi ha risposto ad una obiezione sottolineando che agli avvocati “non piace che il cliente dica sempre 'non ricordo'”.
Il processo, come noto, si incentra sull’investimento della Segreteria di Stato in un palazzo di lusso a Londra, ma anche, per quanto riguarda il cardinale Becciu, sui contributi della Segreteria di Stato in favore della Caritas di Ozieri, presieduta da Giovanni Becciu, fratello del Cardinale, e della cooperativa SPES.
Prima di iniziare l'udienza, il Cardinale Becciu ha reso una dichiarazione spontanea. Nella udienza precedente non aveva voluto parlare del caso di Libero Milone, il Revisore di giustizia allontanato nel 2017, per non venir meno alla fiducia a lui posta dal Papa. Ma ha chiesto il permesso a Papa Francesco, che glielo ha accordato. Il Cardinale ha così potuto dichiarare di aver chiesto a Milone di dimettersi su richiesta dello stesso Papa Francesco, il quale gli aveva pregato di comunicare la decisione al Revisore. Non c'era, insomma, alcuna responsabilità del Cardinale nella decisione.
Parlando della decisione di investire sul Palazzo di Londra, il Cardinale Becciu ha sottolineato di avere sempre seguito le indicazioni dell’ufficio. Come sostituto, Becciu ha detto di avere totale fiducia della sezione amministrativa, in particolare di monsignor Alberto Perlasca, che la guidava, notando che comunque il team era stato da lui ereditato e mai scelto.
Il Cardinale Becciu ha detto che non aveva avuto contezza dei rendimenti del palazzo, che lo stesso monsignor Perlasca gli diceva che per gli investimenti ci voleva tempo, e ha sottolineato che i suoi sottoposti avevano “l’obbligo morale di non mettere in difficoltà i superiori”.
Alle obiezioni del promotore di Giustizia del fatto che il Cardinale avesse continuato ad interessarsi anche dopo aver terminato il suo incarico da sostituto della Segreteria di Stato, Becciu ha fatto sapere che evidentemente gli erano state prospettate delle difficoltà, e che c’era un mutuo da estinguere, e che questo gli era stato mostrato da Perlasca.
Il promotore ha chiesto moltissimi nomi e riferimenti personali, con l’obiettivo al limite di comprendere se c’erano contraddizioni. Sono stati mostrati diversi documenti, e gli avvocati delle altre parti hanno anche obiettato di come il promotore di giustizia interpretasse i documenti. Anche il presidente del Tribunale, Pignatone, ha invitato a non interpretare i documenti.
Diddi ha messo in luce anche una segnalazione dell’Autorità di Informazione Finanziaria su un bonifico sospetto, e che poi lui stesso aveva passato tutto all’ufficio amministrativo, che aveva poi chiarito le posizioni
Il Cardinale Becciu ha anche affrontato il tema delle frizioni tra Segreteria di Stato e Segreteria per l’Economia, che portò poi al motu proprio I beni temporali che riportarono all’APSA alcune competenze prese dalla Segreteria per l’Economia, e sottolineato ancora una volta che la Segreteria di Stato era un dicastero, sì, ma sui generis, da cui originavano le norme, e che non subivano le norme.
Il cardinale Becciu ha chiarito che sul palazzo di Londra si sono usati solo i cespiti della Segreteria di Stato, e non quelli dell’Obolo, che si sarebbero anche potuti usare perché, come era già stato spiegato nell’udienza precedente, l’Obolo è per la Santa Sede.
Viene fuori, dall’interrogatorio, un clima teso soprattutto nel momento in cui la Segreteria per l’Economia era entrato a gamba tesa sulla Segreteria di Stato, che però era autonoma e soggetta solo al Papa e al Segretario di Stato.
Il cardinale Becciu ha detto aver avuto la massima fiducia in monsignor Perlasca, la stessa che aveva il Cardinale Parolin che infatti aveva accettato la proposta di passare al fondo Gutt di Perlasca. “Se c’erano criticità e Perlasca non me le ha dette, si è macchiato di una grave colpa”, ha detto il Cardinale Becciu.
Si è parlato anche di come è stata gestita l’uscita dal fondo di Mincione. Perlasca avrebbe voluto denunciare, ci sono chat in cui il monsignore si lamenta, poi si sente messo da parte, vuole dire la sua verità. Si chiede conto persino delle chiacchiere in cui Becciu, parlando con Marco Simeon, sembra quasi suggerire a Gianluigi Torzi di non presentarsi per l’interrogatorio. “Erano chiacchiere, a me sollecitate”, ha detto il Cardinale Becciu.
In una chat con il broker Enrico Crasso, consulente finanziario della Segreteria di Stato, questi si lamentava con il Cardinale che gli era stata rovinata la reputazione come indagato, e Becciu rispondeva che “al momento giusto si dovrebbe fare una campagna stampa per sbugiardare i nostri magistrati”, parole che Becciu ha giustificato sottolineando che erano parte di una conversazione fatta con un uomo che sembrava disperato.
Insomma, una situazione particolarmente tesa, che più che chiarire le vicende sembrava essere portata all’esasperazione per cercare di avere più dettagli o conferma dei sospetti.
Il promotore di Giustizia ha affrontato anche le vicende della Caritas di Ozieri e della Spes, ha chiesto a Becciu perché avesse chiesto un prestito allo IOR e non avesse deciso di prestare direttamente il suo denaro dato che il suo conto era capiente, ha voluto informarsi sul perché del prestito se c’era già una richiesta dell’8 per mille CEI.
Al di là del fatto che i fondi CEI non sono parte del processo, va rilevato che la CEI eroga i finanziamenti solo a lavori avvenuti, dopo un primo acconto, e dunque l’aiuto del Cardinale era presumibilmente dovuto alla necessità di anticipare il denaro per i lavori – denaro che poi gli è stato restituito per metà, mentre ha lasciato in donazione l’altra metà.
Il Cardinale ha preferito non rispondere oltre sulle questioni riguardanti la liberazione di suor Gloria Narvaez, la suora colombiana rapita in Sud Sudan, ma ha ribadito di aver avuto fiducia in Cecilia Marogna, che questa le si era presentata personalmente, e che questa aveva fatto anche una buona impressione all’allora capo della Gendarmeria Domenico Giani.
Il Cardinale ha detto di averla incontrata anche una volta, dopo che era stata liberata dal carcere, e di averla ricevuta una volta prima che fosse rinviata a giudizio, sottolineando “la avete anche ripresa con la telecamera. Avete la data”.
Il clima teso non ha certo aiutato ad una piena comprensione delle vicende, e la strategia dell’accusa sembra quella di voler arrivare quasi a fare ammettere gli imputai delle loro contraddizioni, cercando di coglierli in fallo con una serie di domande parziali di cui si può intuire la strategia, come ha spiegato il promotore di giustizia, ma che non hanno mancato di suscitare obiezioni.
Si riprende il 19 maggio con l’interrogatorio di Becciu, e poi con l’ex officiale di Segreteria di Statto Fabrizio Tirabassi.
Nota a margine: accolto parzialmente la costituzione a parte civile di monsignor Alberto Perlasca, ma solo per quanto riguarda la subornazione che sarebbe stata operata contro di lui dal Cardinale Becciu.
Processo Palazzo di Londra, il colpo di scena Perlasca all’interrogatorio Becciu
Nell’ultima parte dell’interrogatorio al Cardinale Angelo Becciu, compare il “super testimone” Perlasca, subito allontanato dal presidente Pignatone. Cecilia Marogna presenta un lungo materiale
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , giovedì, 19. maggio, 2022 20:00 (ACI Stampa).
Proprio mentre il Cardinale Angelo Becciu sta dicendo che, se avesse mai sospettato che monsignor Alberto Perlasca stesse nascondendo qualcosa, questo sarebbe dovuto andarsene, lo stesso monsignor Perlasca entra da una porta laterale dell’aula polifunzionale dei Musei Vaticani che fa da aula di tribunale, zainetto di pelle sulla spalla destra. Alla sua vista, il promotore di Giustizia Alessandro Diddi ne fa notare la presenza, mettendo in luce come potesse essere un problema, essendo anche un testimone. E il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone lo invita subito a lasciare l’aula, cosa che monsignor Perlasca fa piuttosto di malavoglia.
È questo il colpo di scena dell’ultima parte dell’interrogatorio del Cardinale Angelo Becciu. Altra novità del processo è il memoriale di poco più di venti pagine depositato da Cecilia Marogna, l’esperta di intelligence che ha aiutato la Segreteria di Stato nella liberazione di suor Gloria Narvaez, e che dettaglia una serie di rapporti avuti con il Vaticano: dall’incontro con vertici dei servizi italiani, al ruolo avuto come intermediaria con alcuni emissari russi che volevano acquisire le reliquie di San Nicola, ai colloqui con l’imprenditore Piergiorgio Bassi su un fondo Imperial che sarebbe stato a suo dire depositato nello IOR, fino ai rapporti con la società di intelligence Inkerman.
Il processo, come noto, verte sull’investimento della Segreteria di Stato su un Palazzo di lusso a Londra, ma tocca anche il Cardinale Angelo Becciu per il ruolo che avrebbe avuto come sostituto nel favorire il finanziamento della Caritas e di una coop nella sua diocesi di origine, e anche i rapporti della Segreteria di Stato con Cecilia Marogna.
All’inizio dell’udienza, il cardinale Becciu ha reso una dichiarazione spontanea, breve, mostrando sconcerto per come era stato trattato con domande che hanno offeso “la sua dignità di sacerdote”, e facendo sapere che non avrebbe più risposto a domande che non riguardavano i capi di imputazione, come quelli del contributo della Conferenza Episcopale Italiana alla diocesi di Ozieri.
Dopo varie opposizioni, il presidente del Tribunale Pignatone ha emesso una ordinanza sottolineando che no, la questione della CEI non è parte del processo, ma che le domande sono ammesse, perché potrebbero permettere di acclarare la verità. Da quel momento in poi, il Cardinale Becciu si è sempre avvalso della facoltà di non rispondere quando gli sono state fatte domande sulla CEI. Tra l’altro, sembra di comprendere che non ci sia un fascicolo aperto sulla questione della CEI.
Non ci sono sostanziali novità, sia dalla fine dell’interrogatorio del promotore di giustizia, sia nelle domande successive delle parti civili. Il Cardinale Becciu ha sempre ribadito di aver sempre avuto totale fiducia nel suo ufficio amministrativo, e che dunque aveva accolto tutti i suggerimenti.
Da notare che nel botta e risposta con l’avvocato Lipari dell’Istituto per le Opere di Religione, il Cardinale ha anche sottolineato che gli investimenti erano necessari perché la Santa Sede si trasportava da tempo un deficit, che lo IOR fino al 2013 aveva contribuito con un assegno annuale di 50 milioni (soldi che venivano usati per coprire le spese di Radio Vaticana e delle nunziature) e che poi questo assegno si era improvvisamente dimezzato. Quell’aiuto era particolarmente importante per la Segreteria di Stato, che poteva così coprire parte dei suoi deficit.
Dalle domande della difesa di Raffaele Mincione, il primo broker che ha avuto in gestione il fondo del Palazzo di Londra, viene fuori che l’investimento della Segreteria di Stato sul fondo Athena era gestito direttamente da Credit Suisse, ma restano insoluti, per ora, il tipo di rapporti e di accordi che la Segreteria di Stato avesse fatto con la banca svizzera.
A fine udienza, il giudice a latere nota con il Cardinale Becciu che lui, sul fronte investimenti, si era sempre fidato delle proposte di monsignor Perlasca e di Fabrizio Tirabassi, e chiede in che modo si esercitavano i suoi poteri di sostituto,.
Il Cardinale risponde: “Se avessi capito che c’era qualcosa che non andava, o avessi avutto intuizioni di orientarsi in altra maniera, o meglio investire altrove, avrei potuto dire loro diversamente, non avevo avuto occasioni e non mi hanno mai offerto occasioni per andare contro le loro proposte”.
Processo Palazzo di Londra, cosa è il Fondo Obolo in Segreteria di Stato
Nella 18esima udienza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, testimonianza di Fabrizio Tirabassi. Dall’ufficio Obolo all’affare in Angola
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , venerdì, 20. maggio, 2022 17:00 (ACI Stampa).
Due punti di interesse, nella prima parte di interrogatorio a Fabrizio Tirabassi, già officiale della Sezione Amministrativa della Segreteria di Stato vaticana. In un botta e risposta meno teso di quello che si è visto finora nel processo, Tirabassi ha spiegato il perché l’investimento in Angola, proposto dall’allora sostituto Angelo Becciu, non fosse andato in porto, cosa che ha portato poi all’investimento sul palazzo di Londra. E poi ha spiegato qualcosa dell’architettura finanziaria della Segreteria di Stato vaticana, e del modo in cui questa si è delineata nel corso degli ultimi anni.
Il processo, giunto alla 18esima udienza, è centrato intorno all’investimento della Segreteria di Stato vaticana su un immobile di lusso a Londra, ma si è allargato fino ad includere una serie di reati diversi, includendo anche il Cardinale Angelo Becciu, indagato anche per un presunto peculato a favore di una società gestita dalla Caritas della sua diocesi e per i rapporti con la esperta di intelligence Cecilia Marogna. L’udienza di oggi ha, di fatto, confermato la versione del Cardinale.
Ma andiamo con ordine. Interessante la questione della gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Tirabassi, che è stato assunto nel 1987 e si occupa della questione finanziaria dagli anni Novanta, ha sottolineato che la Segreteria di Stato aveva un bilancio a parte, separato da quello dei dicasteri, e che solo negli ultimi tempi era stato discusso e confrontato con la Segreteria per l’Economia, mentre prima la Prefettura degli Affari Economici aveva soprattutto una funzione di controllo sui bilanci.
Tirabassi ha detto che, quando è entrato in Segreteria di Stato, c’era un Fondo Obolo con ufficio dedicato alla raccolta delle offerte nella Segreteria di Stato vaticana, e che le donazioni erano gestite aprendo conti dedicati in varie banche e istituti corrispondenti (IOR, APSA; Credito Artigiano, Poste Italiana e altre), tanto che solo nell’Isituto per le Opere di Religione erano in essere circa “70-80 conti”.
A metà anni Novanta, questa architettura viene “smaterializzata”, per una gestione più snella. Resta un fondo Obolo, in cui convergono alla fine tutte le risorse.
“La Santa Sede – ha detto Tirabassi – era in difficoltà, l’indebitamento costava molto alla Segreteria di Stato. Quindi fu suggerita una nuova gestione della contabilità, smaterializzando i conti in essere e valorizzando la liquidità ottenuta dal patrimonio attivo”.
Comincia anche una nuova politica di investimenti, sempre più finalizzata al patrimonio immobiliare, e in particolare all’acquisizione di edifici per ospitare le nunziature, che sono uno dei costi più grandi. (Nota a margine: gli investimenti immobiliari saranno poi preponderanti con l’arrivo di monsignor Alberto Perlasca alla guida dell’amministrazione della Segreteria di Stao nel 2009).
Il Fondo Obolo è l’ultima risorsa per compensare il deficit, mentre la penultima è il contributo dell’Istituto delle Opere di Religione, che fino al 2012 / 2013 (ultimo anno con un attivo alto, superiore agli 80 milioni) contribuiva con 50 milioni di euro, importo drammaticamente sceso negli ultimi anni e ora assestatosi sui 30 milioni.
Si confermano, dunque, le parole del Cardinale Becciu sulla destinazione dell’Obolo anche per la Santa Sede. Così come si conferma la testimonianza del Cardinale Becciu sulle circostanze che hanno portato ad abbandonare l’investimento presso una piattaforma petrolifera in Angola.
La proposta fu avanzata da Antonio Mosquito, un imprenditore angolano conosciuto da Becciu quando questi era nel Paese africano come nunzio, e prevedeva la partecipazione della Segreteria di Stato ad un 5 per cento dei diritti di estrazione di un pozzo petrolifero in Angola.
La proposta fu discussa da monsignor Alberto Perlasca, capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, e fu poi portata fino al tavolo dell’allora Segretario di Stato, il Cardinale Tarcisio Bertone, che chiese di valutare a fondo l’iniziativa. Si chiese dunque ad Enrico Crasso, il consulente finanziario storico della Segreteria di Stato. Questi si rivolse a Credit Suisse Londra, che presentò Raffaele Mincione come possibile gestore dell’investimento, perché conosciuto con una esperienza anche nel ramo petrolifero.
Mincione fece una “due diligence” (verifica) sull’investimento di circa un anno e mezzo. Inizialmente, la cosa sembrava positiva (ENI era il gestore del pozzo, e poi c’erano partecipazioni della compagnia angolana Somagol e di Total) e dunque Mincione suggerì di cominciare a costruire un fondo, l’Athena Commodities Fund, per gestire l’investimento.
Poi, però, ci si rende conto che il fondo non presenta le necessarie garanzie, mentre la Banca UBS ritira la propria partecipazione per preoccupazioni di tipo geopolitico. Tirabassi nota che era anche il periodo in cui Papa Francesco lavorava all’enciclica Laudato Si, e che dunque l’investimento della Segreteria di Stato in una compagnia di estrazione petrolifera rischiava di creare un danno reputazionale.
Ad ogni modo, “monsignor Perlasca era determinato ad andare avanti”, ha detto Tirabassi. Tutto cade perché “l’imprenditore angolano non era disponibile a fornire garanzie collaterali sul capitale investito, e venne deciso dalla natura dell’investimento di abbandonarlo. Se avesse fornito delle garanzie, suppongo, sufficienti a poter adeguatamente investire capitali in quella risorsa, probabilmente l’investimento sarebbe stato portato all’attenzione del Papa”.
L’Athena Fund sarà poi usato per acquisire le quote dell’immobile di Londra oggetto del processo. Ma questa è una storia che sarà approfondita nelle prossime udienza.
Il 30 maggio, sarà sentito il broker Enrico Crasso, e poi si andrà avanti in un calendario serrato fino a metà luglio, quando si chiuderà per la pausa estiva.
Processo Palazzo di Londra, gli interrogatori di Tirabassi e Crasso
Udienze 18 e 19 del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Molti dettagli tecnici nei due interrogatori. Molte le cose da chiarire. Sempre più centrale il ruolo di monsignor Perlasca
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , martedì, 31. maggio, 2022 19:15 (ACI Stampa).
C’è una lettera del Cardinale George Pell del 2015, in cui, come prefetto della Segreteria per l’Economia, si lamenta che la Segreteria di Stato ancora non ha contribuito a fornire i dati necessari per il budget. E c’è un commento interno, una bozza scritta dagli officiali di Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi e Antonio Di Iorio, in cui si lamenta l’ingerenza della Segreteria per l’Economia, in cui, in maniera forte, ci si appella alla Pastor Bonus e si sottolinea che la Segreteria per l’Economia “deve rendersi conto che gli statuti non permettono di ingerire nelle autonomie dei dicasteri”.
Il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, giunto alle udienze 18 e 19, mette sempre più in luce anche la questione della gestione finanziaria della Santa Sede, vero pomo della discordia. Di fronte alla necessità di trasparenza, c’è sempre la necessità di equilibrare il ruolo autonomo della Segreteria di Stato. Un dibattito che si è trascinato fino allo scoppio della questione del Palazzo di Londra, oggetto del processo, e motore della decisione di Papa Francesco di togliere alla Segreteria di Stato autonomia finanziaria.
Nelle udienze 18 e 19 sono stati ascoltati il broker Enrico Crasso, gestore per Credit Suisse dei fondi della Segreteria di Stato, e, di nuovo, l’officiale della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi, membro dell’amministrazione della Segreteria di Stato e “con competenze tecniche” persino superiori a quelle di Crasso, per ammissione dello stesso broker.
Il promotore di Giustizia ha cercato di dimostrare che Crasso compisse i propri interessi, mentre con Tirabassi le domande puntavano a considerare se l’officiale traesse qualche beneficio personale nella gestione dei fondi. Non sono mancati attimi di tensione in entrambi gli interrogatori.
Scopo principale era quello di definire come si fosse arrivati a decidere di investire sul fondo immobiliare proprietario del palazzo di Sloane Avenue a Londra, partendo da una proposta di investimento per una concessione estrattiva di petrolio in Angola proposta da Antonio Mosquito, che il Cardinale Angelo Becciu aveva conosciuto quando era nunzio nel Paese africano.
Becciu ha detto – e la cosa è stata confermata sia da Crasso che da Tirabassi – di aver solo presentato la possibilità di investimento angolano, ma senza mai fare pressioni perché questo andasse in porto – e infatti ciò non successe. E si è chiarito anche come il broker Raffaele Mincione sia entrato nel quadro, presentato da Credit Suisse Londra come un esperto di affari sul modello della Falcon Oil angolano, che poi ha dirottato i fondi sulla proprietà immobiliare di Londra.
Al di là dei dettagli, ci sono alcune questioni degne di nota.
La prima: Negli interrogatori, entra in scena anche Giuseppe Milanese, l’imprenditore amico di Papa Francesco e a capo della cooperativa OSA che – ha detto Tirabassi – ha cominciato a frequentare la Segreteria di Stato presentato dal Cardinale Becciu come persona molto vicina al Papa, e che frequentava la Terza Loggia. Tirabassi ha detto che la Segreteria di Stato ha anche finanziato per 6 milioni la dismissione di obbligazioni della cooperativa di Milanese (con rendita del 6 per cento), e con 270 mila euro l’iniziativa di un camper che girava ogni giorno le parrocchie per fare uno screening alle persone anziane.
In particolare, sul finanziamento di sei milioni, Tirabassi ha detto che fu chiesto a Crasso un esame di fattibilità, e che poi il finanziamento fu erogato nel piano di finanziamenti della Segreteria di Stato. Milanese sarà poi l’uomo inviato dal Papa a trattare con Gianluigi Torzi, il broker che rileverà l’operazione di Londra per la Santa Sede mantenendo però il controllo di mille azioni con il diritto di voto e, di fatto, il controllo dell’immobile.
La seconda questione degna di nota: la Santa Sede si trova a trattare la dismissione del Palazzo di Londra da Mincione avendo Torzi come suo rappresentante, nonostante al tavolo ci siano sia Tirabassi (che era in continuo contatto con monsignor Alberto Perlasca) che Enrico Crasso. Riguardo la presenza di Crasso, Tirabassi ha sottolineato che era stata una richiesta diretta di monsignor Perlasca, quasi una imposizione. E Crasso ha detto che “non sarebbe dovuto andare”, anche perché lui non c’entrava niente con quell’operazione. “È stato il più grande errore della mia vita”.
Terzo tema: il rapporto con i gestori di fondi. La Segreteria di Stato aveva affidato a Credit Suisse la gestione, e Crasso ha sempre sottolineato che lui agiva per la sua banca, e poi per Sogenel, una compagnia che aveva costituito e che comunque continuava a lavorare con Credit Suisse. Ma i gestori non sono tenuti a dare conto di tutti gli investimenti, l’importante è che diano seguito ai loro mandati. Crasso ha fatto anche riferimento ad una dichiarazione formale del 2016 del Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, che chiariva che non c’erano limiti su dove gli asset di Credit Suisse potessero essere investiti.
Per questo, anche Mincione, quando gli fu affidato il fondo del palazzo di Londra, non aveva controlli regolari e approfonditi.
Il quarto tema: le operazioni finanziarie erano gestite soprattutto da monsignor Alberto Perlasca, capo dell’amministrazione, che è colui nelle cui mani passava praticamente ogni autorizzazione. I sostituti erano informati, ma non entravano mai davvero nelle questioni. È un quadro che conferma anche il memoriale dell’attuale sostituto, l’arcivescovo Edgar Pena Parra, che infatti non solo ha cercato di prendere il controllo dell’affare di Londra, ma anche di spezzare delle catene di comunicazione nella Segreteria di Stato.
Crasso ha anche parlato di una lettera ricevuta l’11 novembre 2019 da Peña Parra, che chiedeva di “liquidare al meglio e con diligenza” gli asset della Segreteria di Stato da lui gestiti e di “non procedere ad altri investimenti” tramite il Fondo Centurion di cui era titolare. “Una lettera di questo genere crea danni incommensurabili alla Santa Sede”, rispose Crasso chiedendo udienza al sostituto, ottenuta il 16 novembre: “Peña Parra concordò di non limitare le gestioni”. Alla lettera “non fu più dato corso”; in ogni caso “dal 16 novembre – ha detto - non ho più messo piede in Vaticano”.
Si continuarono, comunque, a fare gli investimenti già deliberati.
Tirabassi dovrà proseguire l’interrogatorio, e così Crasso. Restano molte cose da chiarire. Il processo, comunque, continua il 6 giugno con l’interrogatorio di Mincione.
Processo Palazzo di Londra, l’interrogatorio di Mincione
Le udienze 20 e 21 del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato vaticana dedicate all’interrogatorio al broker Raffaele Mincione
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , martedì, 7. giugno, 2022 18:00 (ACI Stampa).
C’erano ancora margini per guadagnare sul palazzo di Londra, sviluppando il progetto, portando a termine l’idea di conversione degli uffici in appartamenti. Ma la Segreteria di Stato, investitore “irrequieto”, ha voluto invece affidare il palazzo ad una altra gestione, per poi acquistarlo una volta che anche la seconda operazione di brokeraggio si era rivelata insoddisfacente. Raffaele Mincione, che per primo aveva gestito i fondi della Segreteria di Stato nella questione dell’ormai famoso palazzo di Sloane Avenue a Londra, ricostruisce passo dopo passo il suo coinvolgimento e poi mancato coinvolgimento nell’affare, arrivando a dire che al posto suo ci dovrebbe essere Credit Suisse, l’istituto di credito svizzero che gestiva i fondi della Segreteria di Stato.
Due giorni di interrogatorio, in buona parte condotti dall’ufficio del Promotore di Giustizia vaticano, di fronte ad un imputato che si presenta con una documentazione di supporto di 18 faldoni blu. Il processo, come è noto, riguarda la gestione dei fondi della Segreteria di Stato della Santa Sede, includendo anche le accuse di peculato al Cardinale Angelo Becciu per un presunto favoritismo nel destinare alcuni fondi alla Caritas della sua diocesi di origine, e anche la questione di Cecilia Marogna, l’esperta di intelligence che la Segreteria di Stato aveva messo sotto contratto.
Alcuni dati di interesse di queste due udienze.
Il primo. Mincione entra in contatto con la Segreteria di Stato nell’ambito della cosiddetta operazione Falcon Oil, che riguarda un possibile investimento su una società di estrazioni di petrolio in Angola. Segnalato da Credit Suisse come un esperto in commodities, Mincione accende un fondo (Athena) per poter finanziare l’operazione, ma poi la sconsiglia perché mancano alcune garanzie. Si dice disponibile a ridare il denaro, ma la Segreteria di Stato lo lascia a disposizione per l’investimento. Nasce qui la possibilità di Sloane Avenue, gli ex magazzini Harrods, un edificio che Mincione osserva ogni giorno sulla strada del lavoro e che, per la bellezza, la posizione e la funzionalità, è ai suoi occhi un trophy asset.
Ma non solo: è un investimento che viene in un momento positivo, dice, quando scadono i contratti di affitto, quando l’edificio si può ristrutturare senza dover cacciare nessuno e poi destinare ad abitazioni. Da qui, la valutazione di un ottimo affare, con la rivalutazione, che convince Credit Suisse, che si impegna in una operazione cosiddetta lock up, cioè un progetto di investimento che ha cinque anni di contratto più due in caso di situazioni negative – e la Brexit che sopraggiunge nel frattempo decisamente lo è.
Il secondo dato di interesse. Mincione non tratta mai con la Segreteria di Stato, perché questa dà la gestione dei suoi fondi a Credit Suisse. Enrico Crasso – anche lui imputato – è l’uomo di Credit Suisse e il tramite di Mincione, che vede pochissime volte, e per meno di venti minuti, l’allora sostituto Becciu. Quando Crasso fonda Sogenel, continuando a lavorare con Credit Suisse, Mincione considera sempre la banca svizzera il cliente. Come gestore, Mincione non sarebbe tenuto a far sapere in cosa investe. Considerando la Santa Sede un cliente particolare, però, non manca di notificare, in alcune circostanze, il cambio di destinazione dei fondi o altre decisioni, “per ragioni diplomatiche” e “come cortesia”.
Il terzo dato è che la Santa Sede è considerato un “investitore professionista”, e dunque in grado di prendersi carico dei rischi connessi alle operazioni finanziarie. Questo, fa capire Mincione, potrebbe anche giustificare alcuni tipi di iniziative sui fondi della Segreteria di Stato.
Il quarto dato riguarda la tempistica. Si sa che, nel 2018, la Segreteria di Stato, insoddisfatta, decide di revocare l’incarico a Mincione e di trasferirlo a Gianluigi Torzi. Mincione conosce Torzi dal dicembre 2017, e Torzi ha proposto più affari a Mincione. Ma Torzi si inserisce nell’affare in pratica convicendo la Segreteria di Stato che lui è in grado di convincere Mincione.
Come già deposto dall’officiale vaticano Fabrizio Tirabassi, è Torzi a fare il rappresentante legale della Segreteria di Stato nell’incontro a Londra in cui si definisce il passaggio della gestione. Mincione ne è delusissimo, tanto che non partecipa agli altri due giorni di riunione e lascia agli avvocati il compito di liquidare la questione.
Di fatto, dice nell’interrogatorio, ha il sospetto che in realtà la Segreteria di Stato voglia rilevare le sue quote a meno per poi rivendere il Palazzo al massimo del prezzo. E riferisce di due offerte di 350 milioni per il progetto, recapitategli dall’architetto Luciano Capaldo, che inizialmente è socio di Torzi e poi diventa consulente della Segreteria di Stato.
In pratica, Mincione capisce che la Santa Sede vuole tagliare i rapporti, sente la pressione di dover vendere le quote, e Capaldo si presenta con una prima offerta di 350 milioni della sua società Invest, e poi con una seconda, attribuita allo Sheikh Salah, in un periodo che potrebbe essere già successivo al suo coinvolgimento con la Segreteria di Stato (ma è tutto da definire nei riscontri processuali).
Per Mincione, dunque, la Santa Sede potrebbe voler rilevare le quote proprio per poi rivenderle allo sceicco Salah. Questo, la storia lo dice, non succede.
Il caso, comunque, appare sempre più intricato, sollevando più domande che risposte. Si continua con le udienze il prossimo 22 giugno, con il prosieguo dell’interrogatorio al broker Enrico Crasso.
https://www.acistampa.com/story/20044/processo-palazzo-di-londra-linterrogatorio-di-mincione-20044
Processo Palazzo di Londra, l’interrogatorio di Enrico Crasso
Ventiduesima udienza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato vaticana. Crasso respinge ogni accusa. Si prosegue il 7 luglio
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , venerdì, 24. giugno, 2022 12:30 (ACI Stampa).
Ci saranno circa 200 testimoni, sia delle difese che del promotore di giustizia, al processo vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Il numero dei testimoni, dei quali non c’è ancora una lista ufficiale, scappa al presidente del Tribunale vaticano Giuseppe Pignatone al termine della 22esima udienza del processo, dopo la seconda parte dell’interrogatorio di Enrico Crasso, che per 26 anni ha gestito i fondi della Segreteria di Stato vaticana, che ha rigettato tutte le accuse e ha parlato del suo coinvolgimento nell’affare di Londra come “il più grande errore della mia vita”.
Il processo, come si ricorderà, ruota intorno all’investimento della Segreteria di Stato vaticana su un Palazzo a Londra. Tra i dieci imputati, anche il Cardinale Angelo Becciu, sotto accusa in realtà per presunto peculato in favore della Caritas della sua diocesi di origine e per il contratto di consulenza data all’esperta di intelligence Cecilia Marogna, anche lei parte del processo. Alla fine, dunque, sono tre i tronconi del processo che si vanno ad intersecare.
La sliding door della vita di Enrico Crasso è da lui rappresentata con una e-mail del 2017 in cui accetta un incarico di consulente per la Segreteria di Stato ed è chiamato così a fare una due diligence (adeguata verifica) sull’andamento dell’investimento sull’ormai famigerato palazzo di Sloane Avenue. Perché è a partire da quella e-mail che Crasso si trova poi coinvolto nell’incontro in cui non avrebbe mai dovuto essere, quello per il passaggio delle azioni del palazzo dal broker Raffaele Mincione, che lo gestiva, a Gianluigi Torzi, che ne prese la gestione e che tenne per sé le sole mille azioni con diritto di voto.
“Andare a quell’incontro è stato il più grave errore della mia vita”, ha ribadito Crasso nella seconda parte dell’interrogatorio che era iniziato lo scorso 30 maggio, e che è continuato il 22 giugno. In una udienza di sole due ore e mezza, esaurite le domande del Promotore di Giustizia Alessandro Diddi e quelle delle parti civili, Crasso è stato interrogato dal suo difensore, l’avvocato Luigi Panella, che gli ha permesso di chiarire alcuni aspetti, e poi dagli altri difensori, incluso l’avvocato Marco Franco di Gianluigi Torzi.
In questo, Crasso risulta accusato di truffa, corruzione, estorsione, peculato, abuso d’ufficio, riciclaggio, autoriciclaggio, falso in pubblico e scrittura privata. Tutti reati rigettati dal broker, che in realtà gestiva i fondi per conto di Credit Suisse, sia come dipendente della banca svizzera sia dopo attraverso una sua società.
“Undici capi di imputazione – ha detto Crasso in quella che è stata una dichiarazione spontanea al termine dell’interrogatorio del suo avvocato – non sono pochi. Io mi auguro che questo tribunale voglia giudicare la mia attività di gestore, non mi metta in condizione di pagare attività di altri soggetti”.
Crasso ha anche detto di non voler attaccare nessuno personalmente, nonostante sia consapevole di essere odiato, che è stato “un baluardo per la difesa della liquidità della Segreteria di Stato, non un mezzo per frodare qualcuno”, tanto è vero - ha aggiunto – che “non c’è un pezzo di carta, un documento nelle 550 pagine di chat che provi che io con Torzi abbia predisposto un piano per frodare la Segreteria di Stato, mio cliente per 26 anni”.
Durante l’interrogatorio, Crasso ha difeso la bontà del suo operato, facendo notare che i bilanci dei suoi investimenti sono sempre stati in attivo, e che quando c’è stata una perdita è stata recuperata in meno di sei mesi.
Crasso ha anche negato di aver effettuato depositi sul fondo Athena di Raffaele Mincione, che era il fondo costituito per l’affare Falcon Oil (un possibile investimento in una compagnia estrattiva in Angola) e che poi era stato utilizzato da Mincione per l’acquisto del Palazzo di Londra. Crasso ha anche negato di aver depositato 38 milioni di dollari in Deutsche Bank, di aver sottoscritto bond in società di Mincione, di aver compiuto investimenti nella Banca Carige, e anche altre accuse che riguardano l’acquisto di crediti sanitari e operazioni di borsa.
Qui va fatta una parentesi sul ruolo del gestore dei fondi. Sia Mincione che Crasso hanno notato che, come gestori, non sono tenuti a rendere conto di tutte le operazioni, ma solo di aver portato a termine il compito che è loro affidato, che è quello di fornire utili. Ovviamente, la Segreteria di Stato poneva vincoli etici su alcuni investimenti, ma l’operatività è completamente in carico al gestore. E infatti Crasso, durante l’interrogatorio, ha fatto sapere che lui non contestava le operazioni di Mincione, ma piuttosto il modo in cui queste operazioni venivano rendicontate.
La due diligence di Crasso, in fondo, sembra portare alla decisione di monsignor Perlasca, allora capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, di togliere la gestione del palazzo di Londra a Mincione e di affidarla a Gianluigi Torzi.
Proprio l’avvocato di Torzi, Marco Franco, ha cercato con le sue domande di fare luce su alcune situazioni. Prima dell’incontro del 20 novembre 2018 a Londra, in cui fu definito il passaggio di gestione da Mincione a Torzi, c’era stato un incontro in un bar a via Margutta, a Roma, cui avevano partecipato, oltre Crasso, Torzi, l’officiale di Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi e l’avvocato Manuele Intendente. I tre sarebbero poi stati alla negoziazione con Mincione, e Torzi sarebbe stato considerato da monsignor Perlasca come il rappresentante degli interessi della Segreteria di Stato, ha detto nel suo interrogatorio Tirabassi.
Invitato per un caffè, Crasso ha raccontato che Torzi avrebbe tirato fuori all’improvviso il discorso del palazzo di Londra, dicendo: “Ci parlo io non Mincione, a me non può dire di no”. Crasso ha comunque detto di non sapere su cosa Mincione non avrebbe potuto dire di no, sottolineando che la Segreteria di Stato era sempre libera di trasferire le proprie liquidità, e che solo in seguito ha capito che era da un mese che volevano uscire da Athena.
A Londra, invece, Crasso va su invito di monsignor Perlasca, con la richiesta di aiutare a calcolare quanto restituire a Mincione, facendo quello che definisce “il più grande errore della sua vita”.
Nel passaggio dal fondo Athena alla Gutt di Gianluigi Torzi, quest’ultimo ottiene mille azioni, considerate da lui necessarie per poter gestire il palazzo. In realtà, queste azioni sono le uniche con diritto di voto, il che dà a Torzi un controllo totale dell’immobile.
Crasso dice di essersi accorto solo in seguito della natura peculiare delle azioni, come hanno detto anche altri imputati. E sottolinea che, se le azioni fossero state normali azioni, “Torzi sarebbe ancora gestore del palazzo”, perché “Perlasca aveva la volontà di continuare con Torzi nella gestione del palazzo”.
Sarà in seguito che la Segreteria di Stato deciderà di riprendere il controllo del palazzo, non denunciando Torzi perché c’era un rischio ragionevole di perdere la causa, e piuttosto andando a trattare con il broker la sua uscita dalla gestione. In quel momento, però, i protagonisti della storia sono già diversi, c’è un nuovo sostituto in Segreteria di Stato, l’arcivescovo Edgar Pena Parra, che è deciso a risolvere il problema, e di farlo nel modo più logico possibile.
Chiederà poi un prestito allo IOR per poter concludere l’operazione, lo IOR dopo aver accettato lo rifiuterà e denuncerà il tutto al Revisore Generale vaticano, e poi la storia arriverà sul tavolo del Papa, che farà iniziare un processo sommario.
Crasso, però, è già ormai ai margini. Lui sostiene di essere stato coinvolto in questa storia suo malgrado. Di fatto, molto deve essere chiarito, a partire del ruolo di monsignor Alberto Perlasca, capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, che compare indistintamente in tutti gli interrogatori. Prima indagato, poi archiviato perché il suo operato è stato giudicato in buona fede dai magistrati vaticani, Perlasca sarà sicuramente uno dei 200 testimoni che dovrebbero essere stati ammessi. E le sue parole saranno cruciali per comprendere tutta la vicenda.
Palazzo di Londra, la Santa Sede finalizza la vendita. E ora?
Venduto il palazzo la cui acquisizione è al centro di un controverso processo in Vaticano. Ecco cosa sappiamo fino ad ora
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 2. luglio, 2022 13:00 (ACI Stampa).
Il Palazzo di Sloane Avenue a Londra, il cui acquisto è al centro dell’ultimo processo vaticano, è stato venduto. L’annuncio è arrivato l’1 luglio, con uno scarno comunicato dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, cui nel frattempo è stata trasferita l’amministrazione della Segreteria di Stato. Il prezzo di vendita è stato di 186 milioni di sterline, e, a fronte dell’investimento iniziale di 200 milioni e la svalutazione dovuta anche alla Brexit, è una cifra che rappresenta un guadagno, più che una perdita. Insomma, non un cattivo investimento, ma piuttosto un investimento gestito male.
Della vendita del palazzo ne aveva parlato già a fine gennaio padre Antonio Guerrero Alves, prefetto della Segreteria per l’Economia, quando presentò la previsione del cosiddetto “bilancio di missione” della Santa Sede nella ormai consueta intervista istituzionale a Vatican News, resa senza una conferenza stampa e una dialettica con i giornalisti.
Guerrero aveva detto: “Sono stati assunti un broker a Londra e uno studio legale, entrambi con una gara ristretta, così come una persona di fiducia a Londra per accompagnare il processo e rappresentare i nostri interessi”, che hanno lavorato con un team della Santa Sede e aiuti professionali esterne. Quindi, “sono state ricevute sedici offerte, quattro sono state selezionate, dopo una seconda tornata di offerte, è stata scelta la migliore. Il contratto di vendita è stato firmato, abbiamo ricevuto il 10% del deposito e tutto sarà concluso nel giugno 2022”.
Non solo. Guerrero aveva anche affermato che "la perdita della presunta truffa, di cui si è parlato molto e che ora è sottoposta al giudizio dei tribunali vaticani, era già stata presa in considerazione nel bilancio. L'edificio è stato venduto al di sopra della valutazione che avevamo in bilancio e della valutazione fatta dagli istituti specializzati”.
Le sue parole trovano conferma nel comunicato dell’APSA. Il Palazzo è stato venduto a Bain Capital, le eventuali perdite sono state a carico delle riserve della Segreteria di Stato, senza – viene specificato - "che in nessun modo in questa circostanza sia toccato l’Obolo di San Pietro, e con esso le donazioni dei fedeli”.
L’APSA ha anche spiegato che “per garantire la trasparenza e l’indipendenza del processo di valutazione, la Santa Sede si è avvalsa dell’assistenza del Broker immobiliare Savills, selezionato al termine di una procedura di gara avviata nel gennaio 2021 sotto la vigilanza di advisor immobiliari”.
Il palazzo ha avuto 16 offerte a settembre 2021, e la rosa è stata poi ristretta a 3 offerte, tutte soggette a due diligence (adeguata verifica), e poi si è scelto il compratore e si è fatta una compravendita.
Un chiarimento. L’equivoco che fossero stati usati soldi dell’Obolo di San Pietro deriva dal fatto che le risorse della Segreteria di Stato sono in un conto, il conto Obolo, che deriva il suo nome da quando la Segreteria era responsabile della raccolta dei fedeli e della loro distribuzione in progetti, e che poi ha mantenuto il nome nonostante l’obolo non fosse più lì.
A questo punto, però, ci sono anche alcune domande da farsi. La prima domanda: l’investimento nel palazzo di Londra era davvero un cattivo investimento?
Le cronache e una certa narrativa mainstream dicono che la Santa Sede avesse investito nel Palazzo 300 milioni di sterline, e che dunque avrebbe perso un centinaio di milioni. Ma il calcolo appare viziato da un difetto di forma, che si può correggere utilizzando quello che viene fuori dagli interrogatori del processo vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato.
Prima di tutto, l’investimento era di 200 milioni di euro, dati al fondo Athena di Raffaele Mincione per l’acquisizione delle quote del Palazzo (non dell’immobile), ma anche per altri investimenti.
Mincione in interrogatorio ha detto che “il gestore non deve dare conto degli investimenti svolti, ma solo sui profitti". Non può dunque destare scalpore che parte di questi fondi vengano destinati anche ad operazioni di acquisizione della Banca Popolare di Milano o di CARIGE, con tutto quel che ne è conseguito. Era parte delle possibilità date a Mincione.
Il contratto con Mincione è per una gestione di cinque anni più due in caso di eventuale disruption, ovvero di evento inaspettato. Avviene la Brexit, che è un chiaro evento inaspettato, ma monsignor Alberto Perlasca, allora a capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, non è contento dei risultati e vuole cambiare gestione, cosa che alla fine effettivamente fa, prendendo come consulente un altro broker, Gianluigi Torzi.
E così, si rompe un contratto che sarebbe dovuto durare altri due anni, con relativa transazione economica, e si mette tutto nelle mani di Torzi. È questa prima transazione economica a far lievitare il prezzo dell’investimento. La circostanza però non c’entrava né c’entra con l’investimento iniziale, e per questo è fuorviante arrivare a contare l’investimento in 300 milioni di sterline. La transazione è un collaterale.
Torzi terrà poi 1000 azioni, le sole con diritto di voto, prendendo il controllo totale del palazzo. Ed è a quel punto che l’arcivescovo Edgar Pena Parra, nel frattempo diventato sostituto della Segreteria di Stato, prende l’affare in mano, trasferisce Perlasca, tratta per acquisire l’intera proprietà, e non solo le quote, del Palazzo di Londra, con l’obiettivo di terminare il progetto di cambiare destinazione d’uso del palazzo, farne un palazzo residenziale e affittarne gli appartamenti.
Da qui, la richiesta per un prestito allo IOR, che sarebbe stato restituito con interesse, e, dopo l’incredibile rifiuto dello IOR arrivato tre giorni dopo aver accettato la richiesta, la ricerca di un altro finanziamento e il tentativo di rinegoziare quello che la Santa Sede si è trovata in pancia acquisendo il palazzo.
Torzi viene liquidato con 15 milioni, e anche questo fa lievitare i costi dell’affare, come pure le provvigioni da dare alle varie consulenze che si sono succedute, il che fa lievitare la cifra di altri 100 milioni. Si arriva così ai 300 milioni di investimento. In realtà, sono 300 milioni soprattutto si è deciso di uscire prima dai contratti stipulati con due diversi broker, con tutte le conseguenze legali e finanziarie del caso.
Nonostante le perdite, il palazzo ha comunque guadagnato, e le perdite sono state contenute. C’erano 16 offerte, a testimonianza della bontà dell’investimento. E viene da chiedersi perché alla fine, invece di terminare il progetto, si sia deciso di vendere. Per guadagnare davvero, bisognava mettere a reddito.
Tanto più che non è un momento propizio per vendere, e la Santa Sede non si sogna nemmeno di vendere le altre proprietà che ha a Londra. Investimenti fatti in tempi non sospetti, con i soldi della Conciliazione e una società, la Grolux Investments, collegata alla società svizzera Profima, che era gestita dal Vaticano.
Non è un mistero, tanto che il Guardian ne fece una storia nel 2013, alla vigilia della rinuncia di Benedeto XVI, notando come gli immobili a Londra erano stati comprati con i soldi di Mussolini.
Ma il punto è: se vale la pena vendere, perché la Sana Sede non vende gli altri immobili che possiede a Londra? È una domanda che resta aperta, mentre prosegue il processo in Vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato.
Processo del Palazzo di Londra, il Papa sapeva del prestito chiesto allo IOR?
Due interrogatori, alcune versioni contrastanti, un quadro ancora da ricostruire. Prosegue il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Con qualche novità
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , venerdì, 8. luglio, 2022 18:30 (ACI Stampa).
Papa Francesco aveva autorizzato la Segreteria di Stato a chiedere un prestito all’Istituto delle Opere di Religione per estinguere il mutuo che gravava sul palazzo su cui si era investito a Londra e prendere completamente in mano la gestione dell’immobile. Lo ha rivelato Fabrizio Tirabassi, officiale della Sezione Amministrativa della Segreteria di Stato vaticana, nella prosecuzione del suo interrogatorio nel processo vaticano che ormai è arrivato alla 25esima udienza.
In questa settimana, oltre all’interrogatorio di Tirabassi, ancora da terminare, c’è stato anche l’interrogatorio di Nicola Squillace, avvocato della società di Gianluigi Torzi che lavorò alle bozze del contrato (in realtà, un protocollo di intesa) che spostava la gestione del palazzo di Londra dal Fondo Athena alla GUTT di Torzi.
Serve, a questo punto, un po’ di storia.
Nel 2013, la Segreteria di Stato decide di investire 200 milioni di euro. Si esplora la possibilità di prendere quote di una società di estrazione petrolifera in Angola, la Falcon Oil, e per questo ci si rivolge a Raffaele Mincione, su suggerimento di Credit Suisse. Mincione mette su un fondo, il fondo Athena, ma poi sconsiglia di andare avanti con l’operazione.
La Segreteria di Stato gli lascia comunque i fondi dell’investimento, che impiega in parte (per 100 milioni di dollari) nell’acquisto delle quote di un immobile di lusso a Sloane Avenue, a Londra. Poi, nel 2018, la Segreteria di Stato decide di togliere la gestione a Mincione, riacquista le quote e le dà in gestione al broker Gianluigi Torzi, che usa una sua società, la GUTT. Torzi tiene per sé mille azioni, ma sono le sole con diritto di voto.
La Santa Sede poi tratterà con Torzi l’acquisto delle azioni, e deciderà di acquistare direttamente il palazzo, per prenderne il controllo diretto. Si inseriscono in questo contesto gli interrogatori di Tirabassi e Squillace.
Tirabassi sostiene che la Segreteria di Stato, e lui in particolare, non si era accorto fino alla fine che le azioni date a Torzi fossero in realtà le sole con il cosiddetto golden share, il diritto di voto, cosa che dava al broker la sovranità sul palazzo.
Squillace, che ha presentato le slide con le sette bozze di contratto da lui lavorate nel passaggio da Athena a GUTT, sostiene invece di aver sollevato la questione proprio con Tirabassi, il quale avrebbe replicato che va tutto bene perché la Segreteria di Stato aveva altre operazioni del genere.
Del mutuo che gravava sull’immobile, invece, si era consapevoli. Si trattava di un finanziamento di 123 milioni di sterline, acceso presso Cheyne Capital. Quando la Segreteria di Stato deciderà di prendere il controllo del palazzo, per salvare l’investimento, deciderà anche di estinguere il mutuo. E per l’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato, “non c’era niente di più trasparente che rivolgersi al proprio istituto interno”, vale a dire lo IOR, ha detto Tirabassi in interrogatorio.
Tirabassi ha aggiunto che lo stesso direttore generale dello IOR Gianfranco Mammì aveva parlato con il Papa del finanziamento, e che questi si era dimostrato favorevole. Ma già altre memorie difensive riportano che il Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, avesse chiaramente detto nelle riunioni di aver avuto l’ok del Papa per il prestito.
Il 24 maggio 2019, una lettera del presidente dello IOR de Franssu darà il via libera al prestito, una luce verde che diventerà luce rossa appena tre giorni dopo. Tirabassi ha ricostruito la vicenda, ha sottolineato come l’Autorità di Informazione Finanziaria avesse bloccato una prima operazione, autorizzando invece il piano rivisto della Segreteria di Stato per l’acquisizione del palazzo. “Dicevano che c’erano problemi di riciclaggio, ma se l’Autorità antiriciclaggio aveva detto che non c’erano problemi…”, ha detto Tirabassi in udienza.
L’Autorità, tra l’altro, si attiva con le controparti estere appena riceve una segnalazione di transazione sospetta dalla Segreteria di Stato, ed era chiaro che avrebbe continuato a controllare il flusso di denaro. Si potrebbe persino pensare che il procedimento sommario autorizzato dal Papa, con le indagini che hanno fatto seguito, abbiano di fatto bloccato l’intelligence dell’autorità. È una questione che sarà probabilmente esplorata nel corso dei dibattimenti.
I due interrogatori hanno mostrato per la prima volta due punti di vista diversi, perché Tirabassi ha affermato di essere stato raggirato da Squillace e Torzi, e Squillace ha sempre sostenuto di aver dato continue informazioni.
Colpisce, piuttosto, il fatto che monsignor Alberto Perlasca, allora capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, abbia firmato gli accordi, pur non essendo titolato a farlo. Tirabassi ha parlato di una voglia del monsignore di prendere in carico i problemi per non coinvolgere i superiori, ma ha anche detto di aver preso le distanze da Perlasca e di essersi avvicinato al sostituto quando si era reso conto che il comportamento di Perlasca era potenzialmente dannoso. Squillace ha detto di aver sempre pensato che Perlasca avesse la possibilità di firmare, specialmente il primo accordo, il cosiddetto framework agreement, che non aveva obblighi, ma solo impegni reciproci, con una esclusiva a scadenza. “La Santa Sede poteva recedere da quell’accordo in ogni momento”, ha detto.
Non ha receduto, anche perché Perlasca “era molto determinato a dare la gestione a Torzi”, ha detto Tirabassi.
Entrambi gli interrogatori dovranno proseguire il 14 e 15 luglio. Poi si riprende a settembre, con tre udienze consecutive calendarizzate ogni due settimane, e possibilmente con i primi testimoni. Pignatone ha parlato di 200 testimoni, ma molti potrebbero non essere chiamati per via degli sviluppi processuali che hanno fatto evolvere le accuse. Sarà, comunque, un processo lungo.
Anche perché, come si ricorderà, il processo ha come filone principale il palazzo di Londra, ma coinvolge 10 imputati, e almeno altri due filoni di inchiesta: l’erogazione, da parte del Cardinale Angelo Becciu nelle sue funzioni di sostituto, di una donazione alla Caritas di Ozieri; e il contratto da consulente dato dalla Segreteria di Stato a Cecilia Marogna.
Processo Palazzo di Londra, cosa c’era dietro il dibattito sull’investimento
Riprende il processo che verte sull’investimento della Segreteria di Stato in un palazzo di Londra, più altri carichi di accusa. Cosa è successo, dove va il processo
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 1. ottobre, 2022 11:00 (ACI Stampa).
Cosa si muoveva dietro la decisione della Segreteria di Stato di prendere in mano l’investimento su un immobile di lusso a Londra, dopo aver rotto i contratti con due diversi intermediari? È questo il tema centrale del processo vaticano che ha al centro la questione dell’investimento della Segreteria di Stato, ma che tocca anche altre vicende e ha tra gli imputati anche il Cardinale Angelo Becciu.
Le udienze sono riprese il 28 settembre, dopo due mesi di pausa, con gli interrogatori agli imputati Fabrizio Tirabassi, ex officiale della sezione amministrativa della Segreteria di Stato vaticana, e all’avvocato Nicola Squillace, e con l’inizio delle testimonianze. Per ora, solo due i testimoni sentiti: Roberto Lolato, che ha fatto da consulente del Promotore di Giustizia vaticano per districarsi nei termini dell’affare, e Alessandro Cassinis Righini, revisore generale della Santa Sede.
Più che ai dettagli, si deve guardare ai grandi temi che sono stati forniti dai tre giorni di udienza. Nel momento, infatti, che si cerca di avere un quadro più largo della situazione, sorgono diverse domande.
Partiamo dalla fine, ovvero dalla testimonianza di Cassinis Righini, resa il 30 settembre. Il revisore non solo ha reso noto di un clima di ostilità per il suo lavoro in Vaticano e soprattutto da parte della Segreteria di Stato, ma è arrivato anche a sottolineare che i suoi consigli sugli investimenti non riguardavano la bontà degli investimenti, ma l’opportunità degli investimenti stessi. Una affermazione, questa, che sembra uscire dalle competenze del revisore, chiamato soprattutto a fare in modo che i conti siano a posto e aderenti agli standard internazionali.
Non solo: Cassinis Righini sottolinea che quello non era il modo di gestire i soldi dell’Obolo di San Pietro, e a domanda ha detto di essere certo che sono soldi dell’Obolo. In realtà, la Segreteria di Stato ha dal 1939 un conto denominato “conto Obolo”, nato nell’allora Amministrazione per le Opere di Religione con alcuni soldi trovati nel cassetto di Pio XI dopo che questi era morto.
Il revisore, poi, ha anche contestato le operazioni della Segreteria di Stato, ha lamentato che il patrimonio della stessa (958 milioni di euro) era nella quasi totalità in svizzera (516 milioni o 564 milioni, ha detto in due riprese, forse correggendosi o forse sbagliando) e che di base non comprendeva nemmeno la allocazione dei fondi.
Il punto è che la Segreteria di Stato ha da sempre avuto autonomia nella gestione dei fondi, tanto che c’è un rescritto di Papa Francesco del 5 dicembre 2016 che ribadisce l’autonomia della Segreteria di Stato.
Il rescritto metteva fine ad una querelle cominciata quando era stato dato alla società Pricewaterhouse Cooper il compito di revisionare i conti del Vaticano, senza eccezioni, di fatto andando a toccare la sovranità stessa della Santa Sede. La Segreteria di Stato si oppose alla decisione, e poi ridefinì il contratto con PwC, in modo che fosse più in linea con le peculiarità di uno Stato.
Strascichi di questo dibattito si sono trovati nella testimonianza di Cassinis Righini, lasciando l’impressione che lo scontro fosse tra quanti volevano difendere la Santa Sede e quanti, in realtà, volevano fare della Santa Sede una azienda. In un clima di tensione, è facile che si creino inimicizie.
Su una cosa Cassinis Righini aveva ragione, e cioè sul fatto che sarebbe stato meglio non portare avanti il contratto con Gianluigi Torzi, che aveva preso la gestione del fondo immobiliare del Palazzo di Londra, trattenendo per sé le uniche 1000 azioni con diritto di voto. Cassinis ha detto che, una volta coinvolto nella analisi dei contratti, avrebbe subito fatto sapere che si sarebbe dovuta interrompere la trattativa.
Ma la trattativa non fu interrotta. La decisione fu di monsignor Alberto Perlasca, allora capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, che aveva tra l’altro affrontato la negoziazione a Londra senza un avvocato della Santa Sede. Questo risulta chiaro da testimonianze e interrogatori.
Eppure Perlasca non era nella lista dei primi 27 testimoni presentata dal promotore di Giustizia. Si pensava non ci fosse perché, trattandosi di un processo documentale, l’accusa poteva aver deciso che la testimonianza di Perlasca fosse già sufficiente. Alla fine, anche il presidente del Tribunale vaticano Giuseppe Pignatone ha sollecitato il promotore a inserire Perlasca tra i testimoni, e si è scoperto così che il promotore Alessandro Diddi lo voleva convocare solo verso la fine della sua lista di testimoni. Di certo, colpiva la assenza di Perlasca dai primi testimoni.
Un altro tema riguarda poi la gestione delle finanze vaticane, che di certo è stata per lungo tempo familistica. Di fronte alla volontà di Tirabassi di lasciare la Segreteria di Stato per intraprendere la libera professione, nel 2004, l’allora direttore dell’amministrazione, monsignor Gianfranco Piovano, gli dà invece l’autorizzazione ad esercitare fuori dal Vaticano e una procura per una consulenza con UBS, la banca svizzera che aveva parte dei fondi della Segreteria di Stato. Consulenza, questa, da compensare con i dividendi, che arrivano copiosi: dal 2004 al 2009, anno in cui la Santa Sede lascia il rapporto con UBS, Tirabassi guadagna 1 milione 360 mila euro, poi fatti rimpatriare. Vale a dire, circa 200 mila euro l’anno.
Con la chiusura del rapporto con UBS questo “bonus” viene meno, ma Tirabassi non ha chiesto altro.
La questione della ricchezza di Tirabassi è stata oggetto di buona parte del suo interrogatorio, teso ad accertare se l’officiale della Segreteria di Stato prendesse commissioni, provvigioni o altre quantità di denaro al di là della sua professione, e magari in nero. Tutto, però, era regolare.
Infine, la questione delle procedure. Prima di iniziare la fase di ascolto dei testimoni, Pignatone ha invitato tutti ad essere precisi e sintetici, ricordando che tutto è agli atti. Allo stesso tempo, ha ricordato di aver permesso un dibattito ampio, “ammettendo anche domande che sarebbero state inammissibili”. In questo modo, Pignatone ha fatto comprendere di essere consapevole dei vizi procedurali, ma che allo stesso tempo lui si sarebbe fatto garante di una certa tranquillità in aula.
Una nota a proposito del consulente Lolato: ha collaborato nell’ufficio del Revisore Generale dal 2016 al 2019, ed è poi stato spostato alla Gendarmeria Vaticana per collaborare alle indagini. È stato lui a fianco di Cassinis Righini nelle prime valutazioni sull'immobile da parte del revisore.
Altra nota a margine: Cassinis Righini si è detto assicuramente sicuro che il Papa non sapesse niente dell'investimento, ma che questo fosse conosciuto agli alti livelli di Segreteria di Stato. Poi però ha dovuto ammettere di non poter sapere con certezza se il Papa sapesse o meno. E, dato che lui stesso ha testimoniato che c'erano azioni che non potevano essere fatte senza esplicite autorizzazioni dei superiori, resta improbabile che nessuno avesse informato Papa Francesco, il quale, tra l'altro, è poi stato fotografato a Santa Marta con Gianluigi Torzi il 26 dicembre 2018, mentre Torzi trattava la sua uscita dall'affare.
A conclusione dell’udienza, il presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, ha fornito un calendario per le prossime udienze. Cinque quelle in programma a ottobre: 12, 13, 14 e poi 19 e 21. Per novembre sono fissati i giorni 10, 11, 23, 24, 25, 30; a dicembre 1, 2, 15 e 16. Saranno ascoltati tutti i testimoni dell’accusa, al momento circa 41. Non calendarizzato per ora l’interrogatorio al direttore dello IOR, Gian Franco Mammì, che era previsto per il 30 settembre. In tutte queste date, ha detto Pignatone, “bisogna collocare Perlasca da qualche parte. Sarà sicuramente un interrogatorio lungo”.
Ancora non tutte le citazioni sono arrivate ai testimoni.
Processo Palazzo di Londra, la versione di Becciu
Con una lunga dichiarazione spontanea, il Cardinale Becciu risponde ad una ricostruzione della testimonianza del commissario della Gendarmeria De Santis. Cosa è successo in queste tre udienze
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 15. ottobre, 2022 15:00 (ACI Stampa).
Con due dichiarazioni spontanee, di cui una molto articolata, il Cardinale Angelo Becciu ha risposto ad alcune ricostruzione fatte nell’aula del tribunale del testimone Stefano De Santis, commissario della Gendarmeria. E se una prima volta ha portato il commissario a rivedere parzialmente la sua versione dei fatti, la seconda volta le parole del Cardinale sono entrate in maniera dirompente nel processo.
Dal 12 al 14 ottobre, si sono tenute tre udienze del processo vaticano che riguarda la gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Il processo ha come centro un investimento della Segreteria di Stato su un immobile di lusso a Londra, ma include altri capi di imputazione, con in particolare accuse di peculato al Cardinale Becciu per una finanziamento della Segreteria di Stato ad una cooperativa legata alla Caritas della diocesi di Ozieri e per i rapporti con la sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna, che ha aiutato il cardinale in alcune operazioni di rilascio prigionieri – operazioni rimaste riservate e conosciute solo dal Papa.
In tre giorni, sono stati sentiti il commissario De Santis (che dovrà tornare il 19 per l’ultimo controesame delle difese), Marco Simeon e l’ex vicepresidente della Fondazione Enasarco Andrea Pozzi, interrogatorio quest’ultimo durato pochi minuti perché la sua testimonianza non toccava i capi di imputazione.
La dichiarazione di Becciu
Per comprendere l’andamento del processo, si deve partire dalla fine, cioè dalla lunga dichiarazione spontanea del Cardinale Becciu.
Riassunto delle puntate precedenti. Il commissario De Santis ha riferito di un incontro cui lui ha partecipato a casa del Cardinale Becciu insieme al comandante della Gendarmeria Gauzzi Broccoletti il 3 ottobre 2020. Incontro che sarebbe stato sollecitato dallo stesso Becciu con una telefonata, e che il Cardinale avrebbe chiesto, con le mani ai capelli, di non fare uscire il nome di Cecilia Marogna, perché sarebbe stato un danno per lui e per i suoi famigliari.
Il Cardinale Becciu ha controbattuto in aula che era stato il comandante della Gendarmeria a proporsi di andarlo a trovare dopo che lui si era lamentato delle notizie false che venivano fuori sulla sua famiglia, e che in quell’occasione i gendarmi gli avessero chiesto di tenere l’incontro riservato perché sentivano di venir meno dei loro doveri e avrebbero informato il Cardinale delle indagini su Cecilia Marogna e sul modo non appropriato con cui spendeva i soldi della Segreteria di Stato. Il Cardinale si sarebbe messo le mani nei capelli, e avrebbe chiesto discrezione sulla Marogna, ma solo perché di quelle operazioni erano a conoscenza solo lui e il Santo Padre.
De Santis ha ulteriormente replicato cambiando lievemente versione su come era giunto a casa di Becciu, ma negando che avessero chiesto di mantenere l’incontro riservato, e ribadendo che il Cardinale era preoccupato per i suoi famigliari.
Viene da qui la dichiarazione del Cardinale all’ultima udienza.
“Confermo nel modo più assoluto che mi venne detto di tenere il segreto e io ho rispettato quell’impegno e anche nei momenti più difficili e tormentati non ho mai confidato a nessuno di quell’incontro”, ha affermato il Cardinale. Il quale ha soggiunto che De Santis gli avrebbe detto che il Papa gli voleva bene, in Sardegna era amato e allora sarebbe stato bene rientrare in Sardegna perché – avrebbe detto il gendarme – ‘Non vorrà mica parecipare a un processo? Lei sa quante cose negative potrebbero venire fuori”.
Il Cardinale ha anche accennato ai finanziamenti della CEI alla Caritas di Ozieri, che però non sono oggetto del processo, ma che rientrano spesso nelle circostanze processuali. Becciu non ha negato il suo interessamento, ma ha sottolineato di non vederci “alcun reato”, perché “è una prassi normale della Chiesa quella di aiutarsi reciprocamente”. E ha chiesto di focalizzarsi sulle vere domande, ovvero se i finanziamenti siano andati davvero, come è successo, a realizzare le opere per cui erano chiesti, se la CEI aveva mai avanzato una lamentela sulla rendicontazione, e se davvero i suoi familiari si fossero arricchiti, perché “mio fratello non preso un centesimo”. Anzi, ha autorizzato a dichiarare pubblicamente se mai, dagli accertamenti, si sia trovata una entrata irregolare nei conti dei famigliari.
Il Cardinale ha poi notato che la Segreteria di Stato ha erogato 60 mila euro alla Cooperativa Simpatia di Como, dove lavora il padre di monsignor Alberto Perlasca, testimone chiave del processo, eppure questa non è stata indagata.
Riguardo la Marogna e alla liberazione della suora rapita in Mali, il Cardinale si è detto ancora vincolato dal segreto, e sottolineato che la riservatezza dell’operazione era dovuta anche ad una fuga di notizie sventata nei giorni precedenti. Lo stesso cardinale si è detto “irritato” nel sapere che l’esperta di intelligence spendeva per altri scopi la somma datagli dalla Segreteria di Stato per l’operazione, e di aver chiarito con la stessa Marogna, la quale aveva garantito che non era vero.
L’impianto accusatorio
La testimonianza di De Santis, che si è protratta per due udienze, serviva anche a riepilogare le indagini della Gendarmeria vaticana. Diverse volte, il commissario ha fatto riferimento ad annotazioni di altri Gendarmi che avevano svolto le analisi, cercando di spiegare nel dettaglio il ragionamento che ha portato la gendarmeria a ipotizzare alcuni reati.
Un momento chiave ha riguardato l’analisi di una lettera del Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, ha inviato riguardo una offerta per il Palazzo di Londra pervenuta alla Segreteria di Stato tramite l’onorevole Giancarlo Innocenzi Botti e l’ex ambasciatore italiano a New York Castellaneta per il gruppo Bizzi & Partners, e di un’altra offerta del gruppo immobiliare Fenton - Whelan.
De Santis ha sottolineato che “nulla di quello che è stato riferito nella lettera corrisponde al vero”, sostenendo, in pratica, che alla Segreteria di Stato fossero state rappresentate situazioni non veritiere.
Le offerte per il Palazzo di Londra
Eppure, lo stesso De Santis ha dovuto poi ammettere che la manifestazione di interesse del gruppo Fenton Whelan non è passata da un gruppo riferibile a Raffaele Mincione. Semplicemente, era stata indirizzata al gruppo WRM, che aveva gestito il palazzo, per comprendere con chi parlare.
Quindi, anche la ricostruzione sull’offerta presentata da Innocenzi Botti è stata chiarita dalla testimonianza di Marco Simeon. Simeon, che dal 2000 ha rapporti con la Santa Sede con vari incarichi e rapporti personali, era stato contattato da Innocenzi Botti proprio per fare da mediatore per la manifestazione di interesse. E Simeon ha contattato il cardinale Becciu, che lo ha poi riferito agli organi competenti.
Simeon ha detto con chiarezza che il Cardinale non ha mai ricevuto compenso e che non è mai stato coinvolto nella pare operativa dell’offerta, per la quale invece i riferimenti erano padre Antonio Guerrero Alves, prefetto della Segreteria per l’Economia, e lo stesso Cardinale Parolin come capo della Segreteria di Stato proprietario dell’immobile.
Bizzi & Partners presentava una offerta per il palazzo di 315-330 milioni, superiori al valore di mercato corrente per il palazzo, ma inclusiva del valore che andava verso lo sviluppo del palazzo stesso, con un piano che prevedeva permessi per sopraelevarlo di due piani, aumentando considerevolmente la superficie commerciale.
La proposta arrivò un anno dopo che la Santa Sede aveva preso il pieno possesso del palazzo di Londra, e l’offerta avrebbe portato la Santa Sede ad un sostanziale pareggio tra investimento e perdite sul palazzo.
Simeon ha anche sottolineato che aveva chiesto che le sue commissioni non fossero pagate dalla Santa Sede e di aver appreso dell’esistenza di Torzi solo maggio 2020, e di rappresentare per lui solo “una criticità” nella vendita dell’immobile.
La ricostruzione di Simeon, però, farebbe crollare l’ipotesi che la stessa proposta di Bizzi & Partners rappresentasse un depistaggio per la Santa Sede. L’ipotesi accusatoria è che la proposta di acquisto, pari a oltre 330 milioni di euro, da parte della famosa società Bizzi & Partners era una manovra di Gianluigi Torzi per riappropriarsi dell’immobile. Ipotesi corroborata dal fatto che lo stesso giorno si era costituita una società con due soci che si dicono collegati al broker.
Le indagini
Il Commissario De Santis ha anche spiegato lo svolgimento delle indagini. Un momento chiave sono le perquisizioni della Gendarmeria nei locali della Segreteria di Stato e dell’Autorità di Informazione Finanziaria. Cruciali anche perché la Gendarmeria non ha competenza sul Palazzo Apostolico, dove può operare solo la Guardia Svizzera, e dunque il procedimento ha creato anche un vulnus nella stessa struttura vaticana – ma De Santis si è limitato a dire che non si era mai entrati nel Palazzo Apostolico, senza spiegare perché.
De Santis ha parlato anche di un fondo etico e religioso costituito dall’ex officiale dell’amministrazione della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi, nel quale la Segreteria di Stato ha investito 20 milioni di euro.
Colpisce invece un dettaglio. Si sa che il 5 settembre monsignor Perlasca ha cenato con il Cardinale Becciu, e che i contenuti di questa cena sono stati affrontai nel corso di un interrogatorio a Perlasca. De Santis chiarisce che Perlasca era andato due giorni prima negli uffici della Gendarmeria, per avvisare i gendarmi della cena imminente, e di aver detto che sarebbe stato di loro interesse.
Si è parlato anche di una registrazione della cena da parte di Perlasca. De Santis ha detto nettamente: “Se Perlasca riteneva di informare il corpo della Gendarmeria pensando nella sua testa che il corpo della gendarmeria possa fare alcun tipo di attività in ristorante italiano è nella testa sua. La Gendarmeria non muove un passo se non debitamente autorizzata”.
Nonostante il chiarimento, sono dettagli che possono avere dei contraccolpi nel momento in cui lo stesso Perlasca sarà escusso.
L’ASIF
In queste tre udienze, ha colpito l’assenza della parte civile ASIF (Autorità di Supervisione e Informazione Finanziaria). Ci sarebbero stati, però, dettagli da chiarire. De Santis, infatti ha sostenuto di non sapere all’epoca delle attività di intelligence dell’AIF. Eppure, era noto – e si trova anche nei documenti sequestrati all’AIF e finiti negli atti del processo – che l’AIF aveva attivato diverse Unità di Informazione Finanziaria estere e queste non avevano dato alcun elemento rilevante né su Gianluigi Torzi né su Raffaele Mincione.
De Santis rileva anche che l’AIF invia l’11 giugno una richiesta di informazione all’allora segretario generale del governatorato Fernando Vergez de Alzaga, cosa che porta alla domanda del promotore di Giustizia se Vergez sia autorità di polizia. Vergez è però una autorità di controllo, l’AIF, secondo legge antiriciclaggio, può chiedere informazioni amministrative e finanziarie e investigative, scegliendo il proprio interlocutore.
Sono dettagli, che però al limite dimostrano come non fossero chiare – o fossero state ignorate – le operazioni e le funzioni dei vari organismi vaticani. Come si può configurare un reato se alla fine anche le funzioni stesse degli organismi vaticani sono male interpretati, e le prassi vaticane sono sconosciute?
È la domanda latente del processo, mentre si comincia meglio a definire l’impianto accusatorio e la strategia del promotore di Giustizia per confermare le ipotesi di reato contenute nel rinvio a giudizio.
I prossimi interrogatori, in questo senso, saranno cruciali per capire quale indirizzo prenderà questo processo. Intanto, il presidente del Tribunale Pignatone, con due ordinanze, ha rigettato le richieste dell’imputato Gianluigi Torzi e del teste Gianluigi Capaldo di essere sentiti da remoto: dovranno presentarsi in aula per l’interrogatorio.
Una nota a margine: Raffaele Mincione, il broker che per primo gestì i fondi della Segreteria di Stato nel palazzo di Londra, ha ottenuto una seconda piccola vittoria in Inghilterra.
La prima è stata il riconoscimento di poter portare la Segreteria di Stato in tribunale a Londra. Mincione si era rivolto al Tribunale inglese sostenendo il danno alla sua reputazione, per l’impossibilità di difendersi adeguatamente, e in appello gli è stata data ragione, sostenendo che la Segreteria di Stato non può definirsi neutrale nella vicenda.
La seconda è stato il risarcimento ottenuto dal Corriere della Sera per le presunte accuse diffamatorie di appropriazione indebita, frode e corruzione. Anche questi dettagli possono mettere in crisi l’impianto del processo.
https://www.acistampa.com/story/20904/processo-palazzo-di-londra-la-versione-di-becciu-20904
Processo Palazzo di Londra, la strada verso l’interrogatorio di Perlasca
Sarà il 23, 24 e 25 novembre che monsignor Alberto Perlasca si presenterà davanti al tribunale per dare la sua versione dei fatti. Le udienze di questa settimana hanno visto protagonisti i gendarmi
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 22. ottobre, 2022 11:00 (ACI Stampa).
Due le notizie che vengono dalle ultime due udienze dal processo sulla gestione di fondi della Segreteria di Stato che si sta celebrando in Vaticano: il supertestimone monsignor Alberto Perlasca testimonierà il 23, 24 e 25 novembre, in sedute che si preannunciano molto dense di eventi e di domande; e i testimoni, da ora in poi, riceveranno domande solo su fatti non presenti in atti, per non portare a ripetizioni degli interrogatori già fatti, rispettando la prassi del processo documentale che vige in Vaticano.
La seconda notizia ha un suo peso. Giuseppe Pignatone, presidente del Tribunale Vaticano, ha, nella seduta del 21 ottobre, imposto uno stop all’ufficio del promotore e alle difese, sottolineando la pazienza avuta sino a quel momento, ma chiedendo, appunto, di snellire gli interrogatori, di limitarsi alle novità, o altrimenti di far semplicemente confermare l’interrogatorio reso. Anche perché – ha sottolineato – i testimoni delle difese, in buona parte non sottoposti ad interrogatorio durane le indagini, porteranno necessariamente a sedute lunghe. “In questo modo finiremo nel 2070”, ha sbottato Pignatone.
Continua così il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Centrato sull’investimento della Segreteria di Stato su un immobile di lusso, prima affidato a due broker e poi rilevato dalla stessa Segreteria di Stato, il processo include anche altre vicende, come il peculato contestato al Cardinale Angelo Becciu per dei finanziamenti della Segreteria di Stato alla cooperativa SPES della Caritas di Ozieri, o le contestazioni contro la sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna, che ha collaborato con la Segreteria di Stato nella liberazione di alcuni ostaggi.
Troppe vicende tenute in vita da un filo sottile, che hanno come punto comune le sole indagini condotte dall’ufficio del Promotore di Giustizia vaticano ed eseguite dai gendarmi. Sono stati proprio i gendarmi ad essere i protagonisti di questa due giorni di testimonianza, e le loro parole hanno anche permesso di comprendere parte della ratio con la quale sono state condotte le indagini. Proviamo a fare una panoramica delle varie vicende che si sono intrecciate in queste ultime due udienze.
La questione Sardegna
Gianluigi Antonucci è il gendarme che ha partecipato alle perquisizioni nella diocesi di Ozieri, in Sardegna. Questi ha spiegato che i contributi della Segreteria di Stato alla cooperativa SPES, guidata da Antonino Becciu, fratello del Cardinale, sono arrivati “da un conto della Segreteria di Stato” della sezione affari generali, in cui c’erano altri 44 sottoconti e sul quale “transitano importantissime cifre destinate all’Obolo di San Pietro”. Dettaglio da non trascurare, perché si continua a dire che siano stati usati fondi dell’Obolo anche per l’immobile di Londra, e invece i fondi dell’Obolo potrebbero anche essere solo in transito nei conti coinvolti, oppure il tutto può essere nato dalla non conoscenza di un “Conto Obolo” aperto con questo nome dalla Segreteria di Stato già nel 1939.
Insomma, tra i bonifici anche i famosi 100 mila euro della Segreteria di Stato dati dalla SPES, di cui Becciu aveva chiesto anche un rendiconto annuale sulle iniziative sociali. Rendiconto che non è stato, perché la cifra non è stata spesa e neanche restituita.
I fondi erano destinati alla ristrutturazione di un panificio gestito dalla cooperativa, acquisito nel 2004 e ristrutturato dopo un incendio nel 2015, che dava lavoro a diversi giovani disoccupati. E c’erano poi altri 25 mila euro, destinati all’acquisto di una macchina panificatrice, che costava in totale 98 mila euro più IVA.
I fondi finivano al conto usato sia da Caritas che da SPES, definito dai gendarmi “conto promiscuo”. Ed è su quella promiscuità che si basa l’ipotesi che il denaro sia stato speso e che non si possa definire se i 100 mila euro rimasti in pancia siano proprio quelli della Segreteria di Stato. Eppure quei 100 mila euro ci sono, e non sono stati spesi perché destinati ad un uso specifico non ancora espletato.
Colpisce poi il fatto che non siano stati sentiti dai gendarmi né l’amministraore apostolico di Ozieri Sebastiano Sanguinetti, né il vescovo Corrado Melis, che erano in carica durante il periodo dei fatti. Non c’è stata, per i vescovi, alcuna convocazione, ma una chiamata informale fatta da un sacerdote al telefono cui il vescovo ha risposto di non avere tempo in quel momento. Eppure, la loro testimonianza sarebbe stata importante, perché entrambi si sono sempre dimostrati favorevoli al progetto e consapevoli del finanziamento, ed in fondo è il vescovo il responsabile ultimo di tutto. Ma Antonucci ha replicato che “non era sua decisione come condurre le indagini”.
E però, il gendarme fa anche le sue valutazioni. Perché Antonucci, per esempio, “non esclude” che alcune spese di 109 euro della Spes per abbigliamento, pasti, carburante siano state destinate ai profughi assistiti dalla Caritas di Ozieri, ma ha aggiunto che “è strano che certe spese riguardassero i migranti”. E lascia intendere di non comprendere la destinazione di 3000 euro prelevati dal conto, ma di non poter escludere che siano stati destinati a piccole elargizioni.
Se però il principio è che “non si può escludere”, resta da comprendere come siano state costruite le ipotesi accusatorie, che più che su deduzioni devono essere basate su fatti.
In una nota successiva all’udienza, gli avvocati del Cardinale Becciu sottolineano che è stata ricostruita la genesi dei contributi della Segreteria di Stato nei confronti di Caritas Ozieri, di 25.000€ nel 2015 e di 100.000€ nel 2018.
“È stato ulteriormente ribadito – scrivono - come il contributo del 2015 fu impiegato quale parziale sostegno per l’acquisto di un forno, da impiegare nel progetto del panificio a vocazione sociale, dal costo complessivo di 119.000€”.
Continuano gli avvocati: “Quanto, invece, al contributo erogato nel 2018, è stato confermato che il Vescovo di Ozieri, Mons. Melis, mai ascoltato durante le indagini dagli inquirenti, aveva a più riprese pubblicamente annunciato che la somma era stata accantonata per la futura costruzione della ‘Cittadella della Carità, un centro polifunzionale a vocazione sociale, in attesa del raggiungimento della somma complessiva necessaria a finanziarla, pari ad oltre 1.300.000€. È stato confermato che i lavori hanno avuto inizio nel febbraio di quest’anno”.
Come si sono svolte le indagini
Nell’udienza del 19 ottobre, Luca De Leo, tecnico informatico del Centro di Sicurezza della Gendarmeria, ha sottolineato che sono stati acquisiti, analizzati e riversati 243 dispositivi, e di questi 37 sono i dispositivi usati dal Promotore di Giustizia per l’indagine, di cui 9 cellulari e 17 computer.
Tra i documenti analizzati, la cosiddetta “Lettera del 3 per cento”. È una lettera della Segreteria di Stato, datata 17 aprile 2019, con cui si garantiva al broker Gianluigi Torzi il 3 per cento del valore dell’immobile di Londra. Una lettera che secondo l’accusa esisteva a livello virtuale. Il teste ha detto che non è mai stata trovata una copia fisica e che il documento, preparato nel novembre 2018, era stato poi stampato nell’aprile 2019. Lo storico del documento mostra delle modifiche, ma in realtà non si può sapere quanto sostanziali siano le modifiche.
Le difese hanno di nuovo denunciato la parzialità delle prove, ma Pignatone ha fatto notare che già in un ordinanza dell’1 marzo si era stabilito che fosse diritto del Promotore di Giustizia selezionare le prove documentali.
Ed era sempre il promotore a indicare dove e cosa andare a cercare nelle chat o nei dispositivi, segnalando dei lassi di tempo precisi e delle parole chiave. Tanto che l’avvocato di monsignor Mauro Carlino, segretario prima del sostituto Becciu e poi del sostituto Pena Parra, ha fatto notare come una delle frasi incriminate – e secondo lui erroneamente interpretate – derivino dal fatto che non si siano considerati gli scambi fatti appena prima e appena dopo la frase, facendo perdere del tutto ogni sorta di contesto. Una questione, questa, sollevata anche da monsignor Carlino nel suo interrogatorio, quando, cellulare alla mano, andò e ricontestualizzare ogni frase a lui attribuitagli, mostrando come la parzialità della selezione dava anche adito a fraintendimenti.
Indagini a margine
Domenico De Salvo, vice ispettore della Gendarmeria, ha dettagliato una ventina di soggiorni in Svizzera – per le verità brevissimi, a volte di un solo pernotto – dell’ex officiale dell’Amministrazione della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi, pagati dalla società Sogenel Capital Holding di Enrico Crasso, anche lui imputato e storico investitore dei fondi della Segreteria di Stato.
In una dichiarazione spontanea, Tirabassi ha messo in luce come tutti i viaggi avessero ragione di ufficio, tutti fossero stati autorizzati o comunicati al suo diretto superiore, monsignor Perlasca, sebbene non ci fosse un metodo ufficiale per farlo, e Perlasca si limitasse in molti casi ad autorizzare il tutto solo verbalmente. Riguardo i pagamenti, era d’uso che pagasse il partner.
Angelo Martone, ausiliare della polizia giudiziaria, che si è occupato della analisi dei conti bancari, si è soffermato sulle attività di Crasso e sugli investimenti della Segreteria di Stato tramite società dello stesso broker. L’avvocato di Crasso ha chiesto se si è mai considerato nelle indagini che comunque questi investimenti hanno fruttato plusvalenze di diversi milioni di euro, l’ausiliare ha detto di no.
Luca Bassetti, invece, gendarme della sezione di polizia giudiziaria, si è soffermato sul caso di Cecilia Marogna. Dalla Segreteria di Stato sono partiti nove bonifici a favore della Logsic, la società in Slovenia che aveva in Cecilia Marogna la titolare unica, e della società britannica Inkermann. Le causali erano “Voluntary contribution for humanitarian missions”, e il gendarme ha anche sottolineato come Becciu continuasse ad occuparsi della questione nel 2018, quando non era più sostenuto, come denotato da chat con monsignor Perlasca. Va notato, però, che era una operazione di cui pochissimi erano a conoscenza, e che dunque non deve sorprendere che Becciu se ne occupasse in prima persona, né che il successore di Becciu, l’arcivescovo Peña Parra, avesse bisogno di chiarimenti per portare avanti operazioni di cui non era a conoscenza. Parte della transizione, si potrebbe dire.
In tutto ciò, si nota anche che una attività di vigilanza c’era. L’Autorità di Informazione Finanziaria aveva fatto una segnalazione di transazione sospetta su un versamento in contanti del 4 settembre 2018 di otto banconote da 500 euro.
Due interrogatori lampo per l’arcivescovo di Fermo Pennacchio, all’epoca dei fatti responsabile CEI dell’8 per mille, e per Stefano Calamelli, dirigente del Bambino Gesù, chiamati solo a confermare la testimonianza resa in interrogatorio.
I prossimi passi
Fermo restando che molto si comprenderà dalla testimonianza di monsignor Perlasca, il presidente del Tribunale ha sollecitato a trovare nuova collocazione anche per l’architetto Giuliano Capaldo, consulente della Segreteria di Stato e prima ancora collaboratore di Gianluigi Torzi, che non si era presentato l’11 ottobre come previsto e aveva persino chiesto di essere sentito a Londra, richiesta rigettata dal presidente Pignatone.
Non ci sarà prima di dicembre, invece, la testimonianza di Gianfranco Mammì, direttore generale dello IOR, la cui segnalazione ha fatto scoppiare il caso. Dovrà spiegare, tra l’altro, come mai lo IOR rispose positivamente ad una richiesta di prestito della Segreteria di Stato per poi cambiare idea pochi giorni dopo.
Processo Palazzo di Londra, l’andamento delle indagini, un cardinale testimone
Continuano le udienze del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Ancora una richiesta di nullità
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 29. ottobre, 2022 12:30 (ACI Stampa).
Sarà il 2 dicembre che il Cardinale Oscar Cantoni, arcivescovo di Como, testimonierà davanti al Tribunale vaticano nel processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato che include diversissime imputazioni. L’arcivescovo di Como dovrà rispondere solo riguardo una presunta subornazione ai danni di monsignor Alberto Perlasca da parte del Cardinale Angelo Becciu.
La presenza di Cantoni si unisce a quella di Luciano Capaldo, consulente della Santa Sede, che, dopo non essersi presentato il 13 ottobre per impedimenti lavorativi e di salute, dovrà ora comparire in aula il 23 ottobre. E poi, tra le testimonianze già calendarizzate, quella di Giuseppe Milanese, il capo della cooperativa OSA che fu negoziatore per conto del Papa dell’uscita del broker Gianluigi Torzi dalle gestitone dell’immobile di Londra. E poi, ovviamente, il super testimone Alberto Perlasca, i cui giorni di udienza si sono ridotti e verranno ampliati nelle prossime udienze.
Al di là della lista dei testimoni, l’andamento del processo in Vaticano sembra andare avanti senza scossoni particolari. Il processo, lo ricordiamo, riguarda presunti abusi nell’acquistare, da parte della Segreteria di Stato, un immobile di lusso a Londra. L’immobile ha causato perdite, ma probabile che le perdite siano dovute soprattutto alla rottura dei contratti. La Segreteria di Stato aveva affidato l’immobile al broker Raffaele Mincione, poi a Gianluigi Torzi e infine ne aveva rilevato le quote.
Insieme a questo filone, si uniscono diverse altre linee di indagine, dal peculato contestato al Cardinale Angelo Becciu per i fondi della Segreteria di Stato destinati alla cooperativa SPES che dava lavoro a persone disagiate a quelli destinati alla sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna per alcune operazioni umanitarie.
Le ultime due udienze del processo hanno, ancora una volta, messo in luce il metodo investigativo, che ha anche le sue criticità, ma soprattutto mostrato come delle operazioni contestate in realtà fossero nell’alveo delle operazioni consentite.
Due, in particolare, le questioni importanti. La prima riguarda il prestito chiesto dalla Segreteria di Stato all’Istituto delle Opere di Religione per completare l’acquisto del palazzo di Londra. Prestito che, dopo una serie di comunicazioni interne, fu inizialmente approvato dallo IOR e poi improvvisamente negato, con un atto che ha fatto da premessa alle indagini.
Si è detto che lo IOR non poteva dare prestiti. Ma questa versione è stata smentita dalla testimonianza di Federico Antellini Russo, oggi vicedirettore dell’Autorità di Supervisione e Informazione Finanziaria e al tempo a capo della sezione vigilanza dell’Autorità.
Antellini Russo ha sottolineato come gli sia stato chiesto uno studio di fattibilità sul prestito, considerando che lo IOR è l’unico ente finanziario controllato dall’allora AIF. La risposta è stata positiva, perché vero che lo IOR non è un ente finanziario, né una banca, e dunque non può erogare prestiti in maniera professionale, ma è comunque un organo del governo, e, quando c’è un caso eccezionale e una richiesta del governo, è autorizzato a dare prestiti, ovviamente sulla base di garanzie di rientro.
La parte civile IOR ha molto insistito sulla valutazione dei collaterali e sulla eccezionalità della cifra richiesta (150 milioni), ma Antellini Russo ha spiegato con chiarezza che si trattava, appunto, di uno studio di fattibilità, e che le valutazioni ulteriori sarebbero state fatte solo nel momento in cui l’operazione si andava a concretizzare. Alla fine, si comprende come l’AIF avrebbe comunque continuato a tracciare i fondi, e dunque resta sempre il dubbio che l’autorità, con le perquisizioni, sia stata fermata nel mezzo di una indagine, anche perché poi c’è tutta la corrispondenza che era stata attivata con le controparti estere.
In effetti, il sequestro della corrispondenza aveva portato il Gruppo Egmont, che riunisce le unità di informazione finanziaria di tutto il mondo, a sospendere la Santa Sede dal “Secure Web”, ovvero dal circuito di scambio di informazione di intelligence protetto, al punto che ci è voluto poi un protocollo tra Tribunale Vaticano e Autorità di Informazione Finanziaria perché la Santa Sede fosse reinclusa. Antellini Russo ha minimizzato la sospensione, ma di fatto si è trattato di un danno reputazionale non indifferente per l’Autorità.
Il secondo tema riguarda invece la conduzione delle indagini. Nella testimonianza di Michele Mifsud si è parlato anche di “un terzo” di un contratto che sarebbe spettato a Fabrizio Tirabassi, officiale della Segreteria di Stato vaticana nella sezione amministrativa che Mifsud aveva conosciuto davanti al suo parroco. Nella sua testimonianza, Mifsud ha detto di non avere inizialmente pensato che si trattasse di una tangente, e che poi nell’interrogatorio il gendarme gli ha fatto notare che di fatto si potesse trattare di una tangente e lui ha considerato verosimile la ricosrtuzione.
Tutto questo ha portato ad una richiesta di nullità da parte dell’avvocato Luigi Panella, che difende Enrico Crasso, l’ex investitore della Segreteria di Stato, il quale ha notato anche la presenza di domande nocive. Dopo un’ora di camera di Consiglio, il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone ha deciso di rigettare la richiesta, mancando una norma specifica sulla nullità, e considerando che le cosiddette “domande nocive” non possono essere definite ex ante. Pignatone ha anche detto che le difese hanno comunque tutti gli strumenti in dibattimento per farsi valere.
E però va notato che non è la prima volta che delle eccezioni sulle modalità di conduzione degli interrogatori, sulla selezione dei materiali e sul materiale a disposizione delle difese viene sollevato. Se è vero che gli avvocati devono fare il loro lavoro, è comunque, questo, un dato da considerare. Da segnalare anche la nota a margine dell’avvocato Di Nacci, che difende René Bruelhart, che ha lamentato come le stesse annotazioni fossero piene di valutazioni, valutazioni che a volte ritornano nelle testimonianze dei gendarmi in questi giorni.
Un altro dato a margine: è tutta da comprendere la questione dell’Obolo di San Pietro e del suo uso. L’Obolo nasce come forma di assistenza dei fedeli alla missione del Papa, e non per le opere di carità, come viene comunemente detto. In alcuni casi, però, il riferimento non è alla raccolta, ma al Conto Obolo, conto aperto nel 1939 da monsignor Pomata nell’allora Amministrazione per le Opere di Religione, e che oggi contiene circa 44 conti collegati. In questo conto, transitano anche i soldi della raccolta.
Il 27 ottobre, nell’interrogatorio di Fabrizio Giachetta è stato definito come l’Obolo venisse usato per coprire le perdite di bilancio della Santa Sede, inizialmente con una nota che chiedeva l’autorizzazione al Papa, e poi in maniera sempre più regolare. Giachetta ha anche deto che si era attinto all’Obolo per pagare le parcelle di Jeffrey Lena, l’avvocato statunitense che ha assistito la Santa Sede in varie occasioni, sia nei processi per gli abusi sui minori ma anche nella consulenza per la nuova legge antiriciclaggio e per altre questioni di diritto internazionale.
Processo Palazzo di Londra, davvero un investimento sbagliato?
La testimonianza di Giuseppe Milanese del 10 novembre mette piuttosto in luce quanti interessi corressero intorno al Palazzo di Londra. Sarà da vedere come si svilupperanno gli eventi
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 12. novembre, 2022 11:04 (ACI Stampa).
La famosa foto di Papa Francesco con Gianluigi Torzi in Casa Santa Marta risale al periodo dei negoziati per l’uscita dello stesso broker dalla gestione del palazzo di Londra e per l’acquisto del palazzo intero, e non solo delle quote, della Segreteria di Stato. E al tavolo delle trattative c’era Giuseppe Milanese, infettivologo, presidente della cooperativa OSA dedicata all’assistenza di persone non autosufficienti nel campo socio sanitario. Fu lui a dire, in una intervista, che il Papa aveva detto di concludere tutto “con il giusto salario”. E fu lui stesso ad ammettere che era lui che aveva pensato che una cifra congrua per Torzi sarebbe stata di cinque milioni di euro.
Come si sa, la Segreteria di Stato poi pagò 15 milioni, con uno “sconto” di cinque milioni ottenuto grazie a monsignor Mauro Carlino, segretario del sostituto della Segreteria di Stato. La testimonianza di Milanese, che ha avuto luogo il 10 novembre, era comunque attesa, se non altro perché il suo nome era comparso in altri interrogatori. È uno di quei personaggi totalmente estranei ai reati contestati ascoltati durante le indagini.
Prima di andare avanti con la cronaca, un passo indietro: ci sono dieci imputati e alcune società davanti al Tribunale vaticano, accusati una vastità di reati. Il caso principale è quello dell’investimento della Segreteria di Stato su un palazzo di lusso a Londra – investimento prima affidato al broker Raffaele Mincione, poi al broker Gianluigi Torzi e poi rilevato dalla Segreteria di Stato. Ma poi c’è il cosiddetto “filone Sardegna”, con accuse di peculato al Cardinale Angelo Becciu, ex sostituto, per dei contributi della Segreteria di Stato ad una cooperativa legata alla Caritas della sua diocesi natale, presieduta dal fratello – contributi tra l’altro non toccati e con destinazione di uso precisa. E infine c’è anche la questione “Cecilia Marogna”, l’esperta di intelligence contrattata dalla Segreteria di Stato quando sostituto era il Cardinale Becciu per alcuni casi di liberazione di ostaggi, che avrebbe utilizzato i soldi ricevuti per le operazioni per fini personali.
Come si deve, si tratta di una vasta gamma di accuse, che potrebbe coprire almeno tre processi. Si procede, invece, su binari paralleli, cercando di ricostruire i pezzi.
Cosa ha detto Milanese? Che fu informato verso la fine del 2018 della questione del palazzo di Londra da Renato Giovannini, vice rettore dell’Università Telematica Marconi, insieme all’avvocato Emanuele Intendente. Anche questi due personaggi sono estranei ai reati.
Milanese ha raccontato che Giovannini e Intendente gli dissero che loro e Gianluigi Torzi erano “cavalieri bianchi” che si opponevano ai “cavalieri neri”, identificati con l’officiale della sezione amministrativa della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi e del broker e investitore storico per conto della Segreteria di Stato Enrico Crasso, entrambi imputati nel processo.
Quello che viene detto a Milanese è che Torzi poteva risolvere il “problema” del palazzo che aveva fatto perdere “somme importanti” alla Santa Sede. Si trattava, in sintesi, di passare la gestione dal fondo GOF di Raffaele Mincione al fondo GUTT di Torzi. Questi mantenne poi le sole mille azioni con diritto di voto, di fato esercitando controllo totale sul palazzo, e poi chiese alla Santa Sede 12 milioni di euro per uscire dall’affare, mentre inizialmente ne erano stati stabiliti 3.
Le cifre, tra l’altro, non combaciano, perché monsignor Carlino parlava di 20 milioni, ridotti a 15.
A Milanese venne chiesto di trovare una soluzione, e lui si trovò a dover dipanare la matassa. Mandò anche un messaggio all’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato, dicendo che non si capiva più “chi sono gli amici e chi sono i nemici”, e che lo stesso Pena Parra era “abbastanza preoccupato di una situazione di cui non veniva a capo”.
A Milanese fu anche chiesto di partecipare alla riunione per la firma del contratto con cui si passava l’amministrazione al fondo GUTT, ma questi rifiutò dicendo che
“non aveva senso che partecipasse un medico in questioni dove serviva un avvocato”.
Sappiamo dalle testimonianze che l’avvocato non ci fu, e che lo stesso monsignor Perlasca, capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, riteneva che Torzi fosse il migliore difensore della Santa Sede.
Milanese ha anche detto di essersi tirato fuori dalla vicenda dal 5 gennaio 2019, sottolineando che lui pensa di essere stato chiamato “non come esperto, ma come amico del Papa”.
Brevissimo l’esame ad Antonio Perno, ex direttore amministrativo del Bambino Gesù, che ha assicurato di non aver mai ricevuto proposte di acquisto di un immobile a pochi passi da San Pietro per allargare gli spazi “saturi” dell’ospedale. È un tema che è entrato nel processo, ha riguardato degli interrogatori, ma di cui non si sa molto perché gli stessi interrogatori non sono resi a disposizione.
Rober Lee Madsen, responsabile degli investimenti dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica e poi chiamato come senior advisor della Segreteria per l’Economia dal 2015, ha invece testimoniato per circa un’ora.
Broker di 80 anni con 50 di esperienza nel mondo della finanza, Madsen ha detto di aver avuto diversi incontri con monsignor Perlasca e i gestori che venivano a presentare possibilità di investimento, che usavano “prodotti standard, di tipologia con aggressiva”.
A Madsen fu chiesta da Tirabassi una consulenza sul famoso investimento che si sarebbe potuto fare in Angola per una società di estrazione petrolifera – investimento per cui fu coinvolto Mincione cui poi fu lasciata la gestione del denaro per atri investimenti.
Madsen ha anche parlato di un “piano di rientro” che propose a Tirabassi e Perlasca a fronte di un “indebitamento” della Segreteria di Stato pari quasi a 212 milioni.
Investimenti immobiliari
Gli avvocati di parte civile hanno chiesto conto a Madsen di alcune parole riferite in un verbale sul fatto che Peña Parra fosse stato “ingannato” e che quello di Londra era stato un “macello”. Madsen ha risposto che “prlai con il sostituto un paio di volte, dissi che era stato fatto uno sbaglio e che doveva far studiare la questione da persone indipendenti, non le stesse che avevano creato il problema”. Il riferimento era a Perlasca e Tirabassi, “non esperti” nel settore immobiliare di cui bisogna conoscere “le regole del gioco”.
Madsen ha fatto anche cenno all’acquisto di un immobile sempre a Londra, ma in High Street Kensington, effettuato tra il 2016 e il 2017 dall’Apsa al 51% e dal Fondo Pensioni al 49%. Circa 90 milioni a testa, è stato detto. Entrambi gli enti erano presieduti allora dal cardinale Domenico Calcagno. Il cardinale George Pell, allora prefetto della Segreteria per l’Economia, si era “opposto” fermamente al coinvolgimento del fondo pensioni. Anche quell’investimento non fu positivo, ricorda vagamente Madsen, senza “dati specifici”.
Nei giorni precedenti all’udienza, Libero Milone, ex revisore generale vaticano, ha deposito insieme al suo collaboratore Ferruccio Panicco una citazione contro il Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, e contro l’ufficio del Revisore Generale guidato da Alessandro Cassinis Righini, chiedendo un risarcimento di 10 milioni di euro per la vicenda che nel 2017 portò alle dimissioni sue e del suo collaboratore.
Erano, ha detto, “dimissioni estorte”, con la falsa accusa di aver fatto spiare autorità di governo vaticane.
L’esposto ha portato Fabio Viglione e Concetta Marzo, avvocati del Cardinale Angelo Becciu, a rispondere con una nota che definisce le ricostruzioni di Milone come “completamente infondate”, che “inevitabilmente, provocheranno immediate azioni legali a tutela della verità e dell’onore del cardinale”.
Lo stesso Becciu – ricordano i difensori in una nota – già all’udienza del 18 maggio scorso, dopo aver ricevuto dal Papa l’autorizzazione a riferirne al Tribunale, “ha chiarito che si limitò esclusivamente ad eseguire un ordine del Santo Padre, il quale lo informò direttamente che il dottor Milone non godeva più della Sua fiducia, e lo invitava a rassegnare quindi le proprie dimissioni”.
In relazione alle motivazioni, che per gli avvocati “nulla hanno a che vedere con la volontà del cardinale Becciu, né con sue personali iniziative”, in un comunicato pubblicato dalla sala stampa vaticana il 24 settembre 2017 si legge che era stata rilevata “un’attività di sorveglianza illegale commissionata dal dottor Milone ad una società esterna, per sorvegliare la vita privata di esponenti della Santa Sede”. Nella nota, infine, si ricorda che la revoca dell’incarico a PwC fu assunta formalmente dal cardinale Segretario di Stato, per dubbi circa “alcune clausole del contratto e le sue modalità di esecuzione”, come affermava la sala stampa vaticana il 26 aprile 2016.
Processo Palazzo di Londra, la storia della telefonata di Becciu al Papa
Le ultime tre udienze del processo per la gestione di fondi della Segreteria di Stato portano una serie di storie che vanno comprese. Dalla telefonata di Becciu al Papa alla pretese di monsignor Perlasca
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 26. novembre, 2022 11:00 (ACI Stampa).
Il 24 luglio 2021, una decina di giorni dopo le dimissioni di Papa Francesco dal Gemelli dove ha subito un intervento chirurgico il 4 luglio precedente, il Cardinale Angelo Becciu prende il telefono e chiama Papa Francesco. Soprattutto, fa registrare la chiamata. Perché il 13 luglio è arrivata una lettera del Papa che, di fatto, dice che no, il Papa non sapeva niente dei trasferimenti di denaro disposti per la liberazione di suor Cecilia Narvaez, la suora colombiana rapita in Mali. E che Becciu avrebbe trasferito quei soldi da solo.
La registrazione della telefonata del Cardinale Becciu a Papa Francesco è stata fatta ascoltare nell’udienza del 24 novembre 2022, ma solo a promotori di giustizia e difensori, mentre i giornalisti e gli uditori sono stati fatti accomodare fuori. E questo perché si deve ancora decidere se questa telefonata è ammissibile. La trascrizione della telefonata, acquisita dalla procura di Sassari in un’altra indagine e ottenute dal Promotore di Giustizia vaticano attraverso una rogatoria, è stata però pubblicata integralmente dalla cronaca giudiziaria di una nota agenzia italiana.
Tre giorni di interrogatorio, due ad Alberto Perlasca, uno a Luciano Capaldo, ingegnere, consulente della Santa Sede nella questione dell’immobile di Londra, che in passato aveva collaborato anche con Gianluigi Torzi, l’ultimo broker a gestire il palazzo. Sono stati tre giorni intensi: oltre alla telefonata del Cardinale Becciu, è arrivata la notizia di una indagine per associazione a delinquere sul Cardinale ad opera della procura di Sassari, per la quale un fascicolo sarebbe stato aperto anche in Vaticano, sebbene i legali di Becciu abbiano reso noto di non saperne niente; poi, c’è stata la rivelazione da parte di Capaldo che l’arcivescovo Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato, avesse chiesto a un ex affiliato dei servizi italiani di pedinare il direttore generale dello IOR Gianfranco Mammì; e infine c’è stata la testimonianza fiume di monsignor Alberto Perlasca, già capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, che, anche con espressioni colorite, ha dato la sua versione dei fatti. Una testimonianza, quest’ultima, a tratti confusionaria, con diverse discrasie tra quanto prodotto in due memoriali del monsignore (uno del 31 agosto 2020, un altro depositato come dichiarazione spontanea lo scorso 22 novembre) e i suoi interrogatori e quanto invece stava rispondendo. Tanto che per quattro volte il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone ha invitato monsignor Perlasca a ponderare bene le sue risposte, arrivando addirittura a ricordare che, in caso di dichiarazioni mendaci, poteva essere incriminato per falsa testimonianza.
I temi del processo
Più che scendere nei dettagli, c’è bisogno di avere delle linee guida per comprendere quello che è successo in aula. Il processo, come è noto, riguarda la gestione dei fondi della Segreteria di Stato, e in particolare l’investimento su un immobile di lusso a Londra, in Sloane Avenue. Ma nel processo – che ha dieci difensori – confluiscono anche altri due filoni di indagine: quello cosiddetto “Sardegna”, che riguardano i fondi destinati dal Cardinale Becciu quando era sostituto della Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per sostenere un progetto della cooperativa SPES, per la quale si contesta un peculato; e poi, la questione di Cecilia Marogna, la sedicente esperta di intelligence contrattata dalla Segreteria di Stato per alcune operazioni, e in particolare per la liberazione di una suora.
La commistione di più filoni di indagine fa sì che a volte gli interrogatori siano confusi e mettano insieme più temi differenti. Si possono però definire alcune linee guida.
Prima di tutto, la questione delle perdite della Segreteria di Stato nell’investimento del Palazzo di Londra. Capaldo, che ha descritto la sua vasta esperienza in termini di valutazione di immobili, ha sottolineato come la Santa Sede abbia comprato a 275 milioni di sterline e rivenduto a 186 milioni, con una perdita di 90 milioni di sterline. È stata la prima volta che in aula si è dato un ammontare preciso delle presunte perdite della Segreteria di Stato.
Presunte, perché, in un intervento in aula, Raffaele Mincione, il broker che per primo ha gestito l’investimento, ha fatto notare come il valore dell’immobile non sia dato dall’immobile in sé, ma dal valore che viene dato dal mercato, e anche dal potenziale valore che nasce dalle possibilità di ristrutturazione.
Sulla questione della ristrutturazione, la testimonianza di monsignor Perlasca ha confermato le dichiarazioni di Mincione: dato che i locali di Sloane Avenue si sarebbero trasformati da commerciali in residenziali, con un potenziale incremento del valore, si sarebbero dovute realizzare abitazioni di social housing, anzi proprio questo aspetto “ci fece piacere il progetto ancora di più”.
Perlasca ha poi confermato che Mincione fosse titolare di tutto il patrimonio investito, sia della parte mobiliare che di quella immobiliare, lamentandosi a più riprese con Mincione per aver gestito in modo a suo dire creativo, personale e personalista (“testina estrosa” lo ha appellato) il fondo.
Capaldo sosteneva che non c’erano le condizioni per mettere in essere il progetto di riconversione, ma il dato sarebbe negato dal fatto che, quando il caso Sloane Avenue era già scoppiato, il comune di Londra diede l’ok alla nuova destinazione catastale del palazzo.
La questione dei servizi
Colpisce invece che Capaldo abbia testimoniato di aver ricevuto richiesta di fornire i recapiti di Gianfranco Mammì, direttore generale dello IOR, da parte dell’arcivescovo Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato. I recapiti dovevano essere dati a Giovanni Ferruccio Oriente, ex autista del capo del SISDE (il servizio italiano) negli Anni Novanta, che era stato incaricato di controllare Mammì. Un dato, quello del controllo su Mammì da parte del sostituto, che era già emerso nell’interrogatorio a monsignor Mauro Carlino, segretario del sostituto, che era stato vagamente delineato in una puntata di Report densa però di imprecisioni e che con la testimonianza di Capaldo si è arricchito di dettagli.
Resta da comprendere l’opportunità, per il numero 3 della Segreteria di Stato, di chiedere ad un ex agente dei servizi italiani una operazione di pedinamento, considerando anche come la progressiva internazionalizzazione delle finanze vaticane, che ha avuto uno stop con Papa Francesco, avesse come scopo proprio di sganciarsi dall’ingombrante vicino italiano.
E resta anche da valutare se la scoperta del pedinamento abbia indotto Mammì alla reazione. In effetti, alla richiesta della Segreteria di Stato di un prestito (con interesse) per concludere l’operazione Londra prendendo pieno possesso dell’immobile, lo IOR dice sì dopo vari studi (o tentennamenti) con una lettera ufficiale del presidente Jean-Baptist de Franssu del 24 maggio 2019. Il 27 maggio, però, questo assenso viene improvvisamente revocato, e Mammì sarà poi colui che farà la segnalazione al revisore generale, facendo partire tutto il procedimento che ha portato a questo processo.
Il revisore generale
Proprio parlando del revisore generale, monsignor Perlasca ha messo in luce una forte frizione con l’ufficio del revisore. Secondo l’ex officiale vaticano, il revisore dimostrava di non conoscere il Vaticano, tanto che alla fine Perlasca si era risolto ad andare avanti facendo come se il revisore non ci fosse.
Tra l’altro, c’è un rapporto del revisore che parla anche dei rischi connessi alla gestione del palazzo di Londra dopo che questo era stato dato in gestione a Mincione. Infatti, si ricorderà che la Segreteria di Stato aveva acquisito le quote dell’immobile, lasciando mille quote in gestione al broker Gianluigi Torzi. Solo che queste mille quote erano le sole con diritto di voto, cosa che aveva posto Torzi subito in una posizione di forza nei confronti della Segreteria di Stato. Più volte, Perlasca ha detto di non essersi accorto del fatto. Dopo l’affare, però, sono stati molti i segnali.
Le contraddizioni
Ma Perlasca cade in contraddizione anche quando parla del suo effettivo potere. Tutte le testimonianze sottolineano che era monsignor Perlasca, come capo ufficio, a prendere le decisioni. Perlasca, però, contesta di non avere nemmeno potere di firma, perché tutto è nella mani del sostituto. C’è, però, la sua firma sul cosiddetto framework agreement, che trasferisce la gestione dell’immobile da Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi.
Come si conciliano le cose? Perlasca sostiene di aver chiamato il sostituto Pena Parra, che gli ha detto di firmare lui visto che aveva seguito tutto, e che era certissimo di avere l’autorizzazione per firmare. Una procura vera e propria, al momento, non c’era, e Perlasca era incerto anche su un eventuale incontro con Pena Parra dopo la firma.
Viene chiesto a Perlasca perché non si sia rifiutato di firmare. Risponde che magari invece era tutto ben fatto, e non voleva correre il rischio. Ma, risponde un giudice a latere, non è questa la responsabilità di un capo ufficio?
Perlasca ammette di non comprendere molto di finanza, che il suo predecessore, monsignor Piovano, era più versato di lui, e di non essersi mai occupato di immobili. Ma, nelle sue funzioni di consigliere del Fondo Pensioni vaticano, era anche stato a Londra per visionare un immobile in Hight Street Kensington.
Perlasca dice di non aver parlato della questione dell’immobile a Londra con Genevieve Ciferri, la donna che lo ha difeso con il cardinale Becciu e che gli ha lasciato una proprietà in nuda proprietà, se non per chiedere un consiglio, dato che lei aveva lavorato a Londra. Poi dice che ha chiesto anche di possibili nuovi affari a Londra, posizione “inconciliabile” con quello dichiarato precedentemente, secondo il presidente del Tribunale Pignatone.
Perlasca dice di aver saputo dell’esistenza di Cecilia Marogna, che lui conosceva come Cecilia Zulema, solo nell’interrogatorio del 29 aprile 2019, ma nei verbali di quell’interrogatorio, rilevano gli avvocati, non c’è traccia di alcun accenno né a Marogna né a Zulema.
Nel memoriale datato 31 agosto 2020 Perlasca parla di Becciu che avrebbe deposto contro di lui. Ma in quel momento Becciu non aveva fatto nessuna deposizione e tantomeno contro Perlasca. Richiesto, anche dal presidente del Tribunale, di dire chi gli aveva dato l’informazione, Perlasca si è riservato tempo per rispondere.
E poi ci sono le dichiarazioni suicide proclamate a Becciu via messaggio, che poi Perlasca definisce “provocazioni”. Le accuse a Becciu di averlo portato nel processo, e persino di averlo manipolato, di avergli fatto le cose per cui lo stesso Becciu è di nuovo a processo. Da qui, l'affermazione di non essere "né complice, né connivente, né favoreggiatore". E ancora: le illazioni su pressioni che Becciu avrebbe fatto nei confronti di Perlasca. L’idea che le stesse pressioni fossero state fatte su monsignor Mauro Carlino, che lasciò Domus Sanctae Marthae mentre Perlasca resistette al suo posto. Un fiume in piena, monsignor Perlasca, con dichiarazioni che più volte portano il presidente del tribunale ad invitarlo alla calma.
Infine, la questione della registrazione al ristorante Scarpone, dove Perlasca porta a cena Becciu chiedendogli consigli come muoversi. Dalle registrazioni dell’interrogatorio sembra che ci sia stata una registrazione della cena, ma Perlasca sottolinea che in realtà lui ha scritto un appunto e poi ha registrato la sua voce, ed è quella la registrazione cui fa riferimento. Anzi, che l’idea che la Gendarmeria avesse potuto registrare la conversazione era una sua immaginazione, nata dal fatto che lui aveva pensato bene di avvisare la Gendarmeria della cena – cosa che non aveva fatto per altri incontri.
Sono questi i punti salienti di una testimonianza tutta da valutare, considerando anche che buona parte dell’impianto accusatorio su Becciu si basa proprio sulle accuse di Perlasca.
La telefonata di Becciu al Papa
La telefonata, sebbene pubblicata solo da fonti giudiziarie italiane e non parte delle comunicazioni vaticane, vale un breve excursu. Secondo il promotore di Giustizia Alessandro Diddi, la conversazione proverebbe che il Papa non sapeva, dando così ragione alla tesi dell’accusa nel processo. Eppure, nella conversazione si sente il Papa dire che si ricorda, chiedere al Cardinale di inviare un appunto che così lui avrebbe potuto studiare la questione in termini legali, accogliere la lamentela di Becciu che con quella lettera il Papa lo avrebbe già condannato.
Vale la pena ricordare che è stato il Papa stesso ad autorizzare la riproduzione di quella conversazione. Non c’è niente, dunque, che non voglia che si sappia. Forse alcuni potranno obiettare sull’opportunità del Cardinale Becciu di registrare una conversazione di questo genere. Ma è una conversazione importante, in un momento difficile per il cardinale, che va registrata anche per avere traccia di una serie di ordini che sono stati fino a quel momento diffusi solo in maniera orale.
Della telefonata si viene a sapere prima dell’interrogatorio di Perlasca, quando il promotore di Giustizia Diddi rende noto, con una illustrazione arricchita da vari commenti, delle risultanze di una rogatoria internazionale verso la procura di Sassari, che stava indagando su una presunta associazione a delinquere di Becciu. Le carte, ancora non ammesse nel processo vaticano, sono però di un altro procedimento in Italia. Sono uscite diverse intercettazioni e carte processuali negli scorsi giorni, tra l'altro ancora oggetto di istruttoria e decontestualizzate, ma queste non sono parte del processo vaticano. Perlomeno, non ancora.
Ora, si guarda ai prossimi appuntamenti. L’interrogatorio a monsignor Perlasca continuerà il 30 novembre, l’1 dicembre ci sarà il direttore dello IOR Gianfranco Mammì. Nella prossima udienza, anche l’avvocato Giovannini, che con l’avvocato Intendente era intervenuto nella transazione con Torzi. Persone considerate di totale fiducia, ha detto Perlasca, perché presentate da Mario Milanese, presidente della Cooperativa OSA e amico del Papa. Una amicizia, quella con il Papa, che Milanese ha detto di aver “pagato” quando ha testimoniato lo scorso 10 novembre.
Processo Palazzo di Londra, c’è falsa testimonianza?
Le ultime tre udienze del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato hanno lasciato aperti i dubbi su una eventuale falsa testimonianza del principale accusatori. E intanto torna una vecchia conoscenza
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 3. dicembre, 2022 11:00 (ACI Stampa).
Monsignor Alberto Perlasca, per 12 anni capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, ha rigettato la definizione di super-testimone, sebbene sulle sue dichiarazioni si fossero basate molte delle ricostruzioni o delle teorie dei magistrati vaticani. Ma, dopo queste ultime udienze, la sua credibilità come testimone viene messa a dura prova. Così come restano dubbi su Gianfranco Mammì, direttore generale dell’Istituto delle Opere di Religione, che fu colui che diede il via alla procedura che ha portato al processo con una denuncia.
Nelle udienze 29,30 e 31 del processo, Mammì è stato sentito per la prima volta, si è contraddetto in alcune circostanze. Perlasca, invece, è stato sentito ancora una volta per chiarire alcune parti della sua testimonianza che risultavano poco chiare, e persino inconciliabili con la realtà. L’interrogatorio di Mammì lascia delle domande aperte, ma è iniziato e finito in quel momento. Quello di Perlasca, invece, ha aperto uno scenario che si poteva considerare insospettato. Ma andiamo con ordine.
Il processo
Come è noto, il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato include tre filoni di indagine: quello sull’investimento della Segreteria di Stato su un immobile di lusso a Londra, non l’unico tra l’altro; quello sulla vicenda cosiddetta “Sardegna”, e cioè su un presunto peculato del Cardinale Angelo Becciu, al tempo in cui era sostituto della Segreteria di Stato, in favore della sua famiglia per delle donazioni della stessa Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri, sua diocesi di provenienza; e infine il filone che riguarda Cecilia Marogna, la sedicente esperta di intelligence che è stata “ingaggiata” dalla Santa Sede e coinvolta in trattative per la liberazione di alcuni ostaggi.
Tre filoni di indagine portano, ovviamente, ad avere molti dettagli da seguire, all’interno del processo. C’è, però, un quadro generale che è importante rendere.
Monsignor Perlasca
Quando la scorsa settimana monsignor Perlasca era stato chiamato a testimoniare, per quattro volte Giuseppe Pignatone, presidente del Tribunale Vaticano, lo aveva invitato a fare attenzione alle sue dichiarazioni, perché poteva essere incriminato per falsa testimonianza. In particolare, c’era un episodio tutto da definire: nel suo memoriale, Perlasca raccontava che il Cardinale Becciu aveva deposto contro di lui, ma al momento del memoriale non c’erano stati attacchi personali di Becciu nei suoi confronti, ma nemmeno una deposizione di Becciu. Perlasca non aveva detto chi gli aveva suggerito che c’era stata una deposizione del cardinale.
Lo ha però rivelato il promotore di Giustizia, Alessandro Diddi. Il 30 novembre, nel momento in cui sarebbe dovuto essere interrogato monsignor Perlasca, Diddi ha reso note una serie di chat, ricevute alla fine della settimana precedente e per questo non agli atti, inviatigli dalla signora Genevieve Ciferri. Questa era l’amica di famiglia di Perlasca che ha lasciato anche al monsignore una nuda proprietà.
La signora ha rivelato al promotore di Giustizia vaticano che tutti i passi che ha consigliato di fare a monsignor Perlasca, inclusa la famosa cena al ristorante Scarpone con il cardinale Becciu, gli erano stati suggeriti da quello che il monsignore conosceva come “un anziano magistrato”, ma che altri non era che Francesca Immacolata Chaouqui, già membro della Commissione Referente per lo Studio della struttura economica amministrativa della Santa Sede (COSEA) e poi processata nell’ambito del procedimento cosiddetto Vatileaks 3.
Chaouqui non solo avrebbe suggerito alla Ciferri cosa dire a Perlasca di fare, passo dopo passo, ma avrebbe anche detto di farlo in nome dei magistrati vaticani, dimostrando una conoscenza precisa di quello che accadeva dentro le Mura Vaticane.
Ciferri lo ha spiegato a Diddi con parole che lasciano pensare ad una manipolazione, ma certo resta insoluta la domanda sul perché Chaouqui abbia preso questa iniziativa, e anche di come sia venuta a sapere che c’era un procedimento vaticano in corso, considerando che al tempo in cui cominciò i contatti ne potevano esssere a conoscenza solo gli inquirenti e i gendarmi vaticani che conducevano le indagini.
Monsignor Perlasca alla fine ha testimoniato anche di aver ricevuto minacce dalla stessa Chaoqui, ha riprodotto chat continue che gli venivano inviate dalla sua utenza in termini minacciosi, ha notato di non aver bloccato il numero solo perché la stessa Chaouqui lo aveva intimato di non farlo.
Ed è venuto fuori anche che il 4 febbraio 2021 Genevieve Ciferri ha telefonato allo studio di Diddi, lamentando delle minacce e della presenza ingombrante della Chaouqui, e che il promotore di Giustizia abbia riferito della telefonata in una nota ad uso interno inviata alla Gendarmeria. E poi, l’1 marzo 2022, c’è Perlasca che avvisa la Gendarmeria di sentirsi minacciato dalla Chaouqui.
Sono dettagli che sono rimasti finora fuori dal processo, e sul quale dunque le difese non hanno potuto fare il controesame, ma che gettano diverse ombre sulla testimonianza di Perlasca, che tra l’altro ha prima riferito di aver ricevuto un solo messaggio dalla Chaoqui, poi una quindicina, anche se molto scaglionati nel tempo.
Su queste nuove evidenze arrivate nel cellulare di Diddi, 126 messaggi di cui 119 con omissis, si gioca la credibilità del teste Perlasca.
Anche perché c’è poi la questione della cena allo Scarpone, e del sospetto che nel ristorante ci sia stata una attività di intercettazione da parte vaticana senza informare la polizia italiana. Non ci sono controprove di questo sospetto, solo che Perlasca dicesse che si era convinto nella sua testa che registrassero. Perlasca ha comunque dichiarato: “Io dovevo solo informare”.
Nell’anno venturo, saranno sentite Chaouqui e Ciferri. Colpisce, però, il fatto che Chaouqui dimostrasse di conoscere così bene il procedimento e le situazioni vaticane da essere in grado di dire a Ciferri quando Perlasca rientrava a casa. Chi forniva le informazioni alla Chaouqui? Era implicata la Gendarmeria?
Ed è un dato da notare che Chaouqui, nel luglio 2021, ha dato dichiarazioni spontanee alla Gendarmeria, e che il suo avvocato era lo stesso Sammarco da cui si fa rappresentare Perlasca nella sua funzione di parte civile per subornazione.
Colpiva anche il fatto che all’inizio dell’interrogatorio di Perlasca fossero presenti diversi gendarmi di quelli sentiti per una testimonianza, incluso quello Stefano De Santis che ha gestito le indagini e che non sarebbe potuto essere presente perché deve ancora terminare il controesame. Era previsto anche un interrogatorio di De Santis questa settimana, rinviato per sue “improrogabili ragioni di servizio”.
Sono tutti dati su cui riflettere. Pignatone, cercando di andare oltre, è arrivato a chiedere anche a Perlasca perché avrebbe dovuto ricevere difesa da Becciu, e Perlasca si è limitato a dire che Becciu non aveva fatto niente per lui. Poi, è stato chiesto perché, nonostante le cose che diceva di Tirabassi, Perlasca non gli avesse mai bocciato una proposta di transazione finanziaria.
Se questa, comunque, è la testimonianza chiave del processo, è chiaro che è inquinata al limite da una esuberanza dell’amica che voleva aiutare a tutti i costi ne ha influenzato i passaggi processuali.
Quanto sarà considerato credibile monsignor Perlasca in sede di sentenza?
Mammì
L’1 dicembre, è stato finalmente sentito il direttore generale dello IOR Gianfranco Mammì. È stata sua la segnalazione che ha dato il via al processo. La Segreteria di Stato aveva chiesto all’Istituto di Opere di Religione di rilevare il mutuo acceso presso Cheyne Capital con un altro prestito, che sarebbe servito a entrare in pieno possesso del palazzo di Londra e avrebbe anche permesso allo IOR un piccolo profitto.
Dopo vari studi, lo IOR aveva acconsentito al prestito, salvo poi fare marcia indietro tre giorni dopo. Nel mezzo, lo stesso Pena Parra aveva fatto pedinare il direttore dello IOR Mammì.
Nell’interrogatorio, Mammì ha detto che lo IOR poteva fare prestiti solo in casi specifici, e che aveva persino avvertito una pressione a fare il prestito, anzi, che l’Autorità di Informazione Finanziaria non si era comportata in maniera terza, ma come parte in causa, facendo pressioni perché lo IOR accettasse di fare una operazione che a suo dire non aveva adeguate coperture.
Poi però a Mammì è stato letto un documento che dimostrava come lo IOR fosse autorizzato a fare prestiti, sempre in determinate condizioni, e lui ha sottolineato che era vero, ma che le condizioni non si erano verificate.
Quindi, è stato letto dalle difese un altro documento che dava parere positivo sul prestito alla Segreteria di Stato, pur facendo emergere qualche criticità. “Voi potete dire che quel parere tecnico è positivo, ma per me è negativo”, è stata la risposta, secca, di Mammì.
Quindi, Mammì ha detto di aver partecipato ad una riunione in Segreteria di Stato dopo aver fatto la denuncia per l’operazione del palazzo di Londra, e di non aver detto niente per riservatezza. Quando però gli è stato chiesto se avesse detto prima della denuncia, ha negato di averlo detto.
È stata una testimonianza a tratti precisa, a tratti aggressiva, con diverse contraddizioni e anche opinioni personali. Resta da comprendere perché, se tuti i pareri erano a favore, Mammì aveva deciso piuttosto di denunciare. Tanto più che lo IOR ha dei precedenti di prestito più ingenti, come quello per il monastero di Dalia in Croazia, e dunque non ha un pregiudizio storico nei confronti del sostegno.
Resta anche da comprendere se, dati i bilanci sempre più in discesa nonostante una narrativa che punta a mostrarne la positività, lo IOR avesse la liquidità necessaria per il prestito. Altrimenti, l’intera operazione potrebbe definirsi come un depistaggio delle autorità vaticane nel raccogliere prove per le indagini.
Resta che l’interrogatorio di Mammì ha lasciato più dubbi che risposte. Sono dubbi che ci limitiamo a fornire al lettore.
Le altre testimonianze
In questi giorni sono stati anche sentiti Di Iorio, officiale e notaro della Camera Apostolica, e Luca Dal Fabbro, manager molto noto. Il primo, cui era stato chiesto di apporre una firma, ha detto di aver semplicemente apposto la firma, senza nemmeno conoscere il contenuto dei fogli. Il secondo ha spiegato che era stato chiamato dalla Segreteria di Stato prima a valutare la situazione di Londra, tanto che fu lui a far sapere che le azioni del broker Gianluigi Torzi, che aveva rilevato la gestione, erano le uniche con diritto di voto. Poi, aveva anche consigliato la Segreteria di Stato per altri immobili che aveva a Londra, e infine aveva rinegoziato i prestiti.
E poi c’è stato Fabio Perugia, consulente, che aveva presentato un cliente alla Segreteria di Stato, Valeur, che voleva rilevare il palazzo di Londra e che lamentava che ogni offerta venisse rimbalzata. Era lo stesso cliente di Perugia, che per circa sei mesi era stato socio di Torzi, a lasciare intendere che questo avvenisse per del malaffare in Segreteria di Stato, con un gioco che portava alcune persone coinvolte a prendere delle percentuali.
Da segnalare, infine, la testimonianza del Cardinale Oscar Cantoni sulla presunta subornazione di Becciu nei confronti di Perlasca. Cantoni ha testimoniato che Becciu gli ha chiesto di parlare a Perlasca, ma senza minacciare alcunché.
Alcune conclusioni
Come visto, sono molte le domande che restano aperte. La prima: quale è la credibilità del testimone Perlasca? Che ne porta con sé un’altra: quale è il peso, e soprattutto con chi parla, Francesca Immacolata Chaouqui in Vaticano? Chi passa a lei le informazioni (ad esempio) degli accessi, che sono in mano quasi esclusivamente alla Gendarmeria?
Poi: quale è il ruolo dello IOR nella vicenda? Se l’AIF ha forse peccato di eccesso di istituzionalità nella volontà di aiutare un ente sovrano, perché lo IOR non ha avuto la stessa preoccupazione e perché ha mostrato una preoccupazione che i pareri tecnici non avevano dato?
E infine: c’è un rischio di mettere in questione la terzietà dello stesso promotore di Giustizia proprio perché soggetto a ricevere messaggi da parti vicine alle parti in causa? Lo stesso promotore ha reso nota la situazione riguardante Chaoqui solo prima del secondo interrogatorio di Perlasca, mentre prima dell’inizio dell’altro interrogatorio, con tempistica che potrebbe essere soggetta a domande, aveva portato le carte del processo di Sassari e fatto sentire la telefonata di Becciu al Papa, anche se queste erano parte di un altro procedimento in Italia e non parte del processo vaticano.
Sono domande che restano lì, mentre il procedimento continua. Non si quando questo finirà. Si sa, però, che se non darà risposte a queste domande, sarà un processo tendenzialmente nullo.
https://www.acistampa.com/story/21284/processo-palazzo-di-londra-ce-falsa-testimonianza-21284
Processo Palazzo di Londra, il Cardinale Parolin testimonierà in tribunale
Il Segretario di Stato vaticano ha accettato di testimoniare al processo. Lo farà probabilmente alla fine di gennaio. Il processo riprende l’anno prossimo. Attesa per l’interrogatorio di Ciferri e Chaouqui
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 17. dicembre, 2022 11:00 (ACI Stampa).
Ci sarà anche il Cardinale Pietro Parolin tra i testimoni del processo vaticano per la gestione dei fondi della Segreteria di Stato vaticana. Lo ha annunciato Giuseppe Pignatone, presidente del Tribunale vaticano, nel corso della 42esima udienza del processo, l’ultima dell’anno. Pignatone ha detto di aver chiesto al Cardinale se fosse stato disponibile ad andare in tribunale o si fosse avvalso della possibilità di farsi interrogare nel suo ufficio, e che questi ha dato disponibilità ad andare in tribunale. Parolin sarà dunque ascoltato forse nel secondo “slot” di interrogatori, nel giro di udienze che si terrà dal 25 al 27 gennaio.
Il Cardinale Parolin non era indicato nella prima lista dei testimoni, così come non lo era l’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato vaticana, che ha prodotto un corposo memoriale sulla vicenda puntando il dito sul “metodo Perlasca” e che pure potrebbe testimoniare, se si considera un accenno fatto nel corso delle precedenti udienze dal presidente Pignatone.
Le loro parole saranno una chiave importante per comprendere la vicenda dell’investimento della Segreteria di Stato nel palazzo di Londra, anche perché, a sentire le testimonianze che si sono succedute finora, sia Parolin che Pena Parra avevano avallato l’operazione finale. Vale a dire, quella di salvare l’investimento, prendendo il controllo totale del palazzo ed evitando le quote, pagando al broker Gianluigi Torzi un prezzo per cedere le quote in suo possesso (le sole con diritto di voto) e però permettendo alla Santa Sede di mettere a frutto l’investimento. Cosa che poi non avvenne per altre circostanze, tra cui anche il fatto che l’Istituto per le Opere di Religione accettò, e poi improvvisamente rifiutò, di dare un prestito alla Segreteria di Stato per estinguere i mutui che gravavano sull’immobile.
La stessa Segreteria di Stato si è costituita parte civile in questo processo, lamentando di aver subito un danno, e questo lo ha detto anche il Cardinale Parolin in una intervista che ha causato anche una condanna a Londra per la Segreteria di Stato, che per quelle dichiarazioni si trova impegnata in un altro contenzioso.
Di fatto, però, le azioni della Segreteria di Stato sono state svolte per salvare l’investimento e il patrimonio, e sempre in accordo con il Santo Padre. Se questo verrà confermato, cosa sarà di tutto l’impianto del processo?
I filoni di indagine
Il processo, come si sa, ha tre filoni. Il primo è quello che, appunto, riguarda l’investimento della Segreteria di Stato in un immobile di lusso a Londra. Prima la Segreteria di Stato ha affidato la gestione delle sue quote al broker Raffaele Mincione, quindi le ha rilevate da Mincione e le ha affidate a Gianluigi Torzi, il quale aveva tenuto per sé le uniche quote con diritto di voto. Poi, la stessa Segreteria di Stato ha acquisito pieno controllo dell’immobile. Quello che si vuole capire è se ci sia stata estorsione o truffa ai danni della Santa Sede, ad opera sia dei broker, ma anche di tutto il mondo che è gravitato intorno all’investimento.
Quindi, il filone “Sardegna”, ovvero le accuse di peculato nei confronti del Cardinale Angelo Becciu per aver favorito, nella sua posizione precedente di sostituto della Segreteria di Stato, la Caritas del suo paese natale presieduta dal fratello e una cooperativa ad essa collegata, la SPES. In merito a questo filone, Pignatone ha anche ammesso i documenti arrivati via rogatorio dalla Procura di Sassari, che indagava su una presunta associazione a delinquere e che aveva acquisito varie informazioni, incluso il famoso audio della telefonata tra il Cardinale Becciu e il Papa.
In quella telefonata, si parlava dell’autorizzazione del Papa a sbloccare i fondi da destinare alla liberazione di una suora colombiana rapita in Mali, da destinare a Cecilia Marogna. È il terzo filone di indagine, che riguarda sia le modalità in cui Marogna è stata messa a contratto dalla Segreteria di Stato sia l’utilizzo che faceva dei fondi che le venivano destinati per attività umanitarie.
Tre diversi filoni, in pratica tre processi diversi, per dieci imputati e diverse società. È questa la matassa da sbrogliare per i giudici vaticani.
I prossimi testimoni
E in questa matassa si è aggiunto anche il colpo di scena delle ultime udienze, quando è stato interrogato monsignor Alberto Perlasca, per 12 anni capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato vaticana. Perlasca era prima indagato e poi è diventato un testimone, anche se in un memoriale e anche a processo ha stigmatizzato il fatto di essere stato definito un “super testimone”.
Quello di Perlasca è stato un interrogatorio in due parti, a tratti drammatico, caratterizzato dai quattro avvertimenti di Pignatone che, in caso di affermazioni non veritiere, lo stesso Perlasca poteva essere incriminato per falsa testimonianza. Alla fine, è venuto fuori che parte delle azioni dello stesso Perlasca erano suggerite da Genevieve Ciferri, una anziana amica di famiglia che ha destinato al monsignore una nuda proprietà, e che i suggerimenti della Ciferri erano pilotati da Francesca Immacolata Chaouqui, già membro della Commissione Referente per la Struttura Economica Amministrativa della Santa Sede (COSEA) e poi imputata e condannata con pena sospesa durante il cosiddetto processo Vatileaks 3.
Chaouqui e Ciferri saranno sentite il prossimo 13 gennaio, e sarà interessante lo scenario che si potrà dipanare da quelle testimonianze. Tra l’altro, Perlasca aveva riferito in un interrogatorio di essere spaventato dal fatto che Ciferri avesse appreso di un suo rientro a casa in maniera precisissima, e che questa le aveva detto di aver saputo del suo ingresso in Vaticano da quello che era stato definito “un anziano magistrato” ed era nientemeno che la Chaouqui. Chi informava, dunque, degli ingressi in Vaticano? Chi poteva dare queste informazioni?
Potrebbe forse rispondere il commissario Stefano De Santis, che ha anche gestito le indagini, e che deve ancora finire di rendere la sua testimonianza. Ma ormai da ottobre ogni suo intervento in aula deve essere ricalendarizzato per “improrogabili ragioni di ufficio”. Si è detto in aula che sarà indisponibile fino a febbraio, e non si è capito con precisione se sarà per tutto febbraio o solo all’inizio. Vero è che il commissario è impegnato nella gestione della sicurezza del prossimo viaggio del Papa in Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan. Anche vero che i continui rinvii non fanno bene alla fluidità del processo, né alla raccolta di informazioni che servirà poi alla sentenza.
I testimoni del 16 dicembre
Il balletto dei testimoni è comunque generale. Pignatone ha subito lamentato di aver saputo dell’assenza dell’avvocato Manuele Intendente con pochissimo preavviso. È stato così escusso solo Renato Giovannini, vicerettore dell’Università Telematica Marconi, che con Intendente avrebbe fatto da assistente legale di Torzi partecipando alla trattativa per la compravendita del Palazzo di Londra.
Un interrogatorio piuttosto surreale, quello di Giovannini, che ha detto più volte di non ricordare fatti o circostanze e quasi negando di aver mai prodotto chat partite o ricevute dal suo telefono che sono agli atti e che gli sono state mostrate. In due occasioni, Pignatone ha chiesto “uno sforzo di memoria”, sottolineando per il teste “l’obbligo di dire la verità”.
Giovannini però ha detto di non ricordare né le circostanze di viaggi a Lugano, né messaggi, chiamate e incontri con altri imputati, e nemmeno a cosa si riferissero espressioni come “incontriamo il nostro uomo in SS” (Santa Sede o Segreteria di Stato?) o “i giochi sono finiti”.
Ha solamente ammesso di aver rotto i rapporti con Fabrizio Tirabassi, officiale della sezione amministrativa della Segreteria di Stato. Non ricordava di aver generato una chat di gruppo con Intendente e Torzi chiamata “I magnifici tre”, ma la ha definita anche “un po’ goliardica”, sebbene le parti civili abbiano fatto notare che la chat era usata anche per comunicazioni di certo non goliardiche, come i pagamenti alla Aspigam International di Dubai,
Giovannini non ricordava neanche un incontro del 30 ottobre 2018 in Segreteria di Stato. Più volte Giovannini ha assicurato di non aver avuto alcun ruolo “tecnico” nella vicenda di Londra, né di aver mai ricevuto incarichi dalla Santa Sede. La Segreteria di Stato ha però fatto notare che c’è una nota di mandato per una sub assistenza di 350 mila euro. Giovannini ha detto di non ricordare nemmeno questo.
I prossimi passi
Giovannini è stato ascoltato solo dalle parti civili, e si è dovuto rinviare il resto dell’interrogatori perché lo stesso vicerettore aveva un impegno che aveva comunicato al promotore di Giustizia, ma di cui il promotore di Giustizia non aveva fatto menzione al presidente del Tribunale. Questi, molto infastidito, ha così chiuso l’udienza, notando che si trattava solo dell’ultimo di una serie di episodi.
Si riprende dunque il 12 gennaio, con probabilmente Giovannini e altri testi, mentre il 13 saranno ascoltate Ciferri e Chaoqui.
Il 25 è probabile il Cardinale Parolin, che il 26 e 27 dovrebbe andare invece a Lourdes per l’incontro dei media cattolici. L’accusa ha detto nella scorsa udienza di rinunciare agli altri testimoni in lista. Le difese hanno tempo fino al 10 gennaio di presentare una lista testimoni aggiornata, magari stralciando quelli già sentiti in contro esame, o anche per produrre una nuova lista alla luce delle evidenze venute fuori in questi mesi di dibattimento.
Saranno, le prossime tappe, in grado di chiarire le vicende? Oppure solleveranno, come è successo fino ad ora, più domande che risposte?
Processo Palazzo di Londra, come e quanto è stato informato il Papa?
Udienza 43 e 44 del processo per la gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Le testimonianze contrastanti di Chaouqui e Ciferri. Il Papa informato sempre, secondo i testimoni, ma in che modo?
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 14. gennaio, 2023 11:00 (ACI Stampa).
Quanto e come è stato informato il Papa sugli sviluppi delle indagini che hanno portato al processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato? Viene da farsi la domanda dopo le udienze 43 e 44 del processo, che hanno visto il 13 gennaio gli interrogatori di Francesca Immacolata Chaouqui e Genoveffa Ciferri, e il 12 gennaio la prosecuzione dell’interrogatorio di Renato Giovannini e quello dell’avvocato Manuele Intendente.
Sono testimonianze di carattere diverso. Giovannini e Intendente, infatti, erano nella lista dei testimoni dell’accusa, mentre Chaouqui e Ciferri sono state chiamate direttamente dal tribunale, per chiarire la loro posizione dopo l’interrogatorio di monsignor Alberto Perlasca, per nove anni a capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato vaticana, prima indagato e poi testimone chiave di questo processo. Perché è dalle due puntate dell’interrogatorio del monsignore, con delle punte di incertezza che avevano fatto mettere in luce al presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone che poteva essere incriminato per falsa testimonianza, che era venuto fuori il ruolo di Ciferri nel “suggerire” le mosse da fare a Perlasca, e dietro Ciferri il costante contatto di Francesca Immacolata Chaouqui.
Quanto sa Papa Francesco?
La domanda riguardo la consapevolezza del Papa viene da alcuni dettagli che sono venuti fuori da queste udienze. Prima di tutto, è noto che il Papa aveva incontrato a Santta Marta Gianluigi Torzi, il broker cui era stato affidato in seconda battuta la gestione dell’immobile su cui la Segreteria aveva investito a Londra. Era il 26 dicembre 2018, e Torzi era in Vaticano per definire proprio la cessione delle sue quote. Ma Intendente ha fatto sapere che c’era stato un altro incontro cui aveva partecipato il Papa, e c’erano anche Gianluigi Torzi, lui in qualità di avvocato di Torzi, altri protagonisti della vicenda Londra, e l’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato.
Tra le possibilità, c’era anche l’idea di trasferire le mille quote di Torzi sul palazzo, le uniche con diritto di voto, al fondo Centurion di Enrico Crasso, che già faceva investimenti per il Vaticano. Ma Papa Francesco avrebbe fatto sapere di non volere questo trasferimento, e due anni dopo, il 5 novembre 2020, nella lettera in cui definiva il trasferimento dei fondi dalla Segreteria di Stato all’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, scrisse proprio esplicitamente che si dovesse dismettere ogni legame con il fondo Centurion.
Le questioni in gioco
La decisione del Papa era dunque quella di liberarsi da ogni tipo di gestione precedente, senza considerare se questa fosse stata positiva o meno. E qui si nota come il Papa intervenga profondamente nel processo. Non solo i quattro rescritti, di cui si è abbondantemente parlato, che hanno anche dato nuovi poteri investigativi agli inquirenti. Se le testimonianze fossero confermate, il Papa avrebbe partecipato a due incontri riguardo la gestione dell’immobile di Londra, e la sua presenza accrediterebbe il fatto che Papa Francesco era stato informato di ogni mossa. Nell’interrogatorio di Genoveffa Ciferri, poi, è stato sostenuto che monsignor Alberto Perlasca avrebbe consegnato il suo memoriale a Papa Francesco, prima di consegnarlo agli inquirenti, e che avrebbe ricevuto l’ok del Papa. E poi, infine, c’è il caso del baciamano concesso a Francesca Immacolata Chaouqui nell’estate del 2022. La donna, che era stata imputata nel secondo processo Vatileaks ed era stata condannata a dieci mesi (pena sospesa con la condizionale) per il concorso nella diffusione di documenti riservati con monsignor Vallejo Balda. Chaouqui si era resa protagonista di diverse intemerate contro il Cardinale Angelo Becciu, e lo stesso cardinale aveva fatto notare al Papa in una email che concedere il baciamano significava anche, indirettamente, sostenere le tesi della donna, considerando che il Papa è anche il primo magistrato dello Stato di Città del Vaticano.
Il Papa rispose che aveva dimenticato la questione, che non voleva entrare nel processo, e che aveva deciso lui di concedere il baciamano, perché magari poteva fare bene. Durante l’interrogatorio, Chaouqui ha detto che informa costantemente il Santo Padre di ogni cosa, senza però entrare nei dettagli.
Le udienze
Le domande sulla presenza e l’intervento del Papa nel processo sono, alla fine, un tema centrale da molte udienze. Il processo, in realtà, ha tre filoni di indagine: quello sull’investimento della Segreteria di Stato in un immobile di lusso a Londra, dato in gestione prima al broker Raffaele Mincione, poi al broker Gianluigi Torzi e poi ripreso in mano dalla Segreteria di Stato quando è stato appurato che Torzi aveva il pieno controllo del Palazzo, avendo tenuto per sé le uniche mille quote con diritto di voto; quindi, il peculato nei confronti del Cardinale Angelo Becciu per aver, nella sua posizione di sostituto, aver inviato fondi della Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri, sua diocesi di origine, secondo l’accusa favorendo la famiglia e in particolare il fratello che ne era presidente; e infine, la vicenda di Cecilia Marogna, la sedicente esperta di intelligence che è stata “contrattata” dalla Segreteria di Stato per aiutare in alcune operazioni in luoghi caldi, e in particolare per la liberazione di alcuni ostaggi, ma che invece avrebbe usato il denaro ricevuto per i suoi fini.
Sono tre storie molto diverse, che però sono confluite in un unico processo, e i cui dettagli rischiano di far perdere il nodo centrale della vicenda. La domanda è se, nella gestione di questi fondi, ci sia stato reato. Ma interrogatori e testimonianze spesso divagano, perdendosi in dettagli che a volte sanno di depistaggio, facendo perdere il nodo centrale della vicenda.
È successo, e spesso, in queste udienze. Sia in quella di Intendente e Giovannini, con in particolare quest’ultimo che si è trincerato dietro tanti non ricordo; sia in quella di Ciferri e Chaouqui, una udienza che a volte ha assunto toni drammatici per il modo aggressivo di rispondere e le costanti divagazioni, che hanno portato più volte il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone a intervenire per ristabilire l’ordine.
Ciferri
Vale la pena soffermarsi più a lungo sulle testimonianze di Ciferri e Chaouqui, che, come detto, non erano nella lista dei testimoni e sono state chiamate dopo che la stessa Ciferri aveva mandato un messaggio al promotore di Giustizia Alessandro Diddi, da lui prontamente riferito al tribunale, spiegando il ruolo che aveva avuto a fianco di monsignor Perlasca.
Ciferri era amica della famiglia di Perlasca, aveva conosciuto poi il monsignore in anni recenti, gli dava del lei ma lo chiamava anche confidenzialmente “volpetto” e aveva deciso anche di cedergli la sua casa e le sue proprietà a Greccio (“una montagna che fu calpestata da San Francesco”) in nuda proprietà. La donna ha un precedente penale per estorsione di 53 anni fa, ha collaborato come analista per il DIS, ha un appoggio a Londra.
È stata lei a contattare (sotto falso nome) la giornalista Maria Giovanna Maglie, che aveva scritto un articolo in difesa di Perlasca, per esporle i rischi che correva il monsignore, a suo dire quasi vittima di un omicidio. In realtà, il cardinale Becciu aveva inviato un medico per accertarsi delle sue condizioni, che gli aveva somministrato del valium. La stessa Ciferri ha poi detto di aver esagerato.
Maglie mette in contatto Ciferri con Chaouqui, e Chaouqui, denuncia Ciferri, mostra di avere una conoscenza approfondita non solo delle indagini, ma anche della vita dei giudici, sottolinea sempre che si deve proteggere il promotore di Giustizia Diddi, la guida nell’aiutare Perlasca a testimoniare, addirittura organizza la famosa cena al ristorante “Scarpone” di Perlasca con il Cardinale Becciu, dove Perlasca sembra addirittura convinto ci sarà una registrazione da parte della Gendarmeria.
E ancora, Ciferri sottolinea che Chaouqui mostra di vantare vari contatti nella Gendarmeria Vaticana, si riferisce sempre ad un certo Gianluca (presumibilmente Gauzzi Broccoletti, attuale comandante della Gendarmeria Vaticana), parla molto bene di Stefano De Santis, che è poi il gendarme che ha condotto le indagini sulla vicenda del Palazzo di Londra.
Infine, Ciferri sottolinea di aver voluto parlare con il Cardinale Becciu proprio per cercare di aiutare monsignor Perlasca, e che, dopo un colloquio particolarmente acceso nel suo appartamento, sarebbe uscita dicendo: “Io sarò sempre una sua nemica schierata”, sottolineando che di lì ad una settimana il cardinale avrebbe potuto perdere il cardinalato. Alla domanda del presidente del Tribunale del perché avesse definito un lasso di tempo così preciso, considerando che poi il cardinale verrà privato delle sue prerogative cardinalizie da Papa Francesco proprio una settimana dopo, Ciferri si limita a dire che lei “sapeva che in una settimana Perlasca avrebbe ceduto e avrebbe inviato il memoriale”. Ciferri, infatti, lamentava che Perlasca fosse completamente succube del Cardinale Becciu e che avesse operato per permettergli di liberarsi da quella oppressione e di poter finalmente dire la verità, senza pagare in prima persona.
Chaouqui
Che Perlasca dovesse parlare è l’unico punto in cui Chaouqui e Ciferri concordano. Chaouqui, appena saputo delle perquisizioni in Segreteria di Stato – lo racconta lei – contatta Perlasca, cerca di spingerlo a parlare, a dire la verità, perché lei vuole che il Santo Padre sappia. Per Chaouqui, l’ingresso della Gendarmeria nel Palazzo Apostolico è finalmente la vittoria sulla Segreteria di Stato, perché il Papa aveva provato una prima volta con la COSEA (Commissione sulla Struttura Economico Amministrativa della Santa Sede) di cui era membro nel 2014, poi aveva provato con la Segreteria per l’Economia e infine era riuscito con la Gendarmeria.
Chaouqui lamenta che, da membro della COSEA, faticava ad avere i dati di cui necessitava dalla Segreteria di Stato, che addirittura Perlasca avesse mandato di non parlarle, e che la Segreteria di Stato facesse resistenza alle necessarie riforme economiche.
Proprio per questo, lei spinge Perlasca a parlare, anche con parole forti (“io non minaccio, io uso parole dure perché spesso sono l’unica donna e ho visto che ottengo di più così che usando per favore”) e con reazioni spropositate, negando però di aver mai avuto un tono intimidatorio, anche se i messaggi agli atti sembrerebbero dire il contrario.
Quando entra in contatto con Ciferri (“ore di telefonate”, dice) propone una strategia, e addirittura suggerisce delle aree tematiche su cui deve essere improntato non il memoriale, ma piuttosto una serie di podcast (ne vengono registrati 26) che secondo Chaoqui sono il modo migliore di affrontare i temi con il Papa.
Il suo obiettivo è ristabilire la verità, dice, e anche riabilitarsi. Si sente anche umiliata, dice, è abituata a pregare in Basilica di San Pietro e ora deve entrare come una comune fedele, facendo la fila.
Ed è per questo che i messaggi con Becciu sono inizialmente cordiali, lei vorrebbe riabilitazione, si trova con una condanna sospesa e ha difficoltà a lavorare, dice, ma sa che Becciu sta cercando esperti esterni e che lei potrebbe svolgere quel lavoro. Ma poi sospetta lo stesso cardinale di sabotaggio nei suoi confronti quando le arriva una lettera del Papa che è una grazia che lei non ha chiesto, e in un linguaggio che non è quello del Papa. Allora scrive direttamente a Papa Francesco, che le dice di non aver mai scritto quella lettera. Nel suo racconto, è il momento in cui ristabilisce il contatto con il Papa.
E più volte sottolinea che il suo interesse è quello di mostrare al Papa la verità, e che a lei non interesse nemmeno quello che pensa il tribunale.
E no, dice Chaouqui, non aveva rapporti con i gendarmi, e anche il messaggio messenger in cui lodava Stefano De Santis viene da lei disconosciuto con l’accusa che quello era “un account controllato da Cecilia Marogna”.
Resta il fatto che Ciferri non ha detto subito a Perlasca di aver collaborato con Chaouqui, perché – ha spiegato – “la sua fama la precedeva” e per questo Perlasca non avrebbe mai accettato questa collaborazione. Ogni suggerimento era descritto come un suggerimento di un “anziano magistrato”, e solo dopo il primo interrogatorio di Perlasca al processo ha rivelato al monsignore che il magistrato era niente meno che la Chaouqui.
Restano anche messaggi, molto duri, inviati a Perlasca, in cui Chaouqui diceva di sapere tutto di lui, di quando alzava il gomito e di avere prove e documenti. Incalzata dalle difese, ha sottolineato di essere in possesso dei documenti di Segreteria di Stato nell’archivio COSEA, e in particolare quelli che analizzavano la possibile candidatura di Perlasca per entrare nei ranghi della Segreteria per l’Economia, che appunto lo accusavano di alcuni vizi.
La dichiarazione di Becciu
Lo stesso cardinale Becciu, in una dichiarazione spontanea alla fine del processo, si dice sorpreso che Chaouqui potesse ancora avere documenti dell’archivio, considerando che i documenti, specie “quelli delicati” vanno lasciati negli uffici una volta lasciati. Becciu ha detto che nemmeno da sostituto aveva la libertà di accesso e di parola al Santo Padre rivendicati da Chaouqui, e che lui in realtà aveva perorato la sua domanda di riabilitazione davanti al Papa, sottolineando che la condanna sarebbe comunque terminata in pochi mesi, ricevendo dal Papa in risposta un secco no, con il rinnovo verbale del divieto per Chaouqui di entrare in territorio vaticano. Circostanza che Becciu ha ricordato al Papa nella lettera che ha fatto seguito al baciamano della scorsa estate.
Due le occasioni che possono giustificare l’astio di Chaouqui nei suoi confronti, dice Becciu: il fatto che lui si sia opposto alla sua nomina in COSEA, anche se questa è arrivata senza passare dalla Segreteria di Stato; e il fatto che abbia votato a favore dell’arresto e del processo nei suoi confronti in una commissione che si era creata sulla questione.
Le prossime tappe
Chaouqui dovrà tornare a testimoniare il 16 febbraio. Ci sarà una testimonianza del Cardinale Parolin, ma va calendarizzata. Poi, ci sono altri testimoni minori. Più il processo va avanti, più crescono le domande. E intanto, la Santa Sede è impegnata su più fronti, se si considera la riapertura del caso Orlandi – che Chaouqui connette alla sua richiesta di revisione della sua sentenza – ma anche il processo che la Segreteria di Stato dovrà affrontare a Londra su contestazioni di Raffaele Mincione.
Processo Palazzo di Londra, forse Parolin alla fine non testimonierà
Questa settimana in Vaticano, un processo civile e uno penale. Ecco quello che è successo. E la posta in gioco
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 28. gennaio, 2023 11:00 (ACI Stampa).
Papa Francesco non testimonierà al processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, e questo era prevedibile, nonostante alcuni degli imputati abbiano chiamato proprio il Papa tra i testimoni. Ma forse non ci sarà nemmeno il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, che pure aveva dato disponibilità a venire in tribunale, perché lo stesso tribunale ha deciso che è meglio sentire prima l’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato, e solo successivamente, e se è necessario il Segretario di Stato in persona. Non sarà più ascoltata, invece, Francesca Immacolata Chaouqui, chiamata come testimone dal Promotore di Giustizia per un secondo round di domande, questa volta sul suo coinvolgimento nella vicenda.
Nell’udienza numero 44 del processo vaticano si sono cominciati a delineare i contorni delle testimonianze richieste dalla difesa e dalle parti civili Ma si è affrontato anche il tema del cosiddetto “processo Sardegna”, la parte di processo che riguarda il Cardinale Giovanni Angelo Becciu e il suo presunto peculato per aver destinato fondi della Segreteria di Stato alla Caritas della sua diocesi di origine diretta dal fratello, Antonino Becciu, che sarà anche lui tra i testimoni.
In una nota separata, va notato che questa settimana è cominciato anche in Vaticano il processo intentato da Libero Milone, già Revisore Generale della Santa Sede, che chiede quasi dieci milioni di danni insieme al suo vice Panicco per essere stato allontanato ingiustamente dalla Santa Sede. Un processo, anche questo, che coinvolge il Cardinale Becciu, accusato da Milone di averlo allontanato con false premesse.
Prima di andare avanti, c’è bisogno comunque di ritracciare i fili della storia.
Il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato
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Le udienze di questa settimana hanno riguardato due processi. Il primo è un processo penale, che però riguarda ben tre diversi filoni processuali, combinati in uno solo. Uno di questi filoni riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, in un immobile di lusso a Londra. Dell’immobile erano state comprate quote, affidate prima al broker Raffaele Mincione e poi al broker Gianluigi Torzi. Quest’ultimo aveva tenuto per sé le uniche mille quote con diritto di voto, esercitando pieno controllo dell’immobile, ragion per cui la Segreteria di Stato aveva deciso di rilevare interamente il palazzo. Il processo include accuse di truffa, peculato, estorsione, e coinvolge nove imputati più alcune società. Si deve definire se la Segreteria di Stato sia stata truffata, se abbia subito un danno o se semplicemente non ha saputo gestire un investimento, o lo abbia fatto male.
Il secondo filone del processo penale riguarda la cosiddetta “vicenda Sardegna”, ovvero la questione dei fondi della Segreteria di Stato (circa 150 mila euro) destinati ad una cooperativa in Sardegna legata alla Caritas di Ozieri. Direttore della Caritas è il fratello del Cardinale Becciu, Antonino Becciu, e l’ipotesi di reato è quella di peculato, ovvero che il Cardinale, allora sostituto della Segreteria di Stato, avesse destinato i fondi per favorire i famigliari. Fino ad ora, non sono emerse prove del peculato, ma l’inchiesta ha portato anche ad una rogatoria internazionale verso l’Italia per una indagine parallela svolta dalla Guardia di Finanza, tanto che un esponente della Guardia di Finanza è andato a testimoniare nell’udienza numero 44.
Il terzo filone, invece, riguarda l’ingaggio, da parte della Segreteria di Stato, di Cecilia Marogna come consulente di intelligence, specialmente per la liberazione di alcuni prigionieri. L’accusa a Marogna è di aver intascato soldi dalla Segreteria di Stato senza averli impiegati per quello cui erano effettivamente destinati, cioè il lavoro per la liberazione di alcuni ostaggi in Africa.
Il processo Milone
Diverso, invece, il processo di Libero Milone, che insieme al suo allora vice revisore generale Panicco, ha intentato causa alla Santa Sede per danni morali e materiali. Milone era stato allontanato dal suo incarico di revisore generale su richiesta diretta di Papa Francesco, ma Milone ha sempre sostenuto che questa richiesta – di cui si era fatto portatore il Cardinale Becciu – fosse falsa, e che invece si fosse ordito un complotto ai suoi danni perché stava lavorando per la trasparenza in Vaticano.
Alcune questioni critiche
Di fatto, l’udienza sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato ha portato alcuni aspetti critici che vale la pena di affrontare.
Prima di tutto, va segnalata l’irritualità dell’interrogatorio nei confronti del colonnello della Guardia di Finanza di Oristano Pasquale Pellecchia. In pratica, le autorità dello Stato vaticano chiamano a testimoniare le forze di polizia di uno Stato estero, che tra l’altro hanno sequestrato documenti appartenenti alla diocesi, diffuso alcune intercettazioni tra cui la famosa registrazione della telefonata tra il Cardinale Becciu e Papa Francesco, tra gli elementi sequestrati dalla Guardia di Finanza in tre dispositivi di una parente di Becciu e finita in pasto alla stampa mentre ai giornalisti che erano in aula in Vaticano non era stata fatta sentire perché ancora non ammessa come prova nel processo. La Guardia di Finanza ha anche delineato quello che descrivono come un quadro di pressioni dietro l’accettazione, da parte di Papa Francesco, delle dimissioni del vescovo di Ozieri Vittorio Pintor.
Ammesso e non concesso che queste pressioni ci fossero, l’accettazione delle dimissioni di un vescovo al compimento del 75esimo anno di età, anno canonico per il ritiro, è un fatto che riguarda sempre e solo il Santo Padre, e nessuna autorità può andare a mettere in questione la volontà del Papa sul tema.
Quindi, va segnalato l’interrogatorio a Carlo Fara, funzionario dell'ufficio di informazione finanziaria dell’Autorità di Informazione Finanziaria fino al 2019, quando ha ricevuto un'altra offerta e ha preferito dunque lasciare l'autorità i cui vertici erano stati "decapitati" e che aveva subito un duro colpo alla sua indipendenza di intelligence con le perquisizioni in Segreteria di Stato. Gli è stato chiesto di quando ha cominciato ad occuparsi dell’acquisizione del palazzo di Londra, e soprattutto perché non avesse mai segnalato al promotore di giustizia della situazione.
Ma non c’era alcuna situazione da segnalare, per due motivi. Il primo è la procedura: c’era una segnalazione di attività sospetta, che in realtà era una richiesta di collaborazione ai sensi dell'articolo 69A della legge antiriclaggio, ma l’autorità di intelligence deve fare le sue verifiche prima di riportare al Promotore di Giustizia per le indagini. Erano state attivate, come già emerso durante il processo, cinque Unità di Informazione Finanziaria estere per fare le adeguate verifiche, e si attendevano tra l'altro ancora risposte dalla Gendarmeria. Non insomma c'erano ancora gli elementi per inviare una segnalazione al Promotore di Giustizia, perché questo viene fatto dopo le verifiche.
La seconda: la segnalazione riguarda il rischio di riciclaggio, ma in quel caso il rischio di riciclaggio ancora non c’era, erano soldi della Segreteria di Stato che venivano investiti. E, tra l'altro, da procedure GAFI (Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale), l'autorità è tenuta a collaborare con le autorità.
Va notato che il terzo rapporto sui progressi di MONEYVAL, nel 2017, notava che “i risultati nella applicazione delle leggi e l’attività giudiziaria a due anni dall’ultimo rapporto restano modesti” (punto 64 del Moneyval Progress Report sulla Santa Sede del 2017).
Significava che, a fronte delle segnalazioni dell’Autorità di Informazione Finanziaria, l’attività investigativa giudiziaria non dava seguito in maniera conforme.
Il rapporto sui progressi 2021 segnalava poi “miglioramenti nel quadro istituzionale e un approccio più proattivo applicato dal Corpo della Gendarmeria e dall’Ufficio del Promotore di Giustizia sono incoraggianti”, ma notava come “i risultati effettivi raggiunti durante il periodo in esame sono modesti”.
Alla fine, veniva messa in luce una mancata efficacia del sistema giudiziario vaticano. Avrebbe il tribunale dato davvero seguito alle indagini se avesse ricevuto una segnalazione dall’autorità di intelligence? È una domanda da farsi, considerando però che l’Autorità di Informazione Finanziaria non era ancora arrivata al punto di dover avvertire il Promotore di Giustizia.
A Carlo Fara sono stati mostrati due contratti: uno del passaggio delle quote dell’immobile da Athena a Gutt e uno del passaggio a GUTT alla Segreteria di Stato. Sembra mancasse il contratto di gestione con cui la Segreteria di Stato affidava a GUTT la gestione strategica dell’immobile, ed era lì che presumibilmente erano previste delle penali. Sulla base di quelle penali si è trattato con Torzi la sua buonuscita, fino a giungere ai 15 milioni contestati dal Promotore di Giusizia come estorsione.
Il caso Sardegna
Cerchiamo di entrare invece nel dettaglio della gestione SPES, la cooperativa legata alla Caritas di Ozieri. Il colonnello Pellecchia ha riferito delle tre informative stilate sui documenti di trasporto della SPES e sulla “nota informativa riservata” che non era firmata, ma attribuita al vescovo emerito di Ozieri Sergio Pintor, deceduto nel 2020.
Si è parlato anche dell’autoregistrazione della telefonata del Cardinale Becciu al Papa.
La nota del vescovo Pintor, datata maggio 2013 e ritrovata nello studio del vescovo Pintor, pone vari problemi, perché si tratta di documento appartenente alla Curia. Ma comunque, nel documento il vescovo Pintor lamenta di aver subito “forti ingerenze” dall’alto della Santa Sede tra il 2006 e il 2012, ingerenze attribuite al Cardinale Tarcisio Bertone, allora segretario di Stato, ma anche dall’allora sostituto Becciu e da altre personalità, oltre a pressioni ricevute da alcuni membri della famiglia Becciu, tutte nell’interesse di bloccare nomine di parroci. E Pintor sarebbe stato richiesto di inviare al Papa la lettera di rinuncia, prima del compimento dei 75 anni di età, e gli venne chiesto anche di non sostituire il direttore della Caritas diocesana Don Mario Curzu, nonostante le denunce di Pintor che nella SPES si sfruttavano le persone povere.
Pintor lamenta anche che l’amministratore apostolico nominato alla sua rinuncia, Sebastiano Sanguinetti, è arrivato in diocesi appena due giorni dopo, e avrebbe poi annullato tutto il suo lavoro.
Si è parlato anche del cosiddetto “conto promiscuo” SPES su cui venivano accreditati i fondi provenienti della Segreteria di Stato, e poi di documenti della consegna del pane della SPES, che secondo Pellecchia sarebbero stati falsificati e le consegne mai avvenuta.
Da parte sua, il Cardinale Becciu ha respinto “con la massima fermezza alcune affermazioni contenute nell’informativa della Finanza”, ha notato che le missive del vescovo Pintor sarebbero dovute rimanere nell’archivio diocesano, ha lamentato che non c’è “uno straccio di prova” che riconosca che le dimissioni del vescovo Pintor siano avvenute su pressioni esterne, e che i rapporti si incrinarono quando nell’ottobre 2011 Becciu non diede seguito ad una segnalazione del vescovo, che rimase vittima del suo temperamento rancoroso.
Resta che la nota informativa è una nota personale, che le autorità italiane hanno preso documenti di una Curia diocesana, che l’impianto accusatorio non ha prove.
I prossimi testimoni
Non ci sarà più Francesca Immacolata Chaouqui, né il confronto Chaouqui – Genevieva Ciferri richiesto dalle difese. Ma ci sarà, il 16 febbraio, il presidente dell’Istituto delle Opere di Religione Jean-Baptiste de Franssu.
De Franssu firmò l’autorizzazione al prestito che avrebbe consentito alla Segreteria di Stato di estinguere il mutuo dell’immobile di Londra. Ma questa autorizzazione, arrivata dopo mesi di studio e consistente con la missione dell’Istituto, fu revocata pochi giorni dopo, e fu lanciata poi la segnalazione che portò all’attuale processo. Il 17 settembre saranno senti i vescovi Sebastiano Sanguinetti e Corrado Melis, quest’ultimo oggi a capo della diocesi di Ozieri.
Il caso Milone
Diverso il caso di Libero Milone e del suo collaboratore Ferruccio Panicco, che hanno intentato una causa civile contro la Segreteria di Stato e l’Ufficio del Revisore. I due hanno portato una serie di trentanove allegati, per un totale di 545 pagine, che però sono stati definiti come “falsi” e “sottratti” all’ufficio del Revisore generale.
Milone e Panicco si erano dimessi nel giugno 2017. Milone era stato anche accusato di aver “incaricato illegalmente una società esterna di svolgere attività investigative sulla vita privata di alcuni esponenti della Santa Sede”.
I due chiedono un risarcimento di 9.278.000 euro per quello che loro definiscono un licenziamento, perché sostengono che le loro confessioni furono estorte . Gli inquirenti vaticani, dalla scorsa primavera, indagano Milone per Peculato.
Tra i danni subiti, il mancato rispetto delle regole, la lesione della loro immagine professionale, l’impossibilità a ritrovare un lavoro a causa del carattere calunnioso del loro allontanamento. Ma anche la sospensione di terapie oncologiche per Panicco, perché i suoi referti medici sarebbero stati smarriti a seguito della perquisizione del suo ufficio in Vaticano da parte della Gendarmeria.
Secondo le difese, la citazione in giudizio è inammissibile e la causa è improcedibile per vari motivi: perché la causa è alla Segreteria di Stato, mentre Milone era sotto contratto della Segreteria per l’Economia e Panicco dell’Ufficio del Revisore. Ma anche, che sono passati cinque anni dai fatti, dunque c’è anche un profilo di prescrizione.
Per quanto riguarda i documenti presentati, il promotore di Giustizia Alessandro Diddi ha parlato di “ipotesi di sottrazione di documentazione pubblica”. Diddi era presente – ha detto – per “interesse pubblico”, perché “il mio ufficio ha il dovere di intervenire per tutelare l’interesse pubblico”.
Tutto è ancora da decidere, per il Tribunale di Giuseppe Pignatone. Si aspetta il suo pronunciamento per eventualmente andare avanti con il processo.
Processo Palazzo di Londra: sarà cruciale la testimonianza di Pena Parra
Sarà decisiva la testimonianza del sostituto della Segreteria di Stato, prevista per i giorni 16 e 17 marzo, per comprendere in che modo la Segreteria di Stato avesse agito sul caso dell’immobile comprato a Londra
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 18. febbraio, 2023 11:00 (ACI Stampa).
Immaginate che ci sia un organo di Stato cui lo Stato chiede un aiuto per risolvere un problema. E immaginate che questo organo di Stato, invece, decida non solo di dire no alla richiesta dello Stato, ma di denunciare lo Stato stesso, senza nemmeno proporre una soluzione alternativa. È quello che è successo in Vaticano, quando la Segreteria di Stato vaticana ha chiesto all’Istituto delle Opere di Religione un prestito per finalizzare l’acquisto di un immobile di lusso a Londra e così liberarsi dal peso di un mutuo oneroso e dal problema di aver dato il palazzo in gestione a un broker che si era tenuto le uniche quote con diritto di voto.
Questo scenario si è dipanato nell’udienza numero 46 del processo vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, che ha visto come testimone il presidente del Consiglio di Sovrintendenza dell’Istituto per le Opere di Religione, la cosiddetta “banca vaticana”.
L’udienza 47 è stata invece tutta dedicata alla vicenda Sardegna, ovvero alle accuse di peculato cui deve rispondere il Cardinale Angelo Becciu, che da sostituto della Segreteria di Stato avrebbe dato benefici alla Caritas diretta dal fratello in Sardegna. E anche qui ci sono profili tutti da considerare, perché durante i vari interrogatori non si è mai chiesto se effettivamente il fratello del cardinale avesse avuto benefici economici (che sarebbe poi l’unica prova del peculato), mentre ci si è concentrati molto sulla gestione amministrativa della diocesi di Ozieri, che sembrava essere diventato il vero obiettivo della vicenda. Ma andiamo con ordine.
Cosa riguarda il processo
Nel processo per la gestione dei fondi della Segreteria di Stato rientrano almeno tre filoni di indagine.
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Il primo riguarda l’investimento della Segreteria di Stato in un immobile di lusso a Londra. Inizialmente, la Santa Sede aveva acquistato quote del palazzo, date in gestione prima al broker Raffaele Mincione, e quindi rilevate e date in gestione al broker Gianluigi Torzi. Questi aveva tenuto per sé le sole quote con diritto di voto, cosa che aveva portato la Santa Sede a decidere di salvare l’investimento rilevando la proprietà del palazzo.
Il secondo filone riguarda le accuse di peculato al Cardinale Angelo Becciu, che da sostituto avrebbe favorito una cooperativa legata alla Caritas della diocesi di Ozieri, la SPES, con una donazione da parte della Segreteria di Stato e poi sostenendola di fronte alla richiesta di finanziamento dell’8 per mille.
Il terzo filone riguarda infine l’ingaggio, da parte della Segreteria di Stato, della sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna, che avrebbe poi usato il denaro ricevuto per fini personali e non istituzionali.
Tre processi in uno, dunque, che vanno distinti, e che hanno come punto in comune solo la questione della gestione della Segreteria di Stato.
L’interrogatorio De Franssu
Il 16 febbraio è stato il giorno dell’interrogatorio del presidente dello IOR Jean-Baptiste de Franssu. Quando la Segreteria di Stato aveva rilevato tutto il palazzo, aveva chiesto allo IOR un prestito di 150 milioni, che sarebbe stato poi restituito, per far fronte all'estinzione di un mutuo che gravava sull'immobile a un tasso di interesse oneroso. Lo IOR prima aveva accettato di erogare il prestito, poi aveva invece improvvisamente rifiutato. Era stato il direttore generale dello IOR, Gianfranco Mammì, a far partire il 2 luglio 2019 la denuncia che ha dato il via al processo odierno.
De Franssu ha detto di non aver saputo della denuncia solo a cose fatte, ma che non c’era stata “altra scelta per l’istituto”, anche per far fronte alle pressioni che ricevevano per fornire il prestito. Anzi, ha raccontato che c’era stato un incontro il 25 luglio convocato dal Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, cui hanno partecipato l’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato, il presidente e il direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria René Bruelhart e Tommaso Di Ruzza, lo stesso De Franssu insieme al direttore generale dello IOR Gianfranco Mammì.
In quell’occasione, ha detto de Franssu, l’AIF era rimasta in silenzio, per prenderlo poi da parte alla fine dell’incontro chiedendogli conto della sua “ostinazione” nel non voler procedere. Mentre a parlare durante era stato Pena Parra, che aveva dato a De Franssu e al board degli “incompetenti”, cosa che il presidente dello IOR ha rimarcato stizzito più volte.
Non si sa se Mammì abbia preso parte alla conversazione, ma di certo si sa che aveva già fatto partire la denuncia. Non è stata ammessa dal tribunale la domanda che cercava di chiarire se il Papa fosse stato informato, ma nel suo memoriale Pena Parra fa notare che il Papa era stato informato, e che sarebbe stato informato dopo la riunione dallo stesso Parolin.
In quel momento, però, i rapporti erano già compromessi. Lo IOR aveva dato con una lettera massima disponibilità al prestito, ma poi aveva fatto marcia indietro. De Franssu ha spiegato al tribunale che, sì, la lettera è impostata a fornire la massima collaborazione con l’autorità, ma non significa che non si dovessero fare verifiche dopo, e che dalle verifiche con i database internazionali era risultato il rischio di riciclaggio per la presenza di Mincione e Torzi. Insomma, non era un problema di copertura finanziaria, quanto di reputazione.
E resta però l’anomalia che una richiesta della Segreteria di Stato, cioè del governo, non abbia seguito. Dall’altra parte c’è l’AIF che riceve segnalazione della Segreteria di Stato, analizza la transazione, propone una alternativa per evitare il rischio di riciclaggio, e avvia comunque una serie di indagini con le unità di informazione finanziaria coinvolte che sarebbero continuate anche dopo il termine delle operazioni.
Sarebbe da chiedersi, forse, chi ha voluto fermare l’attività di indagine dell’AIF, che comunque ha cercato di aiutare l’istituzione ad uscire da una piega difficile.
De Franssu ha considerato ogni sollecitazione una pressione, ha collegato al suo rifiuto anche una nota su una transazione dello IOR con l’istituto finanziario INVESCO, “una cosa minima”, ha detto, che però era finita sotto i riflettori anche perché INVESCO era stato per 30 anni la casa di De Franssu. Per tutta risposta, il presidente dello IOR invia al Cardinale Parolin una nota riguardante un processo che lo IOR ha a Malta, per l'acquisto del prestigioso ex Palazzo della Borsa di Budapest. È un caso complicato, dove lo IOR viene anche accusato di aver, una volta aperto il procedimento, rifiutato ogni offerta per l'acquisizione del palazzo che avrebbe ripianato debito e contenzioso solo nella volontà di discreditare il vecchio management dell'Istituto. Saranno i giudici a stabilire la verità processuale. Si nota, però, la volontà di De Franssu di marcare una certa discontinuità con la vecchia gestione, nonostante questa avesse lasciato con un utile di 86,6 milioni di euro che non si è più verificato negli anni successivi.
Ma perché lo IOR non poteva dare il prestito? De Franssu dice che la normativa lo impediva e che qualunque attività di prestito era stata bloccata nel 2014. A parte che la normativa, letta già durante l’interrogatorio di Mammì, concedeva allo IOR – che non è una banca – di dare credito per fini istituzionali, ci sarebbero almeno altri due casi negli ultimi anni in cui l’istituto ha aiutato a ripianare debiti: il prestito di 11 milioni alla diocesi di Terni, contabilizzato nel rapporto IOR 2014 ma precedente alla gestione De Franssu, e quindi la questione che riguarda il monastero benedettino di Dalia, nella diocesi di Porec-Pula, che risolveva un contenziosotra l’abbazia e la vecchia proprietà del monastero. La vicenda era del 2011, l’aiuto IOR era stato ottenuto nel 2018-2019, quando era già arcivescovo Dražen Kutleša. Questi, tra l’altro, è stato nominato questa settimana da Papa Francesco coadiutore dell’arcidiocesi di Zagabria.
Il punto era decidere se rispondere alla Segreteria di Stato andava considerata una attività istituzionale o una attività finanziaria, e questo riguarda in senso più largo la considerazione che si ha dello Stato: lo IOR deve sostenere la Santa Sede o agire contro la Santa Sede come un qualunque istituto di credito?
Di minacce ha parlato nella sua testimonianza anche Alessandro Nardi, anche lui sentito come testimone. Nardi aveva lavorato allo IOR come responsabile dell’ufficio compliance, e aveva riferito che Fabrizio Tirabassi, officiale dell’Ufficio Amministrativo della Segreteria di Stato e anche lui imputato, gli aveva detto che “dietro l’operazione di Londra c’erano persone pericolose, capaci di commettere omicidi”. Come pubblico ufficiale, tuttavia, non presentò alcuna denuncia: “Ne parlai con De Franssu e con mia moglie”. Al termine dell’udienza, Tirabassi ha dichiarato: “Non ho mai minacciato Nardi né gli ho riferito espressioni minacciose da parte di terzi”.
La questione Sardegna
L’udienza del 17 febbraio è stata invece dedicata alla questione Sardegna. Sei ore di interrogatori, che hanno incluso il vescovo emerito e poi amministratore apostolico di Ozieri Sebastiano Sanguinetti e l’attuale vescovo Corrado Melis, ma anche sacerdoti della diocesi, il sindaco della cittadina e un officiale della Segreteria di Stato che ha riferito di come il Cardinale Becciu si sia preso cura di monsignor Alberto Perlasca, già capo dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, quando questi a luglio 2020 aveva minacciato il suicidio.
Centro degli interrogatori, la cooperativa SPES, che fu messa sotto la presidenza di Antonino Becciu e che aveva lo scopo di fornire un lavoro a persone marginalizzate, anche attraverso il progetto di un panificio.
Antonino Becciu è il fratello del Cardinale Becciu. Professore di religione in pensione, fu scelto perché impegnato da sempre nel volontariato diocesano e considerato affidabile, onesto e attendibile.
Il vescovo Sanguinetti ha detto che si decise di fondare SPES nel 2006 per creare una struttura che alleggerisse Caritas dal punto di vista amministrativo, con la quale poter assumere, ma collegandola alla Caritas.
Il grande progetto SPES era quello di creare un panificio. Il luogo prescelto per il panificio fu distrutto da un incendio, e Sanguinetti fece domanda all’8 per mille CEI per un finanziamento di 300 mila euro, che fu accettata.
Becciu, è stato spiegato, non si era mai interessato, né era mai entrato direttamente nella gestione di SPES.
Il vescovo Melis ha confermato di aver chiesto, solo verbalmente a Becciu un contributo della Segreteria di Stato, anche per favorire il progetto della Cittadella della Solidarietà utile sia a Ozieri che al nord della Sardegna. L’11 aprile 2018 dalla Segreteria di Stato fu erogato un bonifico di 100 mila euro. È quello su cui hanno indagato gli inquirenti. I soldi sono ancora sul conto della Diocesi, che non li ha mai utilizzati.
Nessuna domanda si è però concentrata sulla destinazione dei soldi, e in particolare su come la famiglia Becciu si sarebbe arricchita.
Dopo Sanguinetti e Melis, sono stati ascoltati altri quattro testimoni, tra cui il sindaco di Ozieri, Marco Murgia, e monsignor Paolo Vianello, sacerdote che ha lavorato nella Segreteria di Stato e che ha riferito di come Becciu si prese cura di Perlasca.
I prossimi sviluppi
Molti sono i nodi da chiarire, e sarà importante, se non cruciale, la testimonianza del sostituto della Segreteria di Stato. Agli atti c’è un suo memoriale, di 20 pagine e 200 documenti allegati, in cui dettaglia il sistema di affari che lui avrebbe cercato di sgominare, rivendicando tra l’altro la bontà dell’investimento a Londra e il suo lavoro nel proteggere l’investimento della Segreteria di Stato. Anzi, stigmatizza anche il rifiuto dello IOR al finanziamento, sottolineando che questo avrebbe portato benefici allo stesso istituto.
L’idea del presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone è comunque di chiudere il processo entro l’anno. Tra febbraio e marzo ci sono sette udienze, mentre il Tribunale ha anticipato di quindici giorni il termine del deposito delle consulenze e delle controdeduzioni, fissando le date rispettivamente al 5 maggio e il 5 giugno. Per inizio giugno sarà terminato l’esame ai diversi testimoni, dopodiché – ha spiegato Pignatone - “daremo un congruo tempo al Promotore di Giustizia per preparare la requisitoria”.
Alla ripresa delle attività del Tribunale, il 20 settembre, si terranno gli interventi delle difese, le eventuali repliche e dichiarazioni spontanee degli imputati. A ottobre, quindi, la possibile sentenza.
Processo Palazzo di Londra, la questione delle carte dell’accordo
Chi ha dato alla stampa le carte dell’accordo tra Mincione e la Santa Sede? L’ultimo interrogatorio, il 21 febbraio, ha chiarito la questione. Alimentando altri dubbi
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 25. febbraio, 2023 11:00 (ACI Stampa).
Il framework agreement, l’accordo che era stato delineato tra il broker Raffaele Mincione e la Segreteria di Stato per la cessione delle quote dell’immobile di lusso a Londra su cui la stessa Segreteria di Stato aveva investito, non era finito sui giornali a causa dell’Autorità di Informazione Finanziaria. Era invece stato Marcello Massinelli, un collaboratore (più un consulente) dello stesso Mincione a fare avere la copia dell’accordo al giornalista Emiliano Fittipaldi, per dimostare che non c’era niente di illecito in quel passaggio di quote.
La rivelazione è arrivata durante quella che è stata la più breve udienza del processo vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Circa 25 minuti, durante i quali ha reso testimonianza il giornalista Emiliano Fittipaldi, al tempo all’Espresso e oggi vicedirettore di Domani, ribaltando, con le sue parole, buona parte dell’impianto accusatorio costruito intorno ai vertici dell’Autorità di Informazione Finanziaria, e in particolare intorno all’allora direttore Tommaso Di Ruzza.
Il processo, vale la pena ricordarlo, si concentra su tre filoni di indagine, che vanno tutte fatte risalire alla gestione dei fondi della Segreteria di Stato vaticana. La prima riguarda appunto la questione dell’immobile di Londra: la gestione delle quote erano state date al broker Raffaele Mincione, e poi la Santa Sede aveva rilevato questa gestione e la aveva data ad un altro broker Gianluigi Torzi. Infine, dopo aver considerato che quest’ultimo aveva tenuto per sé le uniche mille azioni con diritto di voto e dunque manteneva il controllo totale dell’immobile, la Segreteria di Stato aveva deciso di rilevare tutto il palazzo, incluse le quote di Torzi.
Il secondo filone riguarda un presunto peculato che il Cardinale Angelo Becciu avrebbe esercitato quando era sostituto della Segreteria di Stato facendo arrivare una donazione alla Caritas di Ozieri e alla fondazione SPES collegata alla Caritas che erano sotto la presidenza di suo fratello Antonino.
Il terzo e ultimo filone riguarda invece il contratto di consulenza stipulato con la sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna, che avrebbe poi usato il denaro ricevuto per affari personali e non per lo scopo cui erano destinati .
L’udienza dello scorso 21 febbraio riguardava solo il primo filone di indagine, e in particolare la posizione di vertici dell’Autorità di Informazione Finanziaria. Dopo il raid negli uffici dell’allora AIF (oggi ASIF) e della Segreteria di Stato dell’1 ottobre 2019, il 3 ottobre l’edizione online dell’Espresso pubblica in serata un articolo che ripercorre la vicenda e riproduce la prima pagina del documento dell’accordo.
Da chi ha avuto quella copia? Secondo l’accusa, l’accordo sarebbe arrivato dal direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria, Tommaso Di Ruzza.
Fittipaldi però smentisce la ricostruzione dei fatti, e anzi rivela di aver avuto l’autorizzazione a rivelare la sua fonte. È Massinelli, un collaboratore di Mincione che gli ha dato copia dell’accordo su sua richiesta, in uno scambio whatsapp che viene messo agli atti.
In pratica, due giorni dopo il raid negli uffici dell’AIF, una delle parti contraenti dell’accordo decide, rispondendo alle sollecitazioni del giornalista, di far venire tutto alla luce, per dimostrare che non c’era niente di illegale in quello che era stato stipulato. Lo stesso Mincione, interrogato in Vaticano, ha detto che l’accordo era stato fatto secondo tutti i criteri legali.
Fittipaldi ammette di aver incontrato Di Ruzza, e di averlo anche cercato nel 2016 per avere delle informazioni che non ottenne. E ammette anche di aver avuto frequenti contatti con Francesca Immacolata Chaouqui, già commissario vaticano e ricomparsa in questo processo, dopo essere stata condannata nel cosiddetto processo Vatileaks 2 del Vaticano, per rendere testimonianza di alcune sue azioni che avrebbero portato indirettamente una pressione su monsignor Alberto Perlasca, per anni a capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato e poi trasferito, considerato uno dei testimoni chiave del processo.
La testimonianza di Fittipaldi mette in luce che, almeno su una questione, l’accusa si è fidata di accuse incrociate, ma non ha cercato prove. Inoltre, chiarisce finalmente la posizione di Di Ruzza, cui tra l’altro il reato di peculato era stato archiviato già dallo stesso promotore di giustizia vaticano.
E però resta il dubbio che tutto l’impianto accusatorio possa essere senza prove evidenti, e possa essere soprattutto frutto di una ricostruzione. La domanda vera non è se il framework agreement sia stato dato in pasto ai giornalisti. È, piuttosto, se tutti si sono comportati onestamente nello stipularlo.
Si tratta, insomma, di una svolta nel processo, che ha una ricaduta anche su altri accusati. Lo stesso Mincione – che ha incontrato successivamente Fittipaldi nel suo studio a Milano, insieme a Massinelli e un altro collaboratore – si ritrova in una posizione diversa, perché la trasparenza sull’accordo testimonia al limite una buona fede, e comunque un quadro probatorio diverso.
Sembra, così, cadere un altro tassello dell’accusa del processo vaticano. E la testimonianza dell’arcivescovo Edgar Pena Parra, il prossimo 16 e 17 marzo, sarà cruciale. Il sostituto della Segreteria di Stato ha già prodotto un memoriale, con 200 pagine di documenti allegati. Dalla sua deposizione si potrebbe praticamente comprendere in che modo sarà delineata la sentenza. Colpisce, inoltre, che diversi testimoni non stiano rispondendo alla convocazione,
Una sentenza difficile per Pignatone, chiamato ad un complicato gioco di equilibri in un processo in cui il quadro accusatorio sembra sfumare sempre di più.
Processo Palazzo di Londra, la corrispondenza Papa - Becciu
Lette al processo vaticano le lettere tra il Cardinale Becciu e Papa Francesco. Verso la testimonianza di Pena Parra
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 11. marzo, 2023 11:00 (ACI Stampa).
In un inaspettato stravolgimento di eventi, il promotore di Giustizia vaticano ha presentato una serie di tre lettere tra il Papa e il Cardinale Angelo Becciu, risalenti al luglio del 2021. Si tratta di due lettere del Papa e una del Cardinale Becciu in cui si discute delle indagini vaticane, e che non possono essere lette se non alla luce della telefonata tra il Papa e il Cardinale Becciu dello stesso periodo, registrata dal Cardinale.
Le carte sono state presentate dal promotore di Giustizia vaticano alla 50esima udienza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, che si è tenuta il 9 marzo scorso.
Il processo
Il processo include almeno tre filoni di indagini: quelle riguardanti l’investimento della Segreteria di Stato in un immobile di lusso a Londra nel 2013; quelle riguardanti le accuse di peculato nei confronti del Cardinale Becciu perché avrebbe, al tempo in cui era sostituto della Segreteria di Stato vaticana, donato soldi della Segreteria di Stato alla Caritas della sua diocesi diretta dal fratello; e quelli riguardanti invece l’assunzione come consulente di Cecilia Marogna, che avrebbe – secondo l’accusa – utilizzato il denaro a lei destinato dalla Segreteria di Stato per pagare un riscatto per uso personale.
Il Cardinale Becciu è stato coinvolto solo all’inizio dell’investimento della Segreteria di Stato nell’immobile di Londra, mentre successivamente aveva lasciato il suo posto di sostituto della Segreteria di Stato per diventare prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi nel 2018.
L’investimento sulle quote dell’immobile di Londra era nato dopo che la Segreteria di Stato aveva valutato e scartato la possibilità di investire nelle quote di una compagnia di estrazione petrolifera in Angola. Becciu non era già più sostituto quando la Segreteria di Stato aveva deciso di spostare la gestione delle quote dal broker Raffaele Mincione al broker Gianluigi Torzi. Quest’ultimo aveva tenuto per se le uniche mille azioni con diritto di voto, avendo così il controllo totale dell’immobile.
La Segreteria di Stato aveva dunque deciso di acquisire l’immobile, e per questo aveva pagato l’acquisto delle quote a Torzi, per un prezzo che i magistrati considerano frutto di estorsione, e aveva poi cercato di rinegoziare il mutuo che gravava sull’immobile con l’aiuto dell’Istituto delle Opere di Religione.
Questo aveva prima accettato di aiutare la Segreteria di Stato e poi si era tirato indietro, lamentando delle opacità nell’affare e facendo scattare l’indagine del Revisore Generale della Santa Sede che ha portato al processo in corso.
Per quanto riguarda la cosiddetta “vicenda Sardegna”, Becciu è accusato di aver favorito una cooperativa legata alla Caritas della diocesi di Ozieri, e diretta dal fratello, cui ha fatto avere una donazione di 100 mila euro dalla Segreteria di Stato. Quei fondi erano destinati alla ricostruzione di un panificio, che era una delle opere della cooperativa, e sono, a quanto si è appurato, ancora vincolati nel conto della Caritas.
Infine, c’è la questione di Cecilia Marogna, che era stata ingaggiata dalla Segreteria di Stato come consulente e utilizzata in alcune operazioni per la liberazione di religiosi presi in ostaggio. In particolare, Marogna avrebbe fatto da intermediario per la liberazione di Suor Cecilia Narvaez, la suora colombiana che era stata rapita in Mali nel 2017 e liberata nel 2021. In realtà, il ruolo di Marogna è incerto in questa liberazione, mentre è reale il trasferimento di denaro della Segreteria di Stato per pagare il riscatto.
Becciu, su questa vicenda, ha sempre cercato di frapporre il segreto pontificio, considerando che l’operazione era stata autorizzata dal Papa e anche che la notizia della disponibilità a pagare un riscatto avrebbe potuto essere utilizzata a svantaggio della Santa Sede.
Sono tutti dati che servono a comprendere nel dettaglio la corrispondenza prodotta durante il processo.
Le lettere tra Becciu e il Papa
Il promotore di Giustizia Alessandro Diddi ha ottenuto le lettere direttamente dalla “sovrana autorità”, cioè Papa Francesco. Il promotore aveva appreso della corrispondenza leggendo gli atti di una indagine della procura di Sassari in Italia sulla cooperativa Spes, ottenuti tramite rogatoria internazionale.
La prima lettera è di Papa Francesco ed è del 21 luglio 2021, e risponde ad una lettera del 20 luglio di quello stesso anno di Becciu. Non era ancora cominciato il processo vaticano, e il Cardinale chiedeva al Papa di confermare sia di aver dato l’ok all’investimento nell’immobile di Londra e in particolare alla proposta di acquisto dell’onorevole Giancarlo Innocenti Botti (offerta che avrebbe permesso alla Santa Sede di vendere l’immobile su cui gravava un mutuo) sia di confermare il segreto pontificio sulla vicenda Marogna.
In uno stile che sembra più legale che di Papa Francesco, il Papa scrive che la lettera di Becciu lo ha sorpreso, che non vuole entrare nel merito né delle affermazioni del cardinale che delle strategie processuali, ma che ci teneva a sottolineare che la proposta di acquisto dell’immobile di Londra “mi parve subito strana per i contenuti, le forme ed i tempi scelti; al punto che, non disponendo di altri elementi di valutazione, suggerii che si procedesse ad una previa consultazione del Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, e di padre Juan Antonio Guerrero Alves, prefetto della SPE, per gli approfondimenti di rispettiva competenza”.
Il Papa scriveva poi che la sua iniziale perplessità si rafforzò ulteriormente “quando compresi che l’iniziativa in questione era, tra l'altro, indirizzata ad interferire, con effetti ostativi, con le indagini dell'Ufficio del Promotore di Giustizia”. Da qui il pronunciamento “in senso negativo”.
Papa Francesco scrive anche che non esiste segreto pontificio sulla vicenda della Marogna, vicenda – scrive – caratterizzata da due situazioni. “La prima – si legge nella lettera - concerne attività istituzionali svolte da persone competenti e di indubbia professionalità nell’ambito dei rispettivi ruoli; la seconda, come Lei sa bene, caratterizzata da estemporanei ed incauti affidamenti di risorse finanziarie distratte dalle finalità tipiche e destinate, secondo le tesi accusatorie, a soddisfare personali inclinazioni voluttuarie”.
Per questo, conclude il Papa, non ci può essere segreto pontificio.
La telefonata al Papa e la nuova lettera
Il 24 luglio, il Cardinale Becciu telefona a Papa Francesco. La registrazione delle telefonata è anche questa finita negli atti delle indagini italiane. Nella telefonata, Becciu lamenta che la lettera del 21 luglio è come una condanna, chiede di annullarla, sottolinea che quella lettera prende in pratica la linea delle tesi dell’accusa. Becciu addirittura dice al Papa che è “mancato il padre”, che il tono della lettera era “tutto giuridico.
Becciu chiede al Papa se ricorda di avergli dao “l’autorizzazione per liberare la suora” e poi dice al Papa che gli basterebbe che lui dichiarasse di averlo autorizzato a fare certe operazioni. Il Papa risponde chiedendo di inviare per iscritto “delle spiegazioni e cosa vorrebbe che io scrivessi”.
Da qui la lettera del Cardinale del 24 luglio, in cui ringrazia il Papa per la telefonata, e dice di aver sentito Francesco “come un vero Padre disposto ad ascoltare la pena di un figlio”.
In allegato, il Cardinale pone due dichiarazioni che vorrebbe il Papa sottoscrivesse: una in cui il Papa confermava di aver dato luce verde a “procedere per la liberazione di suor Gloria Narvàez Argoti” e che autorizzò l’allora sostituto “a recarsi a Londra per contattare un’agenzia specializzata in intermediazione”, nonché di aver “approvato la somma necessaria per pagare gli intermediari e quella fissata per il riscatto”.
Quanto alla questione del palazzo di Londra Becciu si appellava al Pontefice perché affermasse che aveva ritenuto “la proposta interessante”.
Infine, il Cardinale Becciu chiedeva al Papa di dichiarare di “non tener conto della letetra del 21 luglio”. E poi aggiungeva comunque di sentirsi legato al Stato per la vicenda di suor Narvaez per “ragioni di sicurezza internazionale”, chiedendo comunque al Papa se invece lo voleva sciogliere dal segreto e reso libero di rispondere a qualsiasi domanda. Il Papa ha poi liberato Becciu dal segreto.
L’ultima lettera di Papa Francesco
Il 26 luglio, Papa Francesco risponde di nuovo. Dice che non aveva chiarito la sua “posizione negativa” sulle dichiarazioni che invece il cardinale voleva sottoscrivesse.
“Evidentemente e sorprendentemente, sono stato da Lei frainteso”, afferma. Il Pontefice ribadisce che sull’opposizione del vincolo di segretezza, “l’affidamento di denaro ad un intermediatore, per gli aspetti opachi emersi secondo la tesi accusatoria, non può essere coperto da Segreto di Stato per ragioni di sicurezza, né suscettibile di apposizione del segreto pontificio”.
“Mi duole comunicarle – aggiunge - di non poter dar seguito alla Sua richiesta di dichiarare formalmente ‘nulla’ e quindi di ‘non tener conto’ della lettera che le avevo scritto”.
Le testimonianze della Gendarmeria
L’udienza del 9 marzo ha visto anche sul banco dei testimoni il comandante della Gendarmeria Gianluca Gauzzi Broccoletti e il commissario Stefano De Santis, che aveva tra l’altro guidato le indagini. I due sono stati chiamati a chiarire le circostanze di una visita da loro fatta al cardinale il 3 ottobre 2020. Il cardinale aveva infatti lamentato con Gauzzi Broccoletti l’intensa campagna stampa contro di lui.
I due gendarmi - ha detto il comandante – parlarono con il Cardinale nel suo appartamento per circa una ora e mezza. Secondo Gauzzi Broccoletti, Becciu si mostrò distaccato su tutti i temi, tranne quando si toccò la vicenda Marogna. Il Cardinale, secondo le ricostruzioni del comandante, si mise le mani sul viso e disse: “‘Se esce questa cosa, sarà un grave danno per me e per i miei familiari”. Il Cardinale aveva comunque “espresso la volontà di rifondere la somma utilizzata da Cecilia Marogna con una sua dazione volontaria su un conto corrente Ior”. Il comandante ha assicurato inoltre che mai disse a Becciu di tenere segreto l’incontro.
Il Cardinale Becciu ha poi replicato alla testimonianza di Gauzzi Broccoletti, ribandendo che il comandante gli aveva chiesto di mantenere riservato il loro incontro. “Mi disse anche – ha aggiunto il Cardinale - che il truffato ero io e non era giusto che mi facessi carico di pagare spese personali fatte da Marogna. Non è vero che mi sono scaldato solo per la questione Marogna. Certamente mi sono mostrato preoccupato perché era un segreto che dovevamo mantenere”.
Le prossime tappe
Il 16 marzo, sarà sentito l’arcivescovo Edgar Pena Parra, attuale sostituto della Segreteria di Stato. Pena Parra ha già spiegato nei dettagli la sua posizione in un lungo memoriale di una venina pagine, con quasi duecento pagine di documentazione allegata.
Nel memoriale il sostituto mette in luce un sistema a lui preesistente, racconta circostanze che dimostrano le sue affermazioni, riferisce che spesso le decisioni gli venivano fatte prendere in urgenza proprio per indirizzare verso alcuni scenari già predestinati, e difende le sue decisioni nel proteggere l’investimento di Londra, lamentando anche la mancanza di assistenza da parte dello IOR. Soprattutto, fa notare che il Papa era stato informato di tutto.
La sua testimonianza sarà cruciale per comprendere in che modo il processo proseguirà.
https://www.acistampa.com/story/22000/processo-palazzo-di-londra-la-corrispondenza-papa-becciu-22000
Processo Palazzo di Londra, la testimonianza di Pena Parra
Il sostituto della Segreteria di Stato ribadisce quello che era scritto nel memoriale consegnato ai giudici. Torna la questione: quanto era coinvolto il Papa?
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 18. marzo, 2023 12:00 (ACI Stampa).
Forse il momento chiave della testimonianza dell’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato vaticana, è il racconto della sua convocazione dal Papa il 22 dicembre 2018, a Santa Marta. “Credevo di dover parlare del governo della Chiesa, invece quando entro a Santa Marta mi ritrovo il Papa con l’avvocato Emanuele Intendente e Giuseppe Milanese”.
Più della foto del Papa con Gianluigi Torzi del successivo 26 dicembre, questo racconto mostra come Papa Francesco non solo fosse informato, ma si fosse anche coinvolto nella trattativa per riprendere il pieno controllo dell’immobile di lusso a Londra sulle cui quote la Segreteria di Stato aveva investito. La domanda allora resta sospesa: se tutti erano informati fino ai massimi livelli, perché poi si sta celebrando un processo in Vaticano? Quali sono i reali capi di imputazione?
Il processo
Il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, giunto alle udienze 51 e 52 il 16 e 17 marzo, è un processo che racchiude tre filoni di inchiesta. Due sono minori, e riguardano principalmente il Cardinale Angelo Becciu, già sostituto della Segreteria di Stato vaticana. Si tratta della vicenda dell’ingaggio della sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna, chiamata come consulente nelle trattative per la liberazione di alcuni religiosi e che avrebbe utilizzato i soldi della Segreteria di Stato per spese personali; e della cosiddetta vicenda Sardegna, ovvero il presunto peculato esercitato da Becciu nel destinare 100 mila euro dei fondi a disposizione della Segreteria di Stato per le opere di carità alla cooperativa SPES, braccio operativo della Caritas di Ozieri, diretta dal fratello.
Il Cardinale Becciu
Proprio Becciu, all’inizio dell’udienza del 17 marzo, ha voluto rendere due dichiarazioni spontanee, a chiarire il carteggio tra lui e il Papa che è stato diffuso nelle udienze precedenti. Nel carteggio, c’erano due missive di Papa Francesco, in termini legali e non personali, e una del Cardinale Becciu, che faceva seguito ad una telefonata avuta con il Papa e in cui si fornivano al Papa due dichiarazioni di firmare, a certificare che tutte le iniziative del Cardinale, sia sull’affare di Londra che per la liberazione di Suor Cecilia Narvaez in Mali attraverso Cecilia Marogna, erano state approvate dal Papa. Tra l’altro, la questione Marogna è stata anche affrontata dall’arcivescovo Pena Parra, che approvò gli ultimi pagamenti dopo averne parlato con il Papa che confermò.
Il Cardinale Becciu ha affermato di non essere un manipolatore, di non aver mai manipolato il Papa, di non aver voluto dare le missive perché conteneva “indicazioni sensibili”, “Non sono un manipolatore, non ho mai manipolato nessuno, tantomeno il Santo Padre”, ha chiarito il cardinale, sottolineando che questo scambio di lettere era destinato a rimanere privato dal momento che conteneva “indicazioni sensibili” sulla cosiddetta “operazione umanitaria”, cioè la liberazione di una suora colombiana rapita in Mali. Vicenda per la quale il Papa aveva sollevato Becciu dal segreto pontificio. Il cardinale aveva quindi ritenuto opportuno, “per sensibilità istituzionale e a tutela della Santa Sede”, di non diffondere tali lettere.
Becciu ha anche lamentato una diffusione parziale da parte del Promotore di Giustizia vaticano della corrispondenza con il Papa, perché mancava la lettera del cardinale al Papa del 20 luglio che faceva seguito a una telefonata del giorno prima in cui il Pontefice avrebbe chiesto direttamente al suo ex collaboratore di mettere per iscritto dei testi da sottoporgli ed eventualmente firmare. “Come mi ha chiesto, le invio le due dichiarazioni da firmare quanto prima perché dovrò depositarle in Tribunale”, si legge nella missiva riprodotta da Becciu, che rivendica il fatto che non abbia agito di sua iniziativa, ma su richiesta del Papa.
Il filone sul palazzo di Londra
Il filone più grande però riguarda l’investimento della Segreteria di Stato in un immobile di lusso a Sloane Avenue, a Londra, un investimento sulle quote degli ex magazzini Harrods che, ristrutturate e riaffittate grazie a dei permessi, avrebbero dovuto generare profitti. La proposta dell’affare arrivò dal broker Raffaele Mincione, che è stato il primo a gestire le quote. Poi la Segreteria di Stato, nel 2018, decide di cambiare gestione, e affidare il tutto a un altro broker, Gianluigi Torzi. Questi trattiene per sé mille azioni, le uniche delle 31 mila azioni della Segreteria di Stato con potere di voto.
È il momento in cui si ha la consapevolezza che la Segreteria di Stato ha investito in una “scatola vuota” che l’arcivescovo Pena Parra entra in carica come sostituto e cerca di comprendere come gestire la situazione.
La sua testimonianza del 16 marzo racconta nei dettagli quei concitati momenti. Pena Parra si trova un contratto in essere che non comprende, firmato senza autorizzazioni superiori da monsignor Alberto Perlasca, allora al decimo anno consecutivo a capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato. Perlasca lo aveva spinto a concludere l’accordo del passaggio di gestione paventando “la perdita totale dell’investimento”.
Il sostituto chiede rassicurazioni all’avvocato Nicola Squillace, che crede essere l’avvocato della Segreteria di Stato, e questi gli dice che tutto è risolto, che non ci sono problemi. Solo dopo comprenderà che l’avvocato lavora anche per Torzi, e rifiuterà di pagare l’onorario di 300 mila euro che richiede per i suoi servizi (“Sarebbe stato lui a dover pagare noi”, dice durante la testimonianza).
Persino il Segretario di Stato vaticano, il Cardinale Parolin, rassicura della bontà dell’operazione di investimento, tanto che un riluttante Pena Parra dà l’ok, considerando superati i rilievi del revisore generale Alessandro Cassinis Righini, che pure rilevava delle criticità.
Tutto resta fermo fino a dicembre. Ed è a dicembre che Pena Parra comprende che no, la questione non è risolta, che la Segreteria di Stato si trova con in mano una serie di scatole vuote e che non ha il controllo dell’immobile.
A quel punto, racconta, coinvolge tutte le persone che possono aiutarlo ad uscire dalla situazione: lo studio legale Mishcon de Reya, che cura anche gli interessi della Casa Reale Britannica, anche ma anche un gruppo di lavoro ristretto in Segreteria di Stato, e anche l’Autorità di Informazione Finanziaria per comprendere se e come le transazioni possano avere luogo.
Perlasca sarebbe per denunciare l’imbroglio, ma l’ipotesi viene scartata: si rischia un processo lungo, Torzi ha dei contratti in mano, e il rischio è di perdere tutto, oltre a molti soldi. Le rassicurazioni che le mille azioni date a Torzi siano solo per gestione sembrano subito velleitarie.
E così, Pena Parra chiama Fabrizio Tirabassi, e questi chiede chiarimenti all’architetto Luciano Capaldo, il quale tra l’altro aveva collaborato con Torzi. Ed è Capaldo – tra l’altro ex collaboratore di Torzi - a fare aprire gli occhi sulla vicenda.
La trattativa con Torzi
Un mese dopo quella che Pena Parra considerava la soluzione di un problema, ci si trova di fronte alla necessità di fare una scela difficile. In quel colloquio con Milanese e Intendente, il Papa suggerirà di voltare pagina e ricominciare da capo, cercando di perdere meno soldi possibile.
Unica soluzione: rilevare non le quote del palazzo, ma l’intero immobile. Comincia la trattativa con Torzi: la Segreteria di Stato quantifica in una cifra tra 1 e 3 milioni il possibile compenso, Torzi dice che si deve calcolare sia quanto ha investito che il mancato guadagno, considerando che il costo della sua gestione è sui 4 milioni (quella di Mincione prima era sui 4,5 milioni).
E così, Torzi arriva a chiedere fino a 25 milioni di euro, cifra che scenderà a 20 milioni. Si chiuderà a 15, per quella che l’accusa considera “estorsione”. “Siamo stati costretti a pagare”, dice Pena Parra.
Nell’interrogatorio, Pena Parra descrive quella che vissuto come una “Via Crucis”, conferma che il Papa aveva anche apprezzato la chiusura dell’operazione, definisce leale il comportamento di Tirabassi e corretto e positivo quello dell’Autorità di Informazione Finanziaria, che tra l’altro avrebbe continuato a controllare le transazioni. Viene il sospetto che i raid in Segreteria di Stato e nell’Autorità del 31 ottobre 2019 abbiamo fermato un processo di indagine, che tra l’altro coinvolgeva altre cinque unità di informazione finanziaria a livello internazionale.
La questione dello IOR
E poi c’è la questione dello IOR, l’Istituto delle Opere di Religione. C’è un mutuo che grava sull’immobile, stipulato con Cheyne Capital, che costa alla Segreteria di Stato 1 milione di euro al mese.
Pena Parra decide di rinegoziare, e per rilevare il mutuo chiede allo IOR, dopo che l’AIF (ente vigilante dello IOR) approva, una anticipazione finanziaria per estinguere il mutuo e avviarne un altro. “Era la possibilità di risolvere in casa il problema”, dice Pena Parra.
È febbraio 2019. Lo IOR non risponde subito, il direttore generale Mammì continua a comunicare con Pena Parra, c’è comunque disponibilità ad erogare il prestito. Il 24 maggio, una lettera del presidente del Consiglio di Sovrintendenza IOR de Franssu dà l’ok definitivo. Il 27 maggio, incredibilmente, lo IOR decide di non procedere più all’anticipazione.
Pena Parra prende carta e penna, sottolinea che l’Autorità ha dato l’ok, chiede di erogare 250 milioni entro il primo giugno. Incontra Mammì il 29 giugno, e poi ha un secondo incontro in Segreteria di Stato, convocato dal Cardinale Parolin, il 25 luglio, cui partecipano i vertici dello IOR, i vertici dell’AIF, Pena Parra che dice ancora di non aver preso coscienza del no al finanziamento. Evidente che Parolin volesse cercare di risolvere una questione aperta.
Il 4 luglio Mammì aveva già fatto la sua segnalazione all’ufficio del Revisore Generale, ma si guarda bene dal dirlo. “Lo ho saputo solo molto tempo dopo”, spiega Pena Parra.
Che ha toni accesi – de Franssu, nella sua testimonianza, non ha mancato di mostrare il suo fastidio – ma soprattutto “perché lo IOR mi aveva sempre dato disponibilità all’anticipazione. Se mi avesse detto subito a febbraio di non potere, avrei proceduto in due mesi con un’altra soluzione, come poi ho fatto. Non ho alcun problema con lo IOR, ma avevo anche l’angoscia di sollevare la Santa Sede dal pagamento di un milione di euro mensili di interesse”.
Il controesame dello IOR del 17 marzo ha portato alla luce altri dettagli. Dopo il no al finanziamento, Pena Parra cerca altre banche, e due istituti di credito di alto livello diedero la loro disponibilità, una immediatamente e una entro pochi mesi.
Si voleva favorire una soluzione interna, ad ogni modo – la ragione per cui ci si rivolge allo IOR per un prestito è anche perché lo IOR avrebbe guadagnato dagli interessi, in una operazione a vantaggio di tutti – e si decise di rivolgersi all’APSA che aprì una linea di credito, cosa che permise di passare dalle spese di un milione il mese a 800 mila euro l’anno. È stata poi l’APSA ha estinguere il mutuo sul palazzo, quando tuttti i fondi gli sono stati trasferiti.
A causa tuttavia dei vari rimandi, da maggio 2019 a settembre 2020 la Santa Sede ha “perso” 24 milioni: 18 mensilità, più le varie spese di gestione pari a circa 4 milioni. Fino alla vendita del palazzo, avvenuta nel luglio 2022, era stato dunque acceso un nuovo mutuo, ma molto meno esoso.
La questione dei servizi
Sono tutte informazioni contenute già in un dettagliato memoriale consegnato da Pena Parra, una nota “ad uso interno”, spiega, che non va necessariamente in tutti i dettagli perché non concepita come una memoria difensiva, ma che spiega in una ventina di pagine anche la situazione che ha trovato in Segreteria di Stato, la sua sorpresa nel non aver ricevuto nessuna nota tramandata dal suo predecessore riguardo le operazioni in corso (“in nunziatura le facciamo sempre”), l’esistenza di un metodo che portava a far firmare i superiori di fronte ad una urgenza vera o presunta, di cui lui stesso sarebbe stato vittima, nonché un certo clientelismo che portava a mantenere sempre gli stessi fornitori, anche quando questi non avevano condizioni vantaggiose.
Nella testimonianza si tocca anche il presunto pedinamento che Pena Parra avrebbe chiesto di fare nei confronti di Torzi attraverso l’ex funzionario Sisde Giovanni Ferruccio Oriente, questione sulla quale Pena Parra resta vago, ma di cui hanno parlato sia Carlino che Capaldo nella testimonianza.
Nel controesame, Pena Parra ha spiegato che “molto sorpreso dell’atteggiamento dello Ior”, la sua preoccupazione più grande era che ci potessero essere dei “contatti” tra l’Istituto e Gianluigi Torzi, il broker (imputato) che manteneva il controllo totale del palazzo londinese attraverso mille azioni con diritto di voto. “Ero stato informato che Torzi aveva detto in riunione a Londra che usciva da porta ma rientrava dalla finestra. Ho avuto il dubbio che questo atteggiamento anomalo fosse dovuto a qualche unione con il gruppo contrario a noi. Per questo ho chiesto al signor Oriente e al comandante della Gendarmeria (allora Giandomenico Giani, ndr) di fare un rapporto. Non sono interessato alla vita del direttore, ma era dovere mio come sostituto vedere se lo Ior fosse stato in qualche modo dentro a questa faccenda. L’ho fatto e, se fosse il caso, lo rifarei. Mi sembrava un dovere”.
Il rapporto con Torzi
Una preoccupazione e una sfiducia che nascono anche da un dato: quando Pena Parra si rende conto a dicembre che Torzi ha messo la Segreteria di Stato in un vicolo cieco, lo convoca e Torzi per tutta risposta elimina Tirabassi dal board della GUTT, la sua società con cui gestisce l’immobile di Londra, lasciando così Pena Parra senza alcun riferimento. Quando Milanese, l’amico del Papa che su richiesta dello stesso Papa aveva intavolato una trattativa, deciderà per ragioni personali di non essere più coinvolto, Pena Parra si rivolgere ad un avvocato internazionale, Dal Fabro. Anche lui deciderà di non essere coinvolto.
Ci si trova, insomma, davanti a un Torzi determinato a far valere il contratto (mai firmato secondo il suo avvocato) che prevede che lui riceva il 3 per cento del valore dell’immobile, e una situazione confusa in cui nessuno si fida più di nessuno, con il dubbio anche che le offerte sul palazzo siano artefatte nello scopo di aumentare il valore della transazione in favore di Mincione.
Lo stesso Parolin mostrerà a Pena Parra due offerte per l’immobile, cui Pena Parra non crederà perché “fuori del valore di mercato” che ormai si conosceva.
La Segreteria di Stato, che si è costituita parte civile, punta a recuperare i soldi che le sarebbero stati sottratti, lamenta che nessun contratto specificava che il controllo dell’immobile era nelle mille azioni date a GUTT, sottolinea che Mincione prima non avesse mai fatto sapere che sull’immobile gravava un mutuo.
Ma se questi sono dettagli tecnici, resta la domanda: se il Papa era a conoscenza di tutto, e ha approvato la trattativa, come si potrà provare la presunta estorsione di Torzi o la malafede di Mincione? Se Tirabassi e l’AIF hanno agito bene, come ha detto Pena Parra, perché sono tra gli imputati? E perché invece non è finito tra gli imputati monsignor Alberto Perlasca, la cui testimonianza è stata tra l’altro resa poco credibile dalle dichiarazioni rese da Genevieve Ciferri e Francesca Immacolata Chaouqui, le quali avevano avuto entrambe, in modi diversi, in ascendente su di lui?
Sono le domande che restano aperte, e che si spera troveranno risposta.
Processo Palazzo di Londra, nuovi capi di accusa
A partire dagli interrogatori, nuovi capi di accusa per alcuni degli imputati. Ordinanza per chiedere al fratello di Becciu di testimoniare.
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 1. aprile, 2023 12:00 (ACI Stampa).
Il colpo di scena delle ultime udienze sul processo della gestione di fondi in Vaticano è la formulazione di nuovi capi di accusa per alcuni degli imputati. Capi di accusa che nascono a seguito degli interrogatori che si sono prodotti in aula, con una procedura che può sembrare forzata, ma che è consentita in Vaticano, e che aggiunge i capi di imputazione di corruzione ad Enrico Crasso, Raffaele Mincione e Gianluigi Torzi, e quelle di autoriciclaggio per Enrico Crasso e Fabrizio Tirabassi.
Ma se questa è la notizia, le ultime due udienze devono essere considerate ad ampio spettro, più che nei dettagli. Perché l’avvocato Shantanu Sinha, che era nello studio legale Mishcon de Reya quando la Segreteria di Stato rilevò le quote da Mincione e poi l’immobile intero Torzi, ha fatto luce sul perché la Segreteria di Stato avesse deciso di compiere quelle operazioni, arrivando a spiegare in che modo riteneva che il broker Gianluigi Torzi fosse un pericolo. E l’architetto Luciano Capaldo, che, dopo aver collaborato con Torzi è diventato consulente della Segreteria di Stato, ha preso una posizione che difende la posizione dell’arcivescovo Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato. E poi c’è stata l’ordinanza che intima a presentarsi a testimoniare Antonino Becciu, fratello del Cardinale Becciu, e don Mario Curzu, presidente della Caritas di Ozieri.
Prima, però, c’è bisogno di fare un passo indietro.
Il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato
Tre sono i tronconi del processo. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, di un immobile di lusso a Londra. L’investimento fu affidato prima al broker Raffaele Mincione, poi al broker Gianluigi Torzi, che però tenne per sé le uniche azioni con diritto di voto. Alla fine, per salvare l’investimento, la Segreteria di Stato decise di rilevare l’intero palazzo, cosa che fece pagando a Torzi una buonuscita per la rilevazione delle quote. L’architetto Luciano Capaldo, già collaboraore di Torzi da cui si sarebbe distaccato perché non ne condivideva i metodi, aveva agito per conto della Segreteria di Stato nelle discussioni che hanno portato a rilevare il palazzo. L’avvocato Shantanu Sinha aveva assistito le operazioni per conto dello studio legale Mishcon de Reya, e aveva consigliato alla fine di non adire a vie legali, ma piuttosto a trovare un accordo con Torzi. Da questi ruoli, la rilevanza delle loro testimonianze.
Il filone “Sardegna” del processo vede il Cardinale Angelo Becciu sotto accusa per un presunto peculato che avrebbe avuto luogo quando questi era sostituto della Segreteria di Stato, con l’erogazione di denaro alla Caritas di Ozieri, diretta da don Mario Curzu, che li ha poi devoluti alla cooperativa Spes, diretta da Antonino Beccou. i due sono stati implicati anche in una indagine della Guardia di Finanza, ed è questo il motivo per cui non si sono presentati a testimoniare.
E poi c’è il filone Cecilia Marogna, la sedicente esperta di intelligence che si offrì di lavorare con la Santa Sede prestando i suoi servizi anche per la liberazione di ostaggi, come suor Cecilia Narvaez, rapita in Mali. Il pagamento di un riscatto è effettivamente avvenuto, ma non per conto di Marogna, accusata di essersi appropriata dei fondi vaticani per uso personale.
I nuovi capi di accusa
Gli altri protagonisti della vicenda sono Fabrizio Tirabassi, officiale della sezione amministrativa della Segreteria di Stato vaticana, ed Enrico Crasso, il broker che ha gestito per anni gli investimenti della Segreteria di Stato.
Loro, insieme a Mincione e Torzi, sono i destinatari dei nuovi capi di accusa svolti
alla luce di ulteriori attività istruttorie e di quanto emerso durante il processo, che hanno portato a due relazioni aggiuntive predisposte dal Corpo della Gendarmeria dello Stato della Città del Vaticano. I documenti, uno dedicato alla società Aspigam, l’altro alla questione delle monete, sono stati depositati nel corso della cinquantaquattresima udienza del processo sugli investimenti finanziari della Segreteria di Stato a Londra. Alcuni capi di accusa, inoltre, sono stati riformulati.
La testimonianza di Capaldo
A grandi linee, Capaldo nella sua testimonianza ha voluto ribadire, come già aveva fatto nel primo troncone di dichiarazioni il 23 novembre scorso, che secondo lui la Segreteria di Stato non avrebbe fatto un buon affare, che il valore dell’immobile secondo lui era inferiore e che dunque sarebbe stato un investimento con valutazioni erronee.
Vero è che Capaldo, da collaboratore di Torzi, aveva però compilato brochure e valutazioni di possibile sviluppo dell’immobile su cui la Segreteria di Stato stava investendo (gli ex magazzini Harrod’s a 60 Sloane Avenue) con valori che superavano i 300 milioni, ma ci ha tenuto a sottolineare che non erano valutazioni vincolanti ma stime, che le stime erano espressamente richieste ma che comunque non le faceva nella sua attività di valutatore e che comunque erano valutazioni che gli erano state chieste da Gianluigi Torzi.
È stato evidenziato più volte il rapporto che legava Capaldo a Torzi prima che diventasse consulente della Segreteria di Stato, e Capaldo stesso ha poi parlato di aver portato sul tavolo della Segreteria di Stato due manifestazioni di interesse per l’immobile, uno dell’allora ministro della pace dell’Afghanistan.
Altro tema è quello della sorveglianza che sarebbe stata fatta sugli studi di Torzi a Londra. Capaldo ha detto che aveva mantenuto una app collegata alle telecamere di sorveglianza dello studio di Torzi, e che l’arcivescovo Pena Parra (“Per cui sarei pronto a morire”) gli aveva chiesto aprire quella app per vedere chi sarebbe andato a fare visita a Torzi.
Capaldo ha anche confermato di aver contattato Giovanni Ferruccio Oriente, per lui solo un tecnico informatico (era l’autista del capo del SISDE) per risalire a dalle informazioni, cosa della quale però non si fece niente.
Il presidente del Tribunale Pignatone ha specificato che l’utilizzare telecamere in casa di altri non era ancora recepito come reato in Vaticano al termine dei fatti.
Certo, resta la domanda: perché Pena Parra voleva verificare cosa succedeva da Torzi?
La testimonianza di Shantanu Sinha
Perché evidentemente temeva che uno degli attori in gioco in quell’affare finissero per staccarsi dalla Segreteria di Stato e agissero autonomamente e contro gli interessi della stessa Segreteria di Stato. Sta di fatto che le indagini sulle destinazioni del denaro erano state avviate dall’Autorità di Informazione Finanziaria, che già aveva annunciato avrebbe continuato a seguire i flussi. Ma l’AIF è stata decapitata dal processo prima che potesse agire, nonostante avesse tutto il materiale di intelligence che avrebbe potuto aiutare nel corso delle indagini.
E dal processo non è ancora chiaro chi abbia presentato Gianluigi Torzi come l’uomo giusto per risolvere la vicenda di Londra. Giuseppe Milanese, l’imprenditore amico di Papa Francesco, aveva probabilmente avuto modo di conoscerlo, ma lo stesso Milanese è venuto a processo parlando di forze contrapposte.
Quella di Milanese è stata solo una rappresentazione grafica o c’è qualcosa di vero? E se sì, perché non si riesce a risalire ancora oltre nella catena? Lo stesso Milanese aveva testimoniato che Renato Giovannini, vicerettore della Università Marconi (il quale si era trincerato dietro molti “non ricordo” nell’interrogatorio) e l’avvocato Emanuele Intendente si fossero definiti insieme a Torzi “cavalieri bianchi”, e che sono loro a dire a Milanese che Torzi potrebbe risolvere il problema.
Se non si comprendono i legami, né gli eventuali interessi personali dietro i legami, è probabile che l’AIF fosse invece avanti nelle indagini. Perché quelle indagini sono state bloccate con la spettacolare perquisizione del 31 ottobre 2019?
Sono le domande che restano aperte, considerando che anche lo studio Mishcon de Reya aveva sottolineato la necessità di trattare e poi eventualmente di indagare.
In effetti, l’avvocato Shantanu Sinha ha detto che la strategia non fu quella di denunciare Torzi perché questi aveva dalla sua il tempo e anche la titolarità del Palazzo, che poteva vendere in ogni momento.
Insomma, Torzi era considerato una minaccia – sono state anche prodotte due email che mostravano le pressioni arrivate dal lato Torzi – e la Segreteria di Stato aveva la priorità di prendere la gestione del palazzo, e di farlo in modo lecito.
Shantanu Sinha ha ha ripercorso le tappe delle contrattazioni del novembre-dicembre 2018, quando la Segreteria di Stato, proprietaria di fatto dell’immobile di Sloane Avenue con 30 mila azioni senza diritto di voto, voleva uscire dal fondo Gutt di Torzi in modo da riacquisire il totale controllo del palazzo, mantenuto invece da Torzi con le ormai note “mille azioni con diritto di voto”, stabilite da un Framework Agreement firmato a Londra da rappresentanti della Segreteria di Stato, senza – sembra – l’autorizzazione dei superiori.
“Chi aveva azioni, aveva il potere”, ha detto l’avvocato, spiegando che il 17 dicembre 2018, l’architetto Luciano Capaldo aveva infatti presentato alcuni documenti perché si approvasse una risoluzione che cambiasse il diritto di voto nella Gutt – la società di Torzi che aveva la gestione delle azioni - affinché tutte le decisioni fossero prese all’unanimità. In una riunione di alcuni giorni dopo a Milano la proposta era stata sottoposta allo stesso Torzi: “Il suggerimento dello studio era di far revisionare il documento da uno studio con sede in Lussemburgo e aggiungere la risoluzione”.
“Se si era trattato di un errore, permettevamo a Torzi di aggiustare l’errore”, ha detto Sinha. Il rifiuto di Torzi fece comprendere che invece la struttura societaria era voluta.
Ma denunciare per “frode, truffa e inganno” sembrò rischioso, per via dei rischi reputazionali e soprattutto i rischi che venivano dallo stesso Torzi, tanto che si agiva in un quadro di tensione nervosa. “Un esempio di quello che faceva Torzi era dato dalla sua decisione di mandare via dal board della Gutt Fabrizio Tirabassi, che era l’unico rappresentante della Santa Sede.
Sinha ha depositato agli atti due email del marzo e aprile 2019 (fase viva delle trattative), in cui lo studio di consulenza Bird & Bird che assisteva Torzi chiedeva che si firmasse la transazione richiesta dal broker entro 2-3 giorni o addirittura un giorno, perché erano in cantiere “decisioni fondamentali” anche sul “possibile cambio di proprietà dell’immobile”. E il cambio di proprietà, secondo Sinha, era una vendita, perché la Segreteria di Stato “era proprietaria a tutti gli effetti”.
Capaldo ha riferito invece di un drammatico momento in cui monsignor Alberto Perlasca, capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, sarebbe scoppiato in lacrime di fronte all’impossibilità di denunciare Torzi.
Ordinanza Becciu
Forse le emozioni sono esagerate. Resta, però, che la Segreteria di Stato ha agito per proteggere l’investimento, ed effettivamente la vendita precipitosa a Bain Capital per soli 186 milioni di euro – che con lo sviluppo quasi raddoppieranno – non ha avuto effetti economici positivi.
Intanto, Pignatone ha anche distribuito una ordinanza che intima Antonino Becciu e don Mario Curzu a presentarsi in aula come testimoni il 19 aprile. Sia Curzu che Becciu fratello avrebbero dovuto testimoniare l’8 marzo, ma non lo fecero perché sono a loro volta indagati dalla Procura della Repubblica di Sassari, in relazione all’attività della Diocesi, della Caritas e della Cooperativa Spes, e che non si sono presentati per “elusione delle garanzie” da parte del diritto vaticano, che prevede solo la figura dell’imputato e del testimone e che dunque potrebbe riversare gli interrogatori come atti di indagine per Sassari. Inoltre, Antonino Becciu è parente prossimo di un imputato, e potrebbe non dover essere convocato.
Pignatone, però, ha ribadito ancora una volta che ci sono tutte le garanzie per il giuso processo, difendendo il sistema vaticano, intimando ai due di presentarsi irrevocabilmente in aula il 19 aprile.
Vedremo se si presenteranno. È vero che questo processo ha visto diversi testimoni decidere di non presentarsi, e mai per nessuno è stata fatta una ordinanza per intimare loro di presentarsi, né si è mai pensato a mettere in campo rogatorie internazionali per recuperare i testimoni.
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Processo Palazzo di Londra, ammessi i nuovi capi di imputazione
Serviranno delle precisazioni, ma il Tribunale vaticano ha accettato i nuovi capi di imputazione proposti dal promotore. Non testimonia il fratello di Becciu
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 22. aprile, 2023 11:00 (ACI Stampa).
Ci sono nuovi casi di imputazione, e due altri cardinali chiamati a testimoniare, nel processo per la gestione dei fondi della Segreteria di Stato vaticana. Le novità sono giunte dalle udienze numero 55 e 56, che si sono tenute 19 e 20 aprile, e che sono servite all’escussione di cinque testimoni, ma anche a rispondere a quella richiesta di aprire nuovi capi di accusa avanzata dal promotore di Giustizia Alessandro Diddi nelle ultime udienze. Di fronte alle difese che chiedevano la nullità, anche perché in alcuni casi i fatti contestati erano non ben determinati, il Tribunale ha invece risposto che sì, alcune accuse vanno meglio precisate, ma che comunque si inseriscono in un filone di maggiore chiarezza riguardo i reati contestati e anche il concorso dei reati, e che dunque la richiesta del Promotore di Giustizia è ammesso.
Ora ci sarà tempo fino al 4 maggio per ulteriori richieste di prova riguardo le nuove contestazioni, mentre già si sa che saranno chiamati a testimoniare due cardinali: Leonardo Sandri, già prefetto della Congregazione delle Chiese Orientali; e il Cardinale Fernando Filoni, Gran Maestro dell’Ordine del Santo Sepolcro. Entrambi sono stati sostituti, dovranno probabilmente testimoniare su uno dei capi di accusa, quello di riciclaggio contestato all’officiale di Segreteria di Stato Tirabassi per la compravendita di monete operata dal padre.
Al di là della nota di “colore” e di attesa che può dare la presenza di due altri cardinali testimoni, mentre uno è persino imputato, il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato sembra diventare sempre più confuso. E questo dopo che l’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato, aveva chiarito molti aspetti in una lunga deposizione in aula, dettagliando i problemi e le questioni.
Gli interrogatori delle ultime due udienze sono stati particolarmente tecnici, e vale la pena soffermarsi più sulle questioni di insieme che sul dettaglio degli interrogatori. Interrogatori che non vedranno presentarsi Antonino Becciu, fratello del Cardinale Becciu, il quale ha dichiarato che, essendo parente prossimo di un imputato, non avrebbe dovuto essere convocato.
Il processo, come è noto, ha tre filoni di accusa.
Il primo verte intorno all’investimento della Segreteria di Stato in un immobile di lusso a Londra, dato prima in gestione al broker Raffaele Mincione, poi al broker Gianluigi Torzi e quindi rilevato completamente dalla stessa Segreteria di Stato dopo aver realizzato che Torzi aveva tenuto per sé le sole 1000 quote dell’immobile con diritto di voto.
Il secondo è la cosiddetta vicenda Sardegna, e riguarda una donazione di 100 mila euro alla Caritas di Ozieri disposto dal Cardinale Angelo Becciu quando questi era sostituto della Segreteria di Stato. Secondo l’accusa, la donazione – fatto, tra l’altro, usuale in Segreteria di Stato, e a totale discrezione dell’ufficio del sostituto – sarebbe stata disposta per favorire la famiglia dello stesso cardinale e in particolare il fratello Antonino Becciu, che era presidente della SPES, il “braccio” della Caritas di Ozieri.
Terzo filone di accusa riguarda invece Cecilia Marogna, la sedicente esperta di intelligence contrattata dalla Segreteria di Stato perché aiutasse in alcune operazioni di liberazioni di ostaggi, come quella di Suor Cecilia Narvaez in Mali, e che avrebbe utilizzato il denaro ricevuto a fini personali.
Si tratta, come si vede, di tre filoni di inchiesta molto diversi. Nel corso di queste due ultime udienze, i testimoni hanno riguardato la questione dell’immobile di Londra, con l’eccezione di Luigi Rossi, amico di monsignor Mauro Carlino, segretario del sostituto, che ha testimoniato che lo stesso Carlino fosse con lui a Caserta l’1 maggio 2019, e non a Londra per seguire le trattative.
Terry Keeley, ex contabile del gruppo WRM fondato da Raffaele Mincione, ha spiegato di aver avuto diverse proposte per l’immobile di Londra, e di aver solo considerato quella di Fenton Whelan, che “aveva solidità economica” e aveva fatto una offerta di 275 milioni di sterline.
Quindi Giulio Corrado, anche lui in forza della WRM di Mincione, ha spiegato in che modo il valore dell’immobile di Londra era oscillato di prezzo, quali erano le vie alternative per realizzare un profitto, e in che modo si mantenevano rapporti con la Segreteria di Stato. Corrado ha detto anche di essere stato stupito della decisione della Segreteria di Stato di rilevare il controllo delle quote e trasferirle a Gianluigi Torzi, e ha fatto notare che lo stesso Mincione avesse investito personalmente nelle quote dell’immobile (con circa 25 milioni in tre tranches), a testimonianza della bontà dell’investimento.
Come si sa, l’immobile andava ristrutturato, ma il planning permission fu accordato solo alla fine del 2015, con oltre 30 condizioni sospensive. La ristrutturazione andava finanziata con un mutuo del fondo Cheyne Capital, che è poi rimasto in pancia anche nel passaggio alle società di Torzi, e che la Santa Sede ha poi estinto per trovarne uno più vantaggioso.
Ma come si stanno definendo le strategie difensive? La difesa di Mincione punta a mostrare che il palazzo di Londra era un investimento molto buono, che la ristrutturazione avrebbe creato grande profitto, che era un affare così buono che lo stesso Mincione ci aveva investito soldi personali. La Segreteria di Stato lamenta una carenza di informazioni negli accordi, che non avrebbe permesso una decisione serena. L’APSA ha prodotto un documento che mostrava come Fenton Whelan non avesse fatto una offerta congrua, e per questo non vi si era dato seguito. Il promotore di Giustizia sta invece cercando di dimostrare che in realtà il broker Mincione aveva agito in maniera illegittima, senza informare adeguatamente il suo committente.
Da qui, le varie discussioni sul NAV (Net Asset Value) dell’immobile, che comunque è stato venduto a 186 milioni di euro, con una perdita consistente da parte della Santa Sede.
Diversa invece la posizione di Antonino Becciu, che si sarebbe dovuto presentare insieme a don Mario Curzu già l’8 marzo. Non ci sono prove di passaggi di denaro nei confronti di Antonino Becciu, ma di fatto il fratello del Cardinale non ha rinunciato a difendersi, ma ha piuttosto mostrato la debolezza dell’ufficio del Promotore, che chiamandolo a deporre non aveva considerato di questo impedimento dovuto ai parenti più prossimi. Lo stesso ha fatto don Mario Curzu, lamentando il fatto che non ci sono garanzie, nel sistema vaticano, per chi è indagato in Italia e si trova anche a testimoniare in un altro processo. Nessuno dei due aveva niente da nascondere, ma con questa mossa hanno messo in luce le falle del sistema. Non sorprende la risposta piccata del presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone, che in una ordinanza aveva ribadito l’efficienza e le garanzie del sistema vaticano.
Se il sistema difende se stesso, come ha fatto anche negli anni passati rispondendo ai dettagli dei rapporti MONEYVAL che sottolineavano una mancanza di risposta di fronte ai rapporti di transazioni sospette, è anche vero che il copione cui si è assistito fino ad ora, reso ancora più difficile da quattro rescritti di Papa Francesco, lascia molte perplessità sull’andamento del processo stesso.
Resta che la Segreteria di Stato ha compiuto un investimento, lo ha salvato e poi si è ritrovata costretta a cederlo invece che svilupparlo come avrebbe dovuto e potuto. E la rinuncia al guadagno è il vero mistero di questo processo.
https://www.acistampa.com/story/22316/processo-palazzo-di-londra-ammessi-i-nuovi-capi-di-imputazione
Processo Palazzo di Londra, verso la conclusione?
Un cardinale testimone, un altro che verrà il 25 maggio, e poi probabilmente terminerà la fase delle testimonianze del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 13. maggio, 2023 11:00 (ACI Stampa).
Le ultime due udienze del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato vaticana non hanno portato sostanziali novità. È stato interrogato il Cardinale Leonardo Sandri, per fatti che risalgono comunque al periodo in cui era sostituto della Segreteria di Stato vaticana, dal 2000 al 2007. È stato interrogato un funzionario di WRM Capinvest, la società di Raffaele Mincione, il broker che ha avuto in gestione il famoso palazzo di Londra. E c’è stato il ritorno di Roberto Lolato, il consulente del promotore di Giustizia vaticano che ha aiutato a raccogliere alcuni dati, e che è stato richiamato perché ci sono nuovi capi di imputazione che ha aiutato ad analizzare.
Ormai, però, non c’è più molto da aggiungere, con gli interrogatori. E lo stesso Giuseppe Pignatone, presidente del Tribunale Vaticano, ha detto che “siamo agli sgoccioli”, rimandando al 25 maggio il termine ultimo per l’eventuale testimonianza di don Mario Curzu, direttore della Caritas di Ozieri, che era stato convocato insieme al fratello del Cardinale Angelo Becciu, presidente della cooperativa SPES. Non è detto che don Curzu testimoni, alla fine, considerando che Antonino Becciu non si è presentato perché parente prossimo del cardinale, mentre per don Curzu possono ancora valere quelle riserve di “elusione delle garanzie” che nascono dal fatto che sono indagati anche dalla Procura di Sassari, e che, non avendo il processo vaticano altro che la figura dell’imputato e del testimone, i contenuti degli interrogatori potrebbero anche essere riversati nel filone di indagine italiano.
C’è da dire che il presidente del Tribunale Pignatone, in una ordinanza, ha rigettato la mancanza di garanzie del sistema vaticano. Ma è anche vero che si deve valutare anche fino a che punto convenga per un testimone presentarsi all’interrogatorio di un processo documentale.
Prima di entrare in qualche dettaglio delle udienze 57 e 58 del processo, vale la pena ricapitolare in cosa consista il processo.
I tre filoni del processo
Tre sono i tronconi del processo. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, di un immobile di lusso a Londra. L’investimento fu affidato prima al broker Raffaele Mincione, poi al broker Gianluigi Torzi, che però tenne per sé le uniche azioni con diritto di voto. Alla fine, per salvare l’investimento, la Segreteria di Stato decise di rilevare l’intero palazzo, cosa che fece pagando a Torzi una buonuscita per la rilevazione delle quote. L’architetto Luciano Capaldo, già collaboratore di Torzi da cui si sarebbe distaccato perché non ne condivideva i metodi, aveva agito per conto della Segreteria di Stato nelle discussioni che hanno portato a rilevare il palazzo. L’avvocato Shantanu Sinha aveva assistito le operazioni per conto dello studio legale Mishcon de Reya, e aveva consigliato alla fine di non adire a vie legali, ma piuttosto a trovare un accordo con Torzi. Da questi ruoli, la rilevanza delle loro testimonianze.
Il cosiddetto filone “Sardegna” del processo vede il Cardinale Angelo Becciu sotto accusa per un presunto peculato che avrebbe avuto luogo quando questi era sostituto della Segreteria di Stato, con l’erogazione di denaro alla Caritas di Ozieri, diretta da don Mario Curzu, che li avrebbe poi dovuti devolvere alla cooperativa Spes, diretta da Antonino Becciu - in realtà, è ancora bloccata sul conto Caritas in attesa di essere impiegata per la costruzione della cittadella.
E poi c’è il filone Cecilia Marogna, la sedicente esperta di intelligence che si offrì di lavorare con la Santa Sede prestando i suoi servizi anche per la liberazione di ostaggi, come suor Cecilia Narvaez, rapita in Mali. Il pagamento di un riscatto è effettivamente avvenuto, ma non per conto di Marogna, accusata di essersi appropriata dei fondi vaticani per uso personale.
Delineare i contorni
Le due udienze sono servite soprattutto ad alcune difese per delineare i contorni e fornire un contesto che permetta di meglio situare le situazioni. Da qui, l’interrogatorio di Gianluigi D’Andria, funzionario della WRM di Raffaele Mincione, che fu coinvolto anche nel passaggio della gestione dell’immobile di Londra dalla società Athena alla società GUTT di Gianluigi Torzi.
Da parte della difesa di Mincione, c’è la volontà di mostrare che non ci fu alcun tipo di truffa ai danni della Segreteria di Stato, che anzi il palazzo di Sloane Avenue era un investimento così valido che perfino lo stesso Mincione, in tre casi differenti, ci investì dei soldi personalmente, e che comunque il compenso pattuito per il passaggio della gestione non solo era congruo, ma era persino al di sotto di quello che sarebbe dovuto essere.
La Segreteria di Stato, da parte sua, cerca di mostrare di non aver avuto tutte le informazioni necessarie, e perlomeno vuole scrollare ogni sospetto di un possibile accordo tra Torzi e Mincione nel passaggio della proprietà ai danni della Segreteria di Stato, mostrando anche una conoscenza tra i due. Conoscenza, alla fine, mai negata, avendo i due l’ufficio vicino a Londra, ma che comunque non prova un interesse, e che anzi potrebbe persino mostrare una diffidenza dello stesso Mincione nei confronti di Torzi.
L’escussione di D’Andria è stata piuttosto tecnica, si è soffermata su diversi passaggi di valutazioni monetarie, ha ribadito alcuni concetti già definiti nelle altre deposizioni precedenti. D’Andria ha detto che c’era un contatto periodico con la Segreteria di Stato, che veniva aggiornata anche sul Net Asset Value dell’immobile. Il punto è se poi le affermazioni del broker verranno messe a contesto. In molti casi, sembra che le accuse non considerino nemmeno le normali prassi di mercato, che – per esempio – includono anche un pagamento per quanti introducono all’affare, da calcolare su una percentuale sulle fees. Poi, si può discutere della moralità o dell’opportunità di alcune scelte, ma altra cosa è dare a queste scelte i contorni di un crimine.
Il Cardinale Sandri
Sostituto della Segreteria di Stato dal 2000 al 2007, il Cardinale Leonardo Sandri ha invece testimoniato sulla procura concessa a Fabrizio Tirabassi, officiale dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato vaticana, perché agisse nell’interesse della Segreteria in UBS, banca svizzera in cui c’erano degli investimenti.
La chiamata del cardinale Sandri a testimoniare nasce come conseguenza dei nuovi capi di accusa formulati nei confronti di Tirabassi, messo sotto la lente di ingrandimento per le cosiddette “retrocessioni” che avrebbe ricevuto da UBS in virtù del suo ruolo.
Sandri ha riconosciuto di aver firmato la procura, ha detto che Tirabassi era stato scelto perché considerato uomo di fiducia e uomo vaticano, figlio di officiale vaticano, e che ci si aspettava che avrebbe fatto il meglio per il bene della Santa Sede.
C’è una clausola, nel contratto della procura, che parla di “volume discounts” erogati da UBS, che Sandri ha detto si immaginava fossero “in favore di quello che ha dato la procura, e non per lui stesso”. Di fatto, sarà da definire se Tirabassi abbia avvisato di queste erogazioni. Ma il clima nei suoi confronti non era ostile, anche perché Tirabassi ebbe anche un nullaosta per iscriversi all’Ordine dei Dottori Commercialisti, firmato dall’allora responsabile dell’Ufficio Amministrativo, monsignor Gianfranco Piovano, e siglato dal porporato. “Abbiamo sempre favorito la crescita professionale dei nostri dipendenti”, ha detto il Cardinale Sandri.
La procura non fu poi rinnovata quando a guidare l’ufficio amministrazione della Segreteria di Stato arrivò monsignor Alberto Perlasca, nel 2009. Di quello che successe tra il 2007 e il 2009 parlerà il Cardinale Fernando Filoni, sostituto in quegli anni, nell’udienza del prossimo 25 maggio.
Prossimi appuntamenti
Con il Cardinale Filoni, potrebbe essere ascoltato don Mario Curzu, mentre il 26 maggio saranno interrogati gli ultimi testi in lista, e anche quelli chiesti dalla difesa di Mincione per i nuovi casi di imputazione. C’è anche una coda di udienza il 13 giugno, mentre sono fissate al 22 maggio le ultime richieste per l’istruttoria. Poi, si comincerà a entrare nel vivo del processo, orientandosi verso la conclusione. Nel dibattito tra difese e accuse, riemergeranno probabilmente anche le contraddizioni e le tensioni che si sono verificate durante questo processo. Colpisce che ormai molti dei capi di accusa iniziali sembrino essere messi da parte. E, d’altronde, la “super-testimonianza” di monsignor Alberto Perlasca non viene più ormai nemmeno citata, dopo che venne fuori anche la manipolazione che aveva subito lo stesso monsignore a seguito degli interrogatori Ciferri – Chaouqui. C’è stata poi la testimonianza dell’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato, che ha provveduto a chiarire diverse posizioni, arrivando a spiegare che il Papa era a conoscenza di tutto, e che tutto è stato fatto in concerto con il Santo Padre e per salvare l’investimento. Anzi, si è notata anche una tensione Segreteria di Stato – IOR, considerando che lo IOR rifiutò alla Segreteria di Stato un anticipo che avrebbe permesso di rinegoziare il mutuo in maniera più vantaggiosa.
Insomma, il quadro accusatorio sembra drammaticamente cambiato. Resta defilata la posizione di Cecilia Marogna, i cui legali si sono presentati raramente durante le udienze, tanto che il presidente del Tribunale ha invitato almeno a nominare un sostituto.
https://www.acistampa.com/story/22494/processo-palazzo-di-londra-verso-la-conclusione
Processo Palazzo di Londra, l’amarezza della difesa Becciu
Non ammessa la richiesta di fornire le chat e liberare gli omissis di alcune conversazioni della difesa Becciu. Superate le eccezioni, si va avanti con il processo
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 27. maggio, 2023 11:00 (ACI Stampa).
L’amarezza del Cardinale Angelo Becciu arriva in una dichiarazione spontanea che mette in luce come da una parte ci sia difficoltà, da parte della sua difesa, ad ottenere prove, non avendo il tribunale ammesso la richiesta di “sbloccare” gli omissis delle chat tra Genevieve Ciferri e lo stesso promotore di Giustizia Alessandro Diddi; dall’altro, la presenza di una trama che avrebbe portato, nelle parole del cardinale, “portato a strumentalizzare il Papa”.
Sono parole dure, che arrivano a seguito di una complessa ordinanza di Giuseppe Pignatone, presidente del Tribunale Vaticano, chiamato a rispondere ad eccezioni varie, ma soprattutto alla richiesta, da parte della difesa Becciu, l’intera chat inoltrata al promotore di Giustizia Alessandro Diddi da Genevieve Ciferri, ma anche degli interrogatori di monsignor Perlasca al promotore di Giustizia, anche quellli con omissis.
Il processo
Ma per comprendere tutto serve fare un passo indietro. A partire proprio dal tema del processo, che coinvolge genericamente la gestione dei fondi della Segreteria di Stato vaticana. Un filone riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, sulle quote di un immobile di lusso a Londra, dato in gestione prima al broker Raffaele Mincione, poi a Gianluigi Torzi, e poi riacquistato dalla Segreteria di Stato quando ha compreso di non avere il controllo dell’immobile, rimasto a Torzi che aveva tenuto per sé le uniche azioni con diritto di voto. Il secondo filone riguarda la vicenda Sardegna, con accuse di peculato rivolte al Cardinale Angelo Becciu riguardo il tempo in cui era sostituto della Segreteria di Stato, quando destinò una somma alla Caritas di Ozieri per un progetto della cooperativa SPES – soldi tra l’altro rimasti in pancia alla Caritas perché vincolati alla realizzazione del progetto. E il terzo filone riguarda Cecilia Marogna, la sedicente esperta di intelligence che collaborò con la Segreteria di Stato in alcune circostanze e che avrebbe poi utilizzato le cifre destinate dalla Santa Sede alle missioni per le sue spese personali.
Il (non più?) super testimone
C’è stato, fino a gennaio, un super testimone, ed era monsignor Alberto Perlasca, a capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato per dodici anni. Inizialmente indagato, e poco intenzionato a collaborare, Perlasca aveva poi deciso spontaneamente di farsi interrogare dai magistrati vaticani, in altri tre interrogatori avvenuti senza il suo avvocato, diventando così un testimone chiave dell’accusa.
Fatto sta che dallo scorso gennaio di Perlasca non si parla più. Un po’ perché il processo si stava dedicando ad altri testimoni, cercando di mantenere un ritmo serrato perché sia compiuta la promessa di chiudere tutto entro Natale. E un po’ perché la testimonianza di Perlasca venne inficiata dagli interrogatori a Genevieve Ciferri, sua amica di famiglia, che aveva suggerito a Perlasca la strategia da tenere; e a Francesca Immacolata Chaouqui, già membro della Commissione vaticana per lo studio dell’organizzazione economica amministrativa della Santa Sede (COSEA), e processata e condannata in Vaticano nell’ambito del cosiddetto processo Vatileaks 3. In pratica, era venuto fuori che Chaoqui suggeriva a Ciferri cosa a sua volta suggerire a monsignor Perlasca. Fu proprio Ciferri a contattare il promotore di Giustizia Alessandro Diddi, attraverso messaggi whatsapp con lunghe spiegazioni che sono agli atti.
Ma sono agli atti con vari omissis, che non permettono a volte di comprendere il tono della conversazione. Così come sono agli atti gli interrogatori di Perlasca, il grande accusatore, ma anche quelli con vari omissis.
In particolare, Diddi ha omesso 120 messaggi su 126 di quelli che gli sono stati inviati via whatsapp da Genevieve Ciferri. Secondo i legali (tutte le difese si sono associate all’istanza), ormai è trascorso abbastanza tempo da aver superato il segreto istruttorio, e quei messaggi potrebbero persino chiarire i “punti di discontinuità” tra la testimonianza scritta del 31 agosto 2020 di monsignor Perlasca e la testimonianza dello stesso monsignore il 26 aprile 2020.
La difesa Becciu ha chiesto che gli omissis vengano sbloccati, per poter meglio impostare la difesa. Il promotore di Giustizia afferma che ci sono, su quelle chat, altre indagini in corso, e che dunque non si può rompere il segreto istruttorio. E, nell’ordinanza, il presidente Pignatone ha fatto sapere che non si può contestare questa “insindacabile” dichiarazione del promotore di Giustizia, e si dovrà capire tutto ex post.
Il commento del Cardinale Becciu e dei suoi avvocati
È qui che si innesta il commento amaro del Cardinale Becciu, che ricorda come “la difesa rimane mortificata, non può esercitare completamente il diritto di difesa se non ha tutto il materiale”. E tra l’altro, aggiunge, “si è chiesto di far chiarezza su questa vicenda, sulla vicenda di questi tre signori che, loro stessi, hanno detto di aver tramato contro di me. È una trama che hanno fatto. Addirittura questa trama ha portato a strumentalizzare il Papa. Si son serviti del Papa per portare avanti un piano vendicativo nei miei riguardi. Non capisco perché non si faccia chiarezza su questo aspetto”.
E aggiunge il Cardinale che i tre (ovvero Perlasca, Chaouqui, Ciferri) sono “tranquilli, liberi, e io sono da tre anni in questa sofferenza, sotto l’incubo di queste accuse che si stanno rivelando false. Io esprimo la mia amarezza perché non si fa chiarezza su questa vicenda, perché è un’offesa allo stesso Santo Padre”.
Conclude il Cardinale: “Non ci si può servire del Santo Padre per mandare avanti un piano così doloso come la vendetta, cosa che è stata fatta nei miei riguardi. Quindi io continuo a mantenere la mia fiducia nel Tribunale e spero che la verità emerga fino in fondo. Però il non indagare su questa vicenda mi lascia piuttosto perplesso”.
Gli avvocati Fabio Viglione e Maria Concetta Marzo, che difendono il Cardinale, hanno invece fatto sapere che “con l’ordinanza di oggi il Tribunale ha preso atto della valutazione dell’Accusa di non mettere a disposizione dei Giudici e delle difese, per esigenze di segretezza investigativa, l’intera chat inoltrata al Promotore e relativa alle genesi e alla progressione delle dichiarazioni rese da Monsignor Perlasca. Anche per il mancato deposito delle parti omissate degli interrogatori del Monsignore, risalenti a tre anni fa, il Tribunale ha rilevato la scelta del Promotore, ritenendola insindacabile”.
Gli avvocati sottolineano di prendere atto della decisione, “così come del fatto che la scelta del Promotore ci consegna una prova mutilata che, al contrario, ove esibita integralmente, avrebbe consentito di ricostruire con maggiore dettaglio la macchinazione ai danni del Cardinale, la cui innocenza il processo ha dimostrato”.
La questione degli omissis
La questione degli omissis non è nuova, così come non è un fatto nuovo che le difese facciano notare che c’è una difficoltà ad esercitare il diritto di difesa, che nasce dalla presenza degli omissis, ma anche – come era stato fatto notare ad inizio processo – dal sostanziale cambiamento delle regole del processo avvenuto con quattro rescritti di Papa Francesco mentre le indagini erano in corso.
Da parte sua, il Tribunale ha sempre cercato di sottolineare la totale conformità del processo vaticano ad ogni processo di Stati moderni, rigettando ogni accusa, ma allo stesso tempo mostrando molta volontà di permettere a tutte le parti di difendersi.
Certamente, in queste sessanta udienze, il sistema giudiziario vaticano sembra essere scricchiolato di fronte ad una serie di situazioni che ne hanno mostrato la fragilità. Ma anche la riforma del sistema giudiziario vaticano, arrivata ad appena tre anni dalla riforma che recepiva anche alcune richieste del comitato Moneyval del Consiglio d’Europa, rischia di rendere ancora più fragile il sistema giudiziario vaticano. C’è un aspetto internazionale, in questo processo, che forse viene poco stimato, e che potrebbe vedere la Santa Sede sotto accatto per ciò che avviene proprio nel suo stato. Non una situazione ideale.
Non testimonia don Mario Curzu
Mentre il Tribunale ha dichiarato illegittima l’assenza di don Mario Curzu, direttore della Caritas di Ozieri, che prima aveva deciso di non testimoniare perché oggetto di indagine anche a Sassari, e non sicuro delle tutele che la Santa Sede avrebbe attuato nei suoi confronti. Poi, dopo una ordinanza che ribadiva che il processo vaticano ha tutte le garanzie, non si è presentato alle due udienze successive, e il 25 maggio ha inviato una dichiarazione in cui spiegava di non essersi presentato “per impegni pastorali particolarmente intensi”.
Il presidente del Tribunale, con un’ordinanza, ha trasmesso gli atti all’Ufficio del promotore di Giustizia per procedere contro il sacerdote, per il reato di rifiuto di uffici legalmente dovuti. Ha dichiarato “illegittima” la sua assenza e “pretestuosa” la giustificazione riportata, non essendo “legittimo impedimento”, dopo i precedenti e ripetuti rifiuti a presentarsi.
C’è da dire che don Curzu non è l’unico a non essersi presentato. La difesa di Enrico Crasso, il broker che ha curato per anni gli investimenti della Segreteria di Stato, ha chiesto che quattro testimoni fossero costretti a testimoniare con rogatoria. In Vaticano, infatti, non andare a testimoniare equivale ad una falsa testimonianza per omissione. Ma in quel caso Pignatone ha fatto sapere che anche lo strumento rogatoriale potrebbe non essere sufficiente, e che comunque quelle testimonianze possono essere acquisite con prove documentali. Scelta legittima, ma che non fa comprendere perché solo il rifiuto di don Curzu sia considerato illegittimo.
La testimonianza del Cardinale Fernando Filoni
Come detto, il processo ha diversi tronconi. In uno di questi tronconi si inserisce anche la vicenda di Fabrizio Tirabassi, officiale della sezione amministrativa della Segreteria di Stato, sul quale sono state formulate nuove accuse anche riguardo le fees che riceveva da UBS, banca con cui la Santa Sede aveva investimenti e alla quale era stato mandato come procuratore della Segreteria di Stato.
È anche per questo che, dopo il cardinale Sandri, è stato sentito il Cardinale Fernando Filoni, che era succeduto a Sandri come sostituto della Segreteria di Stato, rimanendo nell’incarico tra il 2007 e il 2011.
Filoni ha reso testimonianza per appena dieci minuti, confermando di aver conferito a Tirabassi l’incarico di procuratore, e che si aspettava che lo stesso Tirabassi “visto che era nostro impiegato, da noi stipendiato, operasse a favore della Segreteria di Stato”.
Filoni ha detto di essere a conoscenza della clausola della procura che prevedeva discounts (retrocessioni) come retribuzione dalla banca per gli investimenti che faceva, e non sapeva né in cosa consistessero, né l’ammontare, e che se ne avesse saputo l’alto ammontare avrebbe contestato la cosa.
La difesa di Tirabassi ha fornito la documentazione di altre procure della Segreteria di Stato a soggetti terzi che prevedevano compensi anche rilevanti per colui che veniva nominato procuratore.
Le richieste di Torzi, l’interrogatorio di Mincione
I legali di Torzi hanno chiesto che il loro assistito sia ascoltato a distanza, dagli Emirati Arabi, vista l’impossibilità dello stesso di presentarsi per il mandato di cattura italiano che pende sul suo capo. Richiesta respinta da Pignatone, che ha ricordato come questo mandato di cattura non fosse pendente già la prima volta che è stato chiamato a testimoniare.
È stato di nuovo escusso, poi, il broker Raffaele Mincione. Questi ha negato aver mai offerto vantaggi indebiti a Crasso e Tirabassi e ha detto che anzi dal 2015 i suoi rapporti con Crasso non erano molto buoni.
Mincione ha negato di aver ricevuto sollecitazioni per provvigioni, nemmeno tramite la Aspigam di Ivan Simetovic che, ha spiegato il broker, è un procacciatori di affari che ha operato prima per Mediobanca, proponendo diversi affari proprio in questa sua posizione, incluso l’investimento di 200 milioni.
Mincione ha confermato, dunque, di aver versato 2,1 milioni di euro come comissione a Simetovic per l’affare che ha portato Athena Capital ad acquistare le quote del palazzo di Londra. Simetovic vorrebbe altri 1,9 milioni con un contratto di consulenza il 21 aprile 2015. È noto che l’investimento iniziale poteva essere destinato ad una società petrolifera in Angola, e che poi questo investimento era stato sconsigliato dallo stesso Mincione, che aveva ricevuto poi da monsignor Perlasca l’incarico di reinvestire il denaro. Mincione ha anche detto che di aver saputo solo il 10 maggio nel contratto con Aspigam era previsto che parte delle commissioni andassero a un sub-introducer, e cioè Enrico Crasso. L’email è stata contestata dalla difesa Crasso, che ha chiesto fosse dichiarata inutilizzabile. Pignatone ha convenuto.
Mincione ha anche confermato di aver chiesto al suo collaboratore WRM Capinvest Gianluigi D’Andria, sentito come teste l’11 maggio, di inviare il 19 dicembre 2018 a Gianluigi Torzi, una mail con il rendiconto di tutte le spese sostenute dal Fondo Athena Capital, come le commissioni per l’Aspigam.
Per Mincione, si trattava di “una email difensiva” dalle calunnie che riceveva da Crasso e Perlasca per le sue richieste, e serviva proprio a giustificare le richieste “vista la forte sfiducia che c’era in Segreteria di Stato” nei suoi confronti.
L’accusa contesta a Mincione di aver anche compensato Crasso per aver convinto Credit Suisse a investire nel fondo Athena, ma Mincione ha notato che Crasso era consulente di Credit Suisse Italia senza ruolo deliberativo.
Al termine dell’interrogatorio, il promotore Diddi ha depositato, come richiesto ad ottobre 2022 dai legali di Becciu, il resoconto di tutti i finanziamenti erogati, tra il 2004 e il 2020 dall’Istituto per le Opere di Religione alla Segreteria di Stato.
I prossimi appuntamenti
Inizierà nel pomeriggio del 18 luglio la presentazione delle richieste dell’accusa al processo in corso in Vaticano sull’utilizzo dei fondi della Segreteria di Stato. Il promotore di Giustizia Alessandro Diddi che ha chiesto sei udienze, fino al 26 luglio. Dal 27 settembre sarà dato spazio ai legali di parte civile e da metà ottobre alle difese degli imputati. La prossima udienza avrà invece luogo il 13 giugno, e potrebbe chiudere la fase dibattimentale.
https://www.acistampa.com/story/22600/processo-palazzo-di-londra-lamarezza-della-difesa-becciu
Processo Palazzo di Londra, verso la requisitoria del promotore di Giustizia
Con una udienza di tipo procedurale, si chiude il dibattimento del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. La testimonianza di Torzi non ammessa per quanto riguarda le terze parti
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 17. giugno, 2023 11:00 (ACI Stampa).
No, non potranno essere usate né le testimonianze di Gianluigi Torzi né il suo memoriale nel delineare l’accusa su altri imputati riguardo la gestione dei fondi della Segreteria di Stato in quello che è stato il famoso affare del palazzo di Londra. La decisione del Tribunale vaticano arriva al termine della 61esima udienza, che si è tenuta il 13 giugno, e che ha riguardato soprattutto aspetti procedurali.
Si va ora verso la requisitoria del promotore di Giustizia Alessandro Diddi, che si terrà in 5 udienze con possibilità di una sesta, nella maggior parte dei casi a disposizione per una giornata intera. Diddi dovrà delineare la sua ricostruzione dei fatti e spiegare il perché dei capi di imputazione dei dieci imputati e quattro società, che però riguardano tre diversi filoni di indagine.
I tre processi in uno
Il primo, e più grande, è quello che riguarda l’investimento della Segreteria di Stato in un immobile di lusso a Londra. I fondi erano stati dirottati da quello che poteva essere un investimento petrolifero in Angola. La gestione di quei fondi, utilizzati per acquistare le quote degli ex magazzini Harrods a Londra, nel cuore della città, erano state affidate al broker Raffaele Mincione. Quindi, la Segreteria di Stato aveva deciso di togliere la gestione a Mincione e affidarla ad un altro broker, Gianluigi Torzi, che aveva però tenuto per se le uniche mille azioni con diritto di voto dell’immobile. Da qui, la decisione della Segreteria di Stato di acquistare direttamente l’immobile, gravato anche da un mutuo. Per riprendere il controllo del palazzo, la Santa Sede aveva versato 15 milioni a Torzi, che l’accusa considera estorsione. Poi, la Santa Sede aveva cercato di “ristrutturare” l’investimento e chiesto un prestito all’Istituto per le Opere di Religione, che prima lo aveva accordato e poi rifiutato. Il palazzo è stato poi venduto a Bain Capital 186 milioni, con un valore inferiore a quello che sarebbe stato se si fosse sfruttato l’investimento. Infatti, il valore del palazzo è già aumentato.
Poi c’è il filone di processo che riguarda il Cardinale Angelo Becciu, accusato di peculato perché, da sostituto della Segreteria di Stato, ha accordato una donazione di 125 mila euro alla Caritas di Ozieri che li avrebbe destinati alla cooperativa SPES diretta dal fratello per il progetto di un forno che avrebbe creato lavoro. La donazione era vincolata al progetto, ed è ancora “in pancia” alla Caritas di Ozieri. La questione è anche oggetto di indagine della Procura di Sassari, e infatti inizialmente Antonino Becciu e don Mario Curzu avevano rifiutato di presentarsi davanti ai giudici anche per il rischio che la loro testimonianza fosse utilizzata per le indagini in Italia, lamentando che il processo vaticano non dà tutte le garanzie del caso. Antonino Becciu poi non è stato sentito anche perché parente stretto dell’imputato, e per questo non tenuto, mentre don Curzu ha ricevuto persino una intimazione del tribunale jn una ordinanza che sottolineava come la sua assenza fosse non giustificata – provvedimento mai avvenuto per i diversi altri testimoni che non si sono mai presentati.
Infine, c’è il filone che riguarda l’ingaggio della sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna per aiutare la Segreteria di Stato in alcune operazioni di liberazione testimoni, come quelle di Suor Cecilia Narvaez, la missionaria colombiana rapita in Mali e rilasciata solo due anni dopo. Per lei, l’accusa è di aver usato il denaro per acquisti personali, e non per il motivo per cui era stato erogato.
La inutilizzabilità delle dichiarazioni di Torzi
Questa premessa è necessaria per comprendere in che modo le decisioni “procedurali” del tribunale vanno ad impattare sul processo stesso.
Come si ricorderà, il broker Gianluigi Torzi era stato chiamato a rendere testimonianza in Vaticano, e si era ritrovato arrestato. Interrogato, sempre alla presenza del suo avvocato, e quindi rilasciato. Aveva prodotto un memoriale. Per via di un procedimento nei suoi confronti, non è mai tornato in Italia né si è mai fatto interrogare, come hanno fatto gli altri imputati. Ha chiesto di poter essere sentito in video conferenza, ma questo non è stato ammesso. Ora è negli Emirati Arabi.
Solo che, hanno fatto notare alcuni avvocati, nel suo memoriale e nei suoi interrogatori in Vaticano, tutti verbalizzati, Torzi aveva anche prodotto precise accuse contro alcuni degli imputati, e questo succede anche nel memoriale. Ma queste accuse non sono state controprovate, non c’è stata possibilità di controinterrogatorio. C’è bisogno almeno di una conferma formale delle dichiarazioni da parte dell’imputato. Il presidente del Tribunale, Giuseppe Pignatone, ha convenuto. Dunque, le dichiarazioni di Torzi riguardo gli altri imputati non potranno essere usate nelle requisitorie del promotore di Giustizia. L’ufficio del promotore di Giustizia si è ovviamente riservato di impugnare l’ordinanza. Anche perché, c’è da dire, che le dichiarazioni di Torzi davano sostanza a parte dell’impianto di accusa.
Il no alla richiesta di ulteriore documentazione
Il Tribunale aveva chiesto anche alla Segreteria di Stato di produrre i contratti originali di gestione dei fondi con le varie entità che erano state coinvolte. La Segreteria di Stato, che si è costituita parte civile, ha fatto sapere che no, quei contratti non si trovano. La difesa di Mincione ha controbattuto che quei contratti possono essere acquisiti anche attraverso la controparte, e ha invitato il tribunale a chiedere rogatorie internazionali ai cinque enti con cui si erano stabiliti i rapporti. Mincione, infatti, fa notare di aver sempre gestito i fondi attraverso altre entità, che a loro volta avevano contratti di gestione con la Segreteria di Stato. Il tribunale ha risposto no alla richiesta. Di fatto, la Segreteria di Stato potrebbe chiedere i contratti alla controparte senza bisogno di rogatoria.
Come ha risposto no alla richiesta della difesa del Cardinale Becciu di produrre i bilanci delle 16 entità economiche della Santa Sede a partire dal 2004 ad oggi. La richiesta era stata definita “dilatoria” dal promotore di Giustizia, ma aveva un suo perché. In pratica, sia la testimonianza del Cardinale Becciu che quella dell’attuale sostituto, l’arcivescovo Edgar Pena Parra, ha fatto notare come i bilanci della Curia, sempre in rosso, fossero portati in attivo grazie anche alle donazioni dell’Istituto per le Opere di Religione, che le prendeva dai profitti. Donazioni che sono sempre andate a scendere.
Diddi aveva prodotto questi bilanci a partire dagli ultimi anni, ma mancava un vero “record” storico che permetteva anche di vedere in che modo sarebbero state coperte le perdite. Di fatto, le donazioni dello IOR alla Santa Sede sono diminuite a partire dalla nuova gestione dello IOR nel 2014, che ha visto i profitti crollare: si è andati dagli 86,6 milioni di profitto del 2012, che hanno reso una donazione alla Santa Sede di ben 50 milioni, a un profitto di 18,1 milioni di euro del 2022, con picchi al ribasso anche di 17,5 milioni.
Alla fine, si utilizzavano anche i fondi dell’Obolo di San Pietro, il cui scopo principale è sempre stato quello di aiutare la Santa Sede. Tra l’altro, la Segreteria di Stato aveva un conto “Obolo”, che era un conto di gestione, in cui erano confluite più voci alla fine.
Insomma, la richiesta delle difese aveva lo scopo di fare chiarezza su questa gestione di fondi e su come i bilanci in sofferenza venissero aggiustati. Vero è che i bilanci dello IOR sono pubblici e sul sito dal 2013. Vero anche che, per esempio, il Governatorato dello Stato di Città del Vaticano non pubblica un bilancio dal 2016. Anche gli utili del Governatorato erano utilizzati per aiutare la Santa Sede – va considerato che il governatorato gestisce i Musei Vaticani, che è una macchina di utili.
Pignatone, però, ha respinto la richiesta, considerando che la documentazione è già sufficiente.
Una nota a margine, che riguarda sempre il processo. L’ultimo bilancio dello IOR, pubblicato la scorsa settimana, certifica un dimezzamento del patrimonio liquido, con un TIER 1 che ammonta a poco più della metà di quello che c’era al tempo in cui la Segreteria di Stato chiedeva un anticipo per risolvere il mutuo del palazzo di Londra. Anticipo, va detto, che veniva restituito con interesse, e che avrebbe dato un risparmio alla Segreteria di Stato, e un guadagno allo IOR. Sembra, dunque, difficile da capire la decisione istituzionale dello IOR di non aiutare l’ente sovrano, e piuttosto di segnalarlo, quando c’erano sia le risorse che le potenzialità di guadagno.
Il no alla richiesta di sentire i consulenti
Le difese si sono avvalse di molti consulenti tecnici, e la richiesta è stata quella di poter sentire anche la loro testimonianza. Anche a questa richiesta, il tribunale ha opposto un diniego. Pignatone, nella sua ordinanza, ha notato che comunque è stato sentito il consulente del Promotore di Giustizia, il dottor Roberto Lolato, e che a questo punto, dato che le relazioni tecniche sono state comunque depositate, sentire i consulenti potrebbe anche mettere in difficoltà le difese. Una scelta, insomma, a tutela della difesa, almeno secondo il tribunale.
Verso le requisitorie
Si va con queste ultime decisioni alla requisitoria del Promotore di Giustizia, che chiuderà questa fase processuale, in attesa della ripresa dopo giugno. Restano molti nodi da sciogliere, a partire dall’assenza dei contratti di gestione in Segreteria di Stato. E sarà da vedere come il promotore di Giustizia riuscirà a definire il suo impianto accusatorio senza utilizzare le dichiarazioni rese da Torzi. Restano anche da definire i ruoli di alcuni personaggi che non sono imputati, ma che hanno gravitato intorno alla storia.
Alla fine, però, ci si trova un cardinale alla sbarra con accuse tutte da verificare; un processo che è stato comunque influenzato nelle procedure da quattro rescritti di Papa Francesco; e una Segreteria di Stato che ha cercato di proteggere l’investimento, e si è trovata però di fatto espropriata di ogni indipendenza di gestione. Senza contare quanti hanno perso il lavoro o la reputazione, e che difficilmente la recupereranno se il processo andrà comunque bene per loro. E senza contare le conseguenze che questo processo può avere sul fronte internazionale, considerando che la Segreteria di Stato è impegnata in un processo a Londra, e che la stessa conduzione delle indagini aveva portato a tensioni con controparti finanziarie come l’Egmont Group.
Processo Palazzo di Londra, cosa c'è, cosa non c'è nella prima parte di requisitoria
A metà della requisitoria del promotore di Giustizia, permangono le domande sul processo e sulla costruzione delle prove. Secondo Diddi “l’impianto accusatorio ha retto”. È davvero così?
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 22. luglio, 2023 11:00 (ACI Stampa).
No, non è un processo contro la Segreteria di Stato. No, monsignor Alberto Perlasca non è un supertestimone. No, l’ufficio del Promotore di Giustizia non ragiona per teoremi, ma solo per prove. In tre giorni di requisitoria, a metà del guado che porterà poi alla richiesta delle condanne e traghetterà verso il lungo periodo dedicato a parti civili e arringhe difensive, il promotore di Giustizia vaticano Alessandro Diddi si è dedicato più a decostruire che a costruire. A smentire ogni singolo dubbio, velato o meno, che ci fosse stato sulla sua ricostruzione di ciò che è successo. A concedere su questioni minime, ma senza scontare nulla su quelli che pensa che siano stati i fatti. “L’impianto accusatorio – dice – ha retto”.
È una requisitoria aggressiva, che tiene conto delle testimonianze solo in pochi casi, ma che si sarebbe in realtà potuta tenere tale e quale tre anni fa, seguendo quanto scritto nel rinvio a giudizio.
Il processo
Il processo, come è noto, tratta tre filoni, tutti genericamente riconducibili alla “gestione di fondi” della Segreteria di Stato, e allo stesso tempo tutti diversi.
Primo filone, più importante: l’investimento della Segreteria di Stato su un palazzo di lusso a Londra per circa 200 milioni di euro, dato prima in gestione al broker Raffaele Mincione, poi al broker Gianluigi Torzi che aveva tenuto per sé le uniche mille quote dell’immobile con diritto di voto, e quindi era stato rilevato dalla Segreteria di Stato pagando a Torzi il valore delle quote, con una operazione che l’accusa qualifica come estorsione. La Santa Sede ha poi venduto il palazzo senza mettere in atto le operazioni di sviluppo previste, a un prezzo al di sotto del valore di mercato e con una perdita, secondo il promotore di Giustizia, che va dai 139 ai 189 milioni di euro.
Il secondo filone riguarda la destinazione di fondi della Segreteria di Stato per un valore di 125 mila euro alla Caritas di Ozieri in Sardegna, diocesi di origine del Cardinale Angelo Becciu. Il denaro è stato destinato dalla Caritas alla SPES, una cooperativa legata alla Caritas che fa opere sociali e che stava costruendo un panificio per creare lavoro. Il reato sarebbe quello di peculato, perché secondo l’accusa Becciu avrebbe utilizzato il denaro della Segreteria di Stato per fini personali e allo scopo di arricchire la sua famiglia.
Il terzo filone riguarda invece l’ingaggio, da parte della Segreteria di Stato, di Cecilia Marogna, sedicente esperta di intelligence che sosteneva di collaborare alla liberazione di alcuni ostaggi, tra cui quello di Suor Cecilia Narvaez, la suora colombiana che fu rapita in Mali nel 2017. La donna, secondo l’accusa, avrebbe speso per sé denaro da lei destinato dalla Segreteria di Stato per concludere le operazioni di liberazione.
Una premessa
Prima di addentrarsi in alcuni dei temi trattati nelle ultime tre udienze, senza entrare troppo nei dettagli, ma fornendo una spiegazione a grandi linee di quello che è stato detto, vale la pena chiarire quello su cui il promotore di Giustizia Diddi ha cambiato idea.
Prima di tutto, ed è la cosa più importante, la Santa Sede non utilizzava l’Obolo di San Pietro per effettuare gli investimenti.
Questo era stato chiarito durante gli interrogatori. La Santa Sede aveva un “Fono Obolo”, dove però non convergevano più le donazioni dell’Obolo di San Pietro, ed era piuttosto in cui convergeva il denaro di varie operazioni differenti. Per il Promotore di Giustizia, tuttavia, non è quello il punto. È piuttosto il fatto che l’Obolo non sarebbe bastato, e che anzi era lo IOR a contribuire notevolmente alle spese della Curia.
Anche qui, andrebbero letti bene i bilanci. Lo IOR è arrivato a dare un massimo di 50 milioni di euro per la sede apostolica, tirandoli fuori dai suoi profitti, che erano arrivati nel 2012 ad essere di 86,6 milioni di euro. Poi, questi profitti sono scesi, e così anche il contributo della Curia. Nel 2016, quando c’è stato l’ultimo bilancio pubblico del governatorato, era evidente che le spese della Curia erano coperte in parte anche dagli utili del governatorato, che ha ingenti entrate grazie agli ingressi nei Musei vaticani.
Insomma, né il contributo dello IOR né il contributo dell’Obolo erano decisivi per tenere in piedi quello che è stato chiamato “bilancio di missione”. Anzi, i contributi dello IOR e dell’Obolo erano fortemente influenzati dai profitti nel primo caso e dalla raccolta nel secondo.
Il promotore di Giustizia, però, accetta in toto la narrativa della cosiddetta “banca vaticana”. E non considera un secondo fatto: la Santa Sede ha sempre diversificato gli investimenti, la Segreteria di Stato ha attuato questa politica dagli anni Trenta, e solo il motu proprio recente di Papa Francesco Il Diritto Nativo ha messo fine a questa politica di salvaguardia del patrimonio e di investimento.
Basta però vedere le varie storie della finanza vaticana redatte nel corso degli anni per rendersi conto che l’investimento di Londra era in linea con altri investimenti che erano in portafoglio della Segreteria di Stato. Il processo punta il dito contro l’investimento, considerato “speculativo”. Si tratta di comprendere cosa vada effettivamente definito speculazione.
La seconda cosa su cui Diddi ha cambiato idea è il presunto peculato che era stato attribuito a Tommaso Di Ruzza, direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria. Archiviato, perché le argomentazioni presentate anche in sede di interrogatorio sono state convincenti.
E la terza cosa su cui Diddi ha cambiato idea è il coinvolgimento di René Bruelhart, già presidente dell’Autoirtà di Informazione Finanziaria, sulla questione del prestito richiesto alla Segreteria di Stato.
La dichiarazione di Becciu
In questi tre giorni di requisitoria, c’è stato spazio anche per una irrituale dichiarazione spontanea del Cardinale Angelo Becciu, concessa fino a un certo punto dal presidente del Tribunale vaticano, durante la quale il cardinale ha risposto punto per punto alle accuse, negandole tutte. Non solo, ha aggiunto dati interessanti. Ha sottolineato che i fondi che arrivavano dallo IOR venivano utilizzati così: dai 18 ai 23 milioni venivano destinati a Radio Vaticana, 8 milioni all’Osservatore Romano, dai 27 ai 33 milioni alle nunziature apostoliche per la loro manutenzione e la costruzione nuove sedi. Non erano inclusi gli stipendi, che venivano invece pagati dall’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica”.
Ma il Cardinale Becciu ha smentito anche di aver impedito all’accesso alla Segreteria di Stato da parte dei controlli della Segreteria per l’Economia. Era la narrativa del Cardinale George Pell, ripresa nella sua interezza dal promotore Diddi come se fosse una prova della colpevolezza e del malaffare che c’erano in Segreteria di Stato.
Il Cardinale Becciu ha spiegato però quello che c’era noto, che il denaro della Segreteria di Stato costituiva il fondo sovrano del Papa e non rientrava nel bilancio consolidato della Santa Sede, e questo per scelta di Paolo VI – che fu tra l’altro il Papa che aveva dato centralità alla Segreteria di Stato nella Curia.
L’entità del bilancio della Segreteria di Stato era conosciuta – spiega il cardinale – “dal Papa, dal segretario di Stato, dal sostituto e dall’amministratore del fondo”. Dunque, sarebbe bastata una richiesta del Papa per aprire alle richieste della Segreteria per l’Economia. Ma non solo non ci fu questa richiesta. Nel 2016, Papa Francesco specificò con un motu proprio le competenze della Segreteria per l’Economia, separando di nuovo la vigilanza dall’amministrazione e ridando all’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica una centralità.
E non solo. Di fronte al contratto negoziato dal Cardinale Pell con Pricewaterhouse Cooper per la verifica dei bilanci, che apriva anche a conti “di Stato” della Segreteria di Stato – e quale Stato metterebbe nelle mani di una società di revisione anche i propri conti riservati e quelli del governo? – il Cardinale Parolin ottenne un rescritto del Papa che portò ad una rinegoziazione del contratto. Era un modo per difendere la sovranità della Santa Sede, che resta tale anche quando si ottempera a tutti gli obblighi di trasparenza.
Ha continuato il Cardinale Becciu: “La Segreteria di Stato è distinta da altri dicasteri, non riceve istruzioni, ma dà istruzioni. Cambiare i regolamenti non dipendeva da me o da chiunque fosse il sostituto. Era una prerogativa che non mi toccava. C’è voluto un motu proprio del Papa per cambiare natura e competenza della Segreteria di Stato. Così funzionava la Segreteria di Stato e così dovevamo farla funzionare”.
Infine, il Cardinale Becciu ha notato come il modo in cui il Promotore di Giustizia ne descrive le operazioni lo abbia “declassato da sostituto a capo ufficio”, perché lui non si occupava direttamente degli investimenti, ma ha solo “dato il consenso preparatomi dall’ufficio e controfirmato da monsignor Perlasca per il Palazzo di Londra e solo perché mi era stato presentato come affare vantaggioso per la Santa Sede. Io ero stato autorizzato dal Cardinale Bertone, con lettera dell’1 luglio 2013, ad investire i fondi di Segreteria di Stato giacenti nella UBS di Lugano”.
Infine, ha detto che “è una falsa diceria, che respingo in pieno” quella che si opponesse alle riforme del Cardinale Pell, e che anzi lui si limitava a far notare che le riforme facevano aumentare i costi, tanto che “al personale fatto venire dall’Australia assegnò 25 mila euro al mese, alla sua segretaria 12 mila euro, a un officiale proveniente dall’APSA dove aveva uno stipendio di 2500-3000 al mese assegnò uno stipendio di 9 mila euro”, e tutto mentre il Cardinale Parolin aveva stabilito una moratoria su turn over e nuove assunzioni.
L’impianto accusatorio del Promotore di Giustizia
Le parole di Becciu lasciano molto da pensare, se confrontate con la requisitoria del Promotore di Giustizia, che in questi tre giorni si è occupato del Palazzo di Londra e della situazione dell’Autorità di Informazione Finanziaria come due casi principali.
Il Promotore ha voluto sgombrare il campo dagli equivoci, e cioè che non era una indagine contro la Segreteria di Stato, ma solo contro alcuni che si sarebbero comportati in maniera non conforme alla legge in Vaticano, il cui primo fondamento è “la legge divina”, e che si rifà al diritto canonico. In pratica, il punto non è se si dovessero gestire i soldi, ma il fatto che non si sono gestiti con “lo spirito del buon padre di famiglia”, facendo operazioni speculative che “mai si erano fatte nella storia della Chiesa”.
Becciu non è mai comparso negli interrogatori che riguardavano l’investimento sul palazzo di Londra, se non marginalmente quando si riporta che ha chiesto una valutazione per la partecipazione della Segreteria di Stato a una società di estrazione in Angola (la Falcon Oil) e quando poi, avuto il consiglio di non investire in Angola nonostante si trattasse di un imprenditore amico, accetta l’affare di Londra, presentatogli come affare vantaggioso.
Il promotore di giustizia, però, tratteggia un quadro ancora più complesso, che mostra addirittura un accordo per arrivare all’investimento su Londra facendo crollare la prima ipotesi su Falcon Oil, in un gioco di interessi incrociati che vedrebbero il Cardinale Becciu come una sorta di “gran burattinaio” – non sono queste le parole che usa il promotore, per essere chiari, servono a rendere una idea sintetica.
Produce e-mail, legge conversazioni, sottolinea che l’investitore della Segreteria di Stato, Enrico Crasso, e il broker chiamato per consigliare Falcon Oil e che poi porterà all’investimento di Londra, Raffaele Mincione, sono d’accordo, accusa Mincione di aver usato i fondi della Segreteria di Stato per azioni personali, come la scalata in CARIGE, e anche quella nella Banca Popolare di Milano, ricostruisce anche il contatto tra Torzi e Mincione e i reciproci interessi che si nascondono dietro poi al passaggio delle quote del palazzo dal GOF di Mincione alla GUTT di Torzi, mettendo in dubbio che la trattativa per la cessione fosse stata “estenuante” come raccontata dai protagonisti a processo, ma piuttosto sottolineando che si era arrivati lì già con un accordo.
Soprattutto, difende la decisione di non portare a processo monsignor Alberto Perlasca, nonostante tutti i testimoni abbiano attribuito a lui il grosso delle decisioni, e nonostante il memoriale dell’arcivescovo Edgar Pena Parra, che prese il posto del Cardinale Becciu come sostituto della Segreteria di Stato nel 2017 parli di un “metodo Perlasca”. Memoriale che alla fine Diddi usa in molte parti, proprio per mettere in luce quello che lui definisce “un sistema” che va contro gli interessi della Santa Sede, ma che cade in contraddizione quando arriva a descrivere Becciu come primo responsabile.
Perlasca, dice Diddi, non è un “supertestimone”, non si sono trovati rilievi di alcun passaggio di denaro nei suoi confronti, e dunque non poteva essere indagato, nonostante l’archiviazione nei suoi confronti abbia destato “perplessità”. E non è nemmeno un superpentito, nonostante le dichiarazioni spontanee che differissero profondamente con le prime dichiarazioni, e nonostante – ma questo non viene citato nella requisitoria – che la sua testimonianza abbia subito duri colpi quando gli interrogatori a Francesca Immacolata Chaouqui e Genevieve Ciferri mostrarono che al limite il monsignore era stato soggetto a pressioni e manipolato.
Come a dire, non ci sono stati due anni di processo, quattro rescritti del Papa che hanno persino cambiato le regole del processo, rogatorie internazionali e persino due perquisizioni eclatanti, una in Segreteria di Stato, dove la Gendarmeria non potrebbe entrare perché il Palazzo Apostolico Vaticano è competenza delle Guardie Svizzera, e una nell’Autorità di Informazione Finanziaria, che, essendo autorità di intelligence, ha delle carte di autorità estere che non possono essere sottoposte a sequestro.
In fondo, queste perquisizioni sono state una rottura dell’ordinamento interno e degli accordi internazionali, tanto è vero che il Gruppo Egmont, che riunisce le Unità di Informazione Finanziaria di tutto il mondo, tagliò l’AIF dal suo circuito di comunicazione sicuro. Ma sono perquisizioni che Diddi rivendica come grandi successi, descrive “l’entusiasmo” della Gendarmeria nel perquisire il “sancta sanctorum” della Segreteria di Stato, ammette di essersi avvicinato all’AIF come in un “fortino”, addirittura ribaltando la prospettiva: non è stata la perquisizione a creare un problema internazionale, è stato l’AIF che lo ha creato perché non ha rispettato le normative. E le normative si riducono al fatto che l’AIF avrebbe dovuto inviare al Promotore di Giustizia una segnalazione di attività sospetta nel momento in cui viene a sapere che la Segreteria di Stato può essere soggetta ad estorsione.
Il ruolo di Torzi
Quella che viene configurata come estorsione è il pagamento a Torzi, in due tranche, di 15 milioni di sterline per la cessione delle mille azioni con diritto di voto del Palazzo di Londra che aveva tenuto per sé e che avevano tolto alla Segreteria di Stato il controllo del palazzo. Torzi chiedeva un compenso per uscire dall’affare, e in prima battuta si occupa della trattativa anche Giuseppe Milanese, amico del Papa e direttore dell’OSA, che però – nota Diddi – “ha anche interesse a piazzare i suoi crediti sanitari”.
Ma è proprio Milanese che porterà Torzi in Vaticano e poi gli farà incontrare Papa Francesco il quale, entrando nella stanza delle trattative – come confermato dallo stesso tribunale vaticano – dirà di “risolvere tutto con il giusto salario” (e sono parole che provengono dall’interrogatorio di Milanese).
Ricostruendo chat e conversazioni di Torzi, nonché il famoso incontro intercettato all’Hotel Bulgari di Milano tra Torzi, Tirabassi e Crasso, Diddi nota che Torzi gioca con le cifre, alzando e diminuendo la quantità dei soldi che lui accetterebbe per uscire dall’affare, in una negoziazione che si colora di toni a volte pecorecci.
Per Diddi, è evidente che si tratta di una estorsione, e che tutti lo sanno, e la prova per lui è che, alla fine, lo studio Mishcon de Reya, che assiste la Segreteria di Stato, segnala una possibile transazione alla NCA, la Unità di Informazione Finanziaria britannica. Segnalazione dovuta, e che comunque mostra crepe nell’operazione. L’Autorità di Informazione Finanziaria vaticana era già stata avvisata, chiede di fare una segnalazione di transazione sospetta alla Segreteria di Stato, attiva cinque UIF estere, tra cui quella del bailato di Jersey, per far luce sulla vicenda.
La Segreteria di Stato ha necessità di chiudere una trattativa diffcile, c’è il rischio di un processo che non si sa dove porta, perché Torzi, in fondo, potrebbe avere le basi per reclamare quello che reclama, ed è meglio trovare un accordo. L’AIF valuta l’operazione, suggerisce come fare per renderla fattibile in termini di antiriciclaggio, annuncia che continuerà a vigilare sul flusso di denaro. È una consulenza ad un organo di governo, e d’altronde chi si sarebbe dovuto segnalare alle autorità, il sostituto che chiedeva di chiudere l’operazione?
Per il Promotore di Giustizia, però, questa mancanza di coinvolgimento della magistratura vaticana, in un momento in cui si sta ancora lavorando di intelligence e per risolvere il problema e non su ipotesi di reato e transazioni sospette, è la prova che l’AIF concorre a perpetuare un sistema, a difendere la Segreteria di Stato anche quando questa si trova a fare operazioni illecite. Anzi, sarà lo IOR a sanare questa irregolarità, insieme all’ufficio del revisore generale, in una denuncia di due pagine che, in pratica, fa partire tutto il procedimento.
Il ruolo dello IOR
La tesi assunta da Diddi è esattamente quella dell’Istituto delle Opere di Religione, che appare accreditato come una sorta di “salvatore della Santa Sede” (anche qui, non sono le parole di Diddi) perché destinava parte dei profitti alla sede apostolica, e anche difensore del patrimonio del Papa, perché rifiuta una operazione di finanziamento che non può fare perché va fuori dai canoni della Pastor Bonus e del regolamento della Curia romana.
Il promotore di Giustizia sposa, dunque, tutta la teoria dello IOR, che è stato il primo denunciante, lamenta gli interventi dell’AIF allo scopo permettere la transazione, e soprattutto sottolinea che no, lo IOR non poteva dare prestiti, perché “il massimo che dà è anticipazioni con la garanzia della cessione del quinto”, ma di certo non può dare prestiti come se fosse una banca, mettendo in luce che, alla fine, anche la formula di “anticipo di liquidità per fini istituzionali” è una sorta di copertura per una operazione che non si può fare.
È una parte di requisitoria che rispecchia il dibattito che c’è stato anche in aula, perché l’AIF a norma di statuto dello IOR ha sempre notato come l’anticipo di liquidità (tra l’altro ad interesse) era possibile, e lo IOR, rifiutando l’interpretazione dell’ente vigilante, ha sempre detto che non era possibile. Addirittura, il presidente del Consiglio di Sovrintendenza Jean-Baptiste de Franssu ha lamentato il comportamento dell’AIF, mentre il direttore dello IOR Gianfranco Mammì ha notato come la valutazione sull’anticipo di liquidità secondo lui era negativa, nonostante in fondo non fosse stata redatta in maniera completamente negativa.
Lo IOR, insomma, non anticipa soldi per evitare un rischio e per non andare contro la sua missione. Ma se si guarda a rischio, l’ultimo bilancio dello IOR pubblicato certifica che lo IOR aveva certamente in pancia il capitale necessario al tempo della richiesta, mentre è dopo che la liquidità dello IOR si è depauperata, fino a dimezzarsi.
E se si guarda alla possibilità, ci sono altri due casi negli ultimi anni in cui l’istituto ha aiutato a ripianare debiti: il prestito di 11 milioni alla diocesi di Terni, contabilizzato nel rapporto IOR 2014 ma precedente alla gestione De Franssu, e quindi la questione che riguarda il monastero benedettino di Dalia, nella diocesi di Porec-Pula, che risolveva un contenzioso tra l’abbazia e la vecchia proprietà del monastero. La vicenda era del 2011, l’aiuto IOR era stato ottenuto nel 2018-2019, quando era già arcivescovo Dražen Kutleša, ora arcivescovo di Zagabria.
Di fatto, c’è un organo di governo (la Segreteria di Stato) che chiede ad un organo di Stato (lo IOR) una anticipazione per fini istituzionali – tra l’altro autorizzato dal Papa, secondo la testimonianza di Fabrizio Tirabassi. L’organo di Stato, invece di aiutare, decide di denunciare l’organo di governo. E, nella denuncia, porta giù la vigilanza governativa (l’AIF) che cercava di aiutare l’organo di governo a superare una impasse difficile.
L’AIF
Per Diddi, però, l’AIF aveva un disegno che andava al di là il suo ruolo di autonomia e indipendenza, perché entra in campo come un attore in gioco. Non considera né che la Segreteria di Stato è l’organo di governo, né che le azioni dell’AIF sono il tentativo di risolvere un problema, ma non la sua negazione. I testimoni, incluso l’allora capo ufficio AIF e ora vicedirettore Federico Antellini Russo, hanno detto che l’AIF ha attivato 5 Unità di Informazione Finanziaria Estere, che ha contattato due volte la gendarmeria senza risposta, che perseguiva il tracciamento dei fondi. Il capo dell’ufficio vigilanza dell’AIF aveva chiarito che il prestito era legale secondo le regole di vigilanza prudenziale. Anche la questione del diritto canonico non era davvero applicabile al caso, perché non si trattava di una devoluzione, ma di un investimento dello IOR con interessi.
Perlomeno, questo è quanto venuto fuori dalle testimonianze.
Diddi però sottolinea che no, l’AIF avrebbe dovuto avvisare il promotore di Giustizia, segnalare - anche se questo significava, come ha notato Di Ruzza durante l’interrogatorio - segnalare la Segreteria di Stato che aveva chiesto una soluzione per l’operazione, e che in questo si certifica il ruolo non indipendente dell’AIF. Anzi, Diddi lamenta anche l’incarico di consulente antiriciclaggio per la Segreteria di Stato di René Bruelhart, anzi ne mette in luce una sorta di confusione di ruoli.
Sembra quasi, nella requisitoria del promotore, non esistere una separazione dei piani, tanto che si arriva a definire un abuso di ufficio in maniera vaga, sottolineando che non c’è bisogno di un dolo concreto perché questo si configuri.
La Segreteria di Stato
Parte della ricostruzione dei prestiti è fatta dal promotore di Giustizia Perone, che punta su una rappresentazione tecnica e mette in luce come la Segreteria di Stato non sapesse effettivamente delle manovre di Torzi, di quelle di Mincione, nemmeno del mutuo acceso sul Palazzo di Londra. È il motivo per cui la Segreteria di Stato si è costituita parte civile, e cioè quello di stabilire che c’è stato un danno proprio perché ci sono azioni che sono state compiute a detrimento della Segreteria di Stato, causando un dolo.
Di fatto, però, la requisitoria di Diddi, nonostante sottolinei di voler mettere in luce il cattivo comportamento delle persone, è una sorta di destrutturazione del funzionamento dell’istituzione stessa della Santa Sede. In pratica, ogni singolo comportamento istituzionale della Segreteria di Stato è messa in discussione, e questa – come risultato – ha già perso l’indipendenza finanziaria, con tutta la gestione devoluta all’APSA, e ora rischia di perdere anche l’autonomia dell’organo di governo. Se passasse l’idea di Diddi, la Segreteria di Stato dovrebbe avvertire sempre i magistrati, sarebbe sempre sotto scrutinio di autorità interne, e perderebbe quella sua autonomia interna che Paolo VI le aveva guadagnato proprio per garantire alla Chiesa un coordinamento a livello di Curia e un ombrello istituzionale in ambito internazionale.
Le conseguenze
Questo processo ha già avuto delle conseguenze internazionali, inclusa una valutazione del Comitato del Consiglio d’Europa MONEYVAL non così positiva come vuole dire la narrativa vaticana, e le valutazioni del giudice inglese Tony Baumgartner sui metodi di indagine e di interpretazione delle risultanze delle indagini, che non a caso Diddi cita più volte per smentirlo con durezza.
Ora, con la sua requisitoria, Diddi ha messo il diritto canonico in primo piano. Praticamente, l’abuso di ufficio diventa anche un problema di agire morale, ed è probabilmente l’unico modo in cui può configurare il reato, considerando le varie testimonianze.
Non solo, però, viene messo in discussione il sistema vaticano, che pure aveva retto alla prova del tempo nonostante le inevitabili cadute e corruzioni che sono accadute. Viene messa in discussione la Santa Sede, “vaticanizzata” perché soggetta allo Stato di Città del Vaticano, e viene messo in discussione lo stesso impianto dello Stato di Città del Vaticano, che vede includere criteri morali in un procedimento penale.
Sarà da vedere, nei prossimi tre giorni di requisitoria, quale sarà l’impianto accusatorio di Diddi e quali saranno le richieste di condanna. Da qui, si potrà capire quale piega avrà il processo.
Processo Palazzo di Londra, chiesti 7 anni e 3 mesi per il Cardinale Becciu
La scure del Promotore di Giustizia vaticano su tutti gli imputati. Due sole richieste di assoluzione, ma su questioni minime. Richieste di Confisca per 417,699 milioni di euro, 73 anni e un mese di reclusione complessivi richiesti
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , mercoledì, 26. luglio, 2023 16:00 (ACI Stampa).
Ora spetterà al presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone tirare fuori il bandolo della matassa del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Dopo cinque giorni di requisitoria dai toni durissimi, che a volte hanno persino rasentato l’offesa personale nei confronti personali, con giudizi taglienti e netti, il promotore di Giustizia Alessandro Diddi ha fatto le sue richieste di condanna. Ha detto che si è tenuto sempre nel limite più basso di quello consentito dalla legge, tranne che in un caso: quello che riguarda il Cardinale Angelo Becciu. Perché Becciu, alla fine – è il ragionamento di Diddi – non ha mai mostrato segni di rincrescimento, anzi è voluto andare persino allo scontro frontale con la magistratura, negando ogni accusa, e “legandosi il cappio al collo da solo”. E così, per il Cardinale Becciu vengono chiesti 7 anni e 3 mesi di reclusione, l’interdizione dei pubblici uffici, e gli viene anche comminata una multa di 10329 euro, mentre il presunto procurato danno alla Segreteria di Stato gli porta una richiesta di confisca di 14 milioni.
Sembrerà strano, ma non è la richiesta di condanna più alta. E sembrerà ancora più strano, ma la richiesta di condanna più alta è nei confronti di un officiale della sezione amministrativa della Segreteria di Stato, Fabrizio Tirabassi, per il quale gli anni di reclusione richiesti sono addirittura 13. Vero è che un officiale di Segreteria di Stato non può fare nulla senza l’autorizzazione dei superiori. Secondo Diddi, però, il lavoro di Tirabassi lo portava anche a maturare degli interessi personali.
In totale, il promotore ha fatto richieste di confisca per 417,699 milioni di euro, mentre sono stati chiesti 73 anni e un mese di reclusione complessivi.
Il processo
Come sempre, vale la pena prima di tutto guardare al processo e a cosa riguarda. Ci sono tre filoni di indagine principali.
Il primo: l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.
Il secondo filone: il contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio per fini personali.
Le richieste di condanna
Prima di addentrarsi nelle richieste di condanna, il promotore di Giustizia Diddi ha spiegato la ratio che lo ha portato a fare delle richieste. Ci sono due assoluzioni, per reati minori, di Crasso e di Bruelhart, perché non sussiste interesse privato in atto di ufficio.
Per il resto, l’accusa conferma tutto il suo impianto accusatorio, dice di essersi mantenuto in una forchetta bassa anche per quanto riguarda richieste di condanna eccetto che per il Cardinale Becciu, sottolinea che la nuova legge fondamentale prevede anche la riabilitazione.
Ma per Diddi la considerazione principale è che “nonostante ci siamo molti reati contro il patrimonio, per danni piuttosto consistenti quantificati ed elaborati dalle parti civili, nessuno ha avanzo una offerta di risarcimento del danno, e non stiamo parlando di persone disagiate o non abbienti. Ci sono sequestri di milioni di euro, sono persone che hanno dimostrato di avere grandissime disponibilità”. E lamenta che questo dimostra una non volontà conciliatoria, tanto che il Cardinale Becciu “in questo processo ha fatto tutto fuorché cercare una conciliazione delle parti”.
Le pene richieste
Si arriva così alle pene richieste. Oltre ai 7 anni e 3 mesi, per Becciu è richiesta anche l’interdizione dai pubblici uffici, nonché il pagamento di 10329 euro di Multa. Per René Bruelhart, già presidente dell’Autorità di Informazione Finanziaria, si chiedono 3 anni e 8 mesi di reclusione, interdizione temporanea dai pubblici uffici, il pagamento di 10329 euro di multa.
Per monsignor Mauro Carlino, che era segretario del sostituto al tempo dell’operazione, vengono chiesti 5 anni e 4 mesi di reclusione, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, 8 mila euro di multa.
Enrico Crasso, che era il gestore delle finanze della Segreteria di Stato attraverso Credit Suisse, dovrebbe scontare, secondo l’accusa 9 anni e 9 mesi di reclusione, pagare 18 mila euro di multa ed essere perpetuamente interdetto dai pubblici uffici.
Per Tommaso Di Ruzza, direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria, vengono chiesti 4 anni e 3 mesi di reclusione, l’interdizione temporanea dai pubblici uffici e 9600 euro di multa. Su Cecilia Marogna, 4 anni e 8 mesi di reclusione, interdizione perpetua dai pubblici uffici e 10329 euro di multa. Per il broker Raffaele Mincione sono chiesti 11 anni e 5 mesi di reclusione, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e 15450 euro di multa.
E ancora, per l’officiale di Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi sono richiesti 13 anni e 3 mesi di reclusione, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, 18750 euro di multa. Per l’avvocato Nicola Squillace, che reclamava di aver agito per conto della Segreteria di Stato, 6 anni di reclusione, la sospensione dall’esercizio della professione e 12500 euro di multa. Per il broker Gianluigi Torzi, 7 anni e 6 mesi di reclusione, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e 9 mila euro di multa.
E poi ci sono le società: la Logsic di Cecilia Marogna dovrebbe, secondo le richieste dell’accusa, essere sanzionata di 150 mila euro, ricevere tre anni di divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, essere confiscata di 174210 euro.
Quindi, le tre società riconducibili ad Enrico Crasso: la sanzione per la Prestige Family Office di 150 mila euro, con confisca di 902,585,51 franchi svizzeri; lo stesso per la Sogenel Capital Investment, cui però dovrebbero essere confiscati 308.547 euro; e lo stesso per HP Finance. Per tutti è richiesta l’interdizione dai pubblici uffici.
La requisitoria
Le richieste arrivano al termine di una seconda tranche di requisitoria del promotore di Giustizia Alessandro Diddi, che in questi tre giorni si è concentrato sul Cardinale Becciu, su monsignor Mauro Carlino e in parte sulla vicenda dell’Autorità di Informazione Finanziaria.
È una requisitoria in cui si possono notare diversi “mutamenti di genere”. Così Crasso viene parificato ad un officiale di Stato (ma è un consulente), Becciu viene descritto come una “controfigura dell’amministratore apostolico e controfigura dell’amministratore delle cooperative” per un presunto ruolo occulto nella gestione SPES e negli affari della diocesi (ma è tutto da dimostrare), per Carlino viene delineato una sorta di concorso nell’estorsione di Torzi (ma non si sa dove sia il vantaggio personale), le fees, le provvigioni, sono descritte come tangenti (ma ci sarebbero stati dei contratti da rispettare).
Secondo il promotore di Giustizia, l’impianto accusatorio ha retto, e lo dimostra il fatto che non vengono considerate in alcun modo molte delle testimonianze, anzi addirittura si arriva a dire che queste testimonianze sono false. Tanto che, alla fine, fa persino minacciosamente sapere che per monsignor Carlino si potrebbe aprire un fascicolo per calunnia, perché è vero che un imputato può mentire per difendersi in interrogatorio, ma non può calunniare. E, secondo Diddi, con la sua testimonianza Carlino avrebbe calunniato sia il sostituto, l’arcivescovo Pena Parra, sia il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato.
Eppure, l’arcivescovo Pena Parra aveva difeso l’operato dei suoi sottoposti in interrogatorio, confermando un memoriale clamoroso che metteva persino in luce quello che lui definiva un “metodo Perlasca”, il capo dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato. Ma Perlasca viene difeso a spada tratta da Diddi. Perché è vero che, nel caso dell’affare di Londra, Perlasca avrebbe firmato un contratto senza l’autorizzazione del sostituto. Ma è altrettanto vero che Perlasca ha avuto il coraggio di disubbidire, di parlare con i magistrati, aveva fatto pressioni per denunciare Torzi dopo che si era reso conto che il contratto era in perdita, aveva persino contestato il trasferimento di soldi alla Marogna per il presunto pagamento di un riscatto per liberare suor Cecilia Narvaez, rapita in Mali nel 2017. Insomma, Perlasca si è ribellato al sistema, ha mostrato di essere onesto.
E invece Carlino ha ubbidito, è stato leale, ma allo stesso modo – è la tesi di Diddi – era addirittura complice in quella che lui chiama una “estorsione” operata da Torzi ai danni della Segreteria di Stato per restituire le mille azioni con diritto di voto.
Nel farlo, nega che ci fosse un negoziato – e in effetti aveva anche commentato in maniera brusca le risultanze del giudice inglese Baumgartner, che faceva sapere che tutto lasciava pensare che si stesse negoziando – e addirittura accusa una manipolazione nel momento in cui si fa entrare il Papa nella stanza delle trattative. C’è, il 26 dicembre 2018, una foto che ritrae il Papa insieme a Gialuigi Torzi, ed è confermato dal Tribunale che lo scopo della presenza di Torzi fosse la trattativa. Prima si è negato che il Papa sapesse, poi che il Papa fosse stato bene informato, ora si dice che è stato persino manipolato. Tra l’altro, in quella stanza dei negoziati c’era anche Giuseppe Milanese, presidente delle OSA, chiamato dal Papa, di cui è amico, a mediare sulla vicenda con Torzi, e descritto da Diddi come impegnato anche a collocare i suoi crediti sanitari – tra l’altro 6 milioni di questi finiranno in pancia agli investimenti della Segreteria di Stato.
Se Carlino, ubbidiente, è descritto un po’ come quello che perpetua un sistema quasi omertoso, il promotore di Giustizia ha una descrizione ancora più dura del Cardinale Becciu, che accusa senza mezzi termini di aver compiuto delle “porcherie”, di essere un “vile”, di aver fatto delle schifezze, persino di aver mantenuto “la ragazzina”, guardandosi bene però dal fare illazioni su una possibile violazione del celibato – lo specifica lui stesso – ma di fatto lasciando una scia di sospetto su quello che c’era.
Non solo. Il promotore di Giustizia arriva a configurare una sorta di influenza di tutta la famiglia Becciu sulla diocesi di Ozieri, basandosi sul fatto che il conto della Caritas era descritto come “presso SPES”, mettendo in luce come fosse la diocesi ad agire come il braccio della SPES e non viceversa – e lo fa riprendendo la testimonianza di monsignor Orru – e arrivando a descrivere una serie di pressioni sul vescovo di Ozieri Pintor perché lasci ai 75 anni, notando come le sue ultime nomine sono state annullate, e come ci sia stata pressione anche per cacciare delle suore di clausura che “non so che abbiano fatto, ma erano simpatiche a Pintor”.
Tutto, nella requisitoria di Diddi, viene letto come una grande manipolazione. Anche la firma di don Mario Curzu per l’apertura del conto presso SPES è considerata falsa, e così però c’è il rischio di non avere una lettura serena della vicenda.
Ma a Becciu, Diddi contesta soprattutto le lettere al Papa che gli chiedevano di dichiarare che sì, il Santo Padre era al corrente e aveva autorizzato le operazioni e che poi, alla risposta negativa del Papa, in una lettera infarcita di linguaggio giuridico, Becciu si sia permesso di obiettare che quella lettera sembrava aver preso solo le ipotesi accusatorie. Becciu poi telefonerà al Papa, registrandolo, e sarà questa registrazione, acquisita dalla procura di Sassari, ad essere definita la più grande “schifezza”, mentre la seconda è appunto data dalla presenza del Papa nella stanza delle trattative a Santa Marta.
E infine c’è la questione della fuga di notizie sull’accordo di Londra, comparse sull’Espresso. Il giornalista Emiliano Fittipaldi aveva negato fossero venute dall’Autorità di Informazione Finanziaria e dal direttore Tommaso Di Ruzza, anzi aveva detto che quando aveva fatto richieste non aveva mai ricevuto riscontri. E ha anzi prodotto le chat, mostrando che quell’accordo gli era stato mandato da Massinelli, un consulente di Mincione. Ma per Diddi questa non è una prova, non viene nemmeno menzionata, e addirittura si pone il dubbio che Massinelli possa aver avuto le carte.
Il sistema finanziario vaticano
Da una parte, l’accusa mostra di accogliere le riserve della Segreteria di Stato, che si è costituita parte civile e che lamenta che Mincione avrebbe dato le quote del Palazzo di Londra alla Segreteria di Stato incassando 100 milioni di sterline in più del prezzo cui l’aveva acquistato un anno e mezzo prima con un mutuo del 75 per cento del valore, senza però dirlo alla controparte vaticana. E poi, nel cedere le quote, si sarebbe fatto dare un addizionale 40 milioni, facendo lievitare il prezzo a 275 milioni di sterline. Il palazzo è stato poi rivenduto dal Vaticano a 186 milioni di sterline. E si lamenta che Mincione avrebbe usato i soldi investiti per fare le scalate a Banca Popolare di Milano e Cassa di Risparmio di Genova, anche in questo caso senza farlo sapere alla controparte.
Ma su questa ricostruzione sarà interessante leggere i contratti, comprendere anche come sta andando un processo parallelo intentato a Londra da Mincione contro la Segreteria di Stato, comprendere se davvero si possono quantificare i danni considerando che la Segreteria di Stato è uscita dall’accordo con Mincione a due anni dal lock up del contratto.
È stata, la Segreteria di Stato, un investitore affrettato? Sarà questo da valutare, come saranno da valutare gli accordi presi con Torzi, i contratti che hanno portato al pagamento di quello che Diddi chiama “estorsione”, che lo porta di conseguenza a definire gli accordi una “patacca”.
C’è da dire, però, che la finanza vaticana ha sempre diversificato, la Segreteria di Stato è sempre stata un fondo sovrano, e che gli investimenti immobiliari sono presenti sin dagli anni Trenta, come dimostra la vicenda Grolux, la società riconducibile alla Segreteria di Stato che possedeva vari immobili di pregio a Londra.
Anzi, il bilancio APSA di due anni fa presentava un investimento a Parigi in tutto e per tutto simile a quello del Palazzo di Londra.
Allora ci si deve chiedere se, di fatto, questo processo non metta in discussione proprio il sistema finanziario vaticano, la sovranità del suo organo di governo, lo stesso funzionamento dello Stato. In fondo, lo IOR ha rifiutato un anticipo istituzionale all’organo di governo, la Segreteria di Stato, ed è arrivata addirittura a denunciarla, mettendo a rischio la stessa istituzione.
Ma per Diddi quella denuncia è stata un atto di onestà, anzi Diddi mette in luce che queste operazioni arrivano mentre in Vaticano, a partire dalla costituzione della COSEA, si è cominciata una operazione trasparenza. Eppure, i dati dicono che le speculazioni ad alto rischio sono cominciate ad essere attuate soprattutto nel 2014, e sono anche gli anni in cui il bilancio dello IOR comincia a decrescere, distaccandosi dalla gestione precedente che faceva 86,6 milioni di utili.
Se alcuni modus operandi potevano essere considerati troppo personalisti, allo stesso tempo il problema non era destrutturare il sistema, ma andare risolvere alcuni comportamenti. Ci troviamo invece di fronte ad una sorta di rivoluzione copernicana, che rischia di indebolire la Santa Sede.
Verso una conclusione?
Soprattutto, l’impianto dell’accusa è tutto da dimostrare. In molti casi, la dialettica di Diddi è arrivata a contestare una campagna contro lo stesso ufficio del Promotore, cosa di cui imputa soprattutto il Cardinale Becciu. Eppure, della mancanza di operatività dell’ufficio del promotore sui reati finanziari non si parlava solo a livello interno. C’era un rapporto cdel comitato MONEYVAL del Consiglio d’Europa del 2017 che notava che “i risultati nella applicazione delle leggi e l’attività giudiziaria a due anni dall’ultimo rapporto restano modesti”, cosa messa in luce anche nell’ultimo rapporto sui progressi del 2021. In effetti, in questi anni c’è stata anche una dialettica dell’ufficio del promotore che si è difeso dalle accuse di non aver dato seguito alle segnalazioni, mostrando anche i passi avanti, come lo stabilimento di un ufficio per i reati finanziari.
Questo per dire che le criticità dell’ufficio erano note a livello internazionale. Mentre, a livello interno, MONEYVAL aveva chiesto che almeno uno dei promotori e dei giudici fosse full time, ma l’ultima riforma dell’ordinamento giudiziario vaticano ha permesso di nuovo che tutti i giudici e i promotori di giustizia siano part time. Questo, di certo, non aiuta l’indipendenza di uno Stato, che si trova con giudici e promotori che lavorano anche in altri ordinamenti.
Nel frattempo, si ha un processo che è diventato molto mediatico, con accuse e controparti, ma in cui è difficile a volte trovare vere configurazioni di reato. Durante la requisitoria, Diddi è arrivato a parlare di una “certezza morale” di un reato, e utilizzato il diritto canonico come base per le sue accuse. Diritto canonico sul quale si basava anche lo IOR per rifiutare l’anticipo alla Segreteria di Stato.
Ma questo è positivo per il sistema giudiziario della Santa Sede? Dà credibilità al micro-Stato? E, soprattutto, si possono definire dei reati sulla base di certezze morali, indizi e ricostruzioni, senza però certezze probatorie?
Sono le domande a cui dovrà rispondere anche il presidente Pignatone, dopo aver sentito parti civili e difese, che saranno chiamate a ricostruire i fatti e dimostrare se l’aggressività della requisitoria non si è attaccata a fatti concreti.
Di certo, in gioco non c’è più una questione personale, e nessuna piccola vendetta interna può giustificare il rischio che si ha per la stessa Santa Sede. La sentenza definirà anche questo. Intorno a Natale, dunque, si saprà in che modo la Città del Vaticano sarà quel tanto di corpo per dare sostegno all’anima della Santa Sede nel futuro.
Processo Palazzo di Londra: a che punto siamo rimasti
Riprendono il 27 settembre le udienze del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Chiesti 7 anni per il Cardinale Becciu. Parola alle parti civili e poi alle difese
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , martedì, 26. settembre, 2023 10:00 (ACI Stampa).
Un cardinale sotto processo. Un presunto scandalo immobiliare. Degli officiali infedeli. Veleni e attacchi personali. Ma anche una accusa tutta da decifrare. Un Papa presente sin dalle prime decisioni. Un organo di Stato che rifiuta inaspettatamente la richiesta dell’organo di governo dello Stato. Sono tutti temi che si incrociano nel processo sulla gestione di fondi della Segreteria di Stato, che riprende il prossimo 27 settembre in Vaticano.
Nelle prossime udienze, Segreteria di Stato, Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, Istituto per le Opere di Religione (che parlerà anche a nome dell’Autorità di Supervisione e Informazione Finanziaria) e difesa di monsignor Alberto Perlasca spiegheranno perché, come parti civili, ritengono che questo processo li riguardi e perché da questo processo ritengono di dover essere risarciti.
Poi, sarà la volta delle difese, chiamate a smontare pezzo per pezzo la requisitoria in cinque udienze (più una per le richieste di condanna) del promotore di Giustizia vaticano Alessandro Diddi. Una requisitoria che, in fondo, nel tentativo di giustificare i capi di accusa sembrava essersi cristallizzata a due anni fa, quando non erano ancora state ascoltati né gli imputati né i testimoni. Niente ha scalfito l’impianto accusatorio, neppure quando l’impianto accusatorio di monsignor Perlasca è stato smontato da due testimonianze che mettevano in luce come il monsignore potesse anche essere stato vittima di manipolazione. Improvvisamente, monsignor Perlasca non era più il “supertestimone”, come veniva definito e considerato, e di lui si è parlato molto poco nelle fasi successive del processo.
Un processo, tre processi
Ma cosa riguarda il processo che si sta celebrando ormai da più di cinquanta udienze in Vaticano? Ci sono tre filoni, diversi eppure, secondo il promotore di giustizia collegati tra loro.
Il primo: l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.
Il secondo filone: il contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) per fini personali.
Le richieste di condanna
Secondo il promotore di giustizia Alessandro Diddi, il filo conduttore di questi tre filoni è sempre e solo il Cardinale Angelo Becciu. Poco importa che Becciu rientri nell’operazione del Palazzo di Londra solo all’inizio, perché è sotto di lui come sostenuto che si avvia l’operazione. Addirittura, nella ricostruzione del promotore, Becciu prevedeva addirittura gli sviluppi, aveva posto le basi per ottenere il massimo guadagno. E, offesa ancora più grande, il Cardinale si è sempre difeso in questi mesi di processo, partecipando ogni volta che poteva alle udienze, rendendo dichiarazioni spontanee, ribattendo punto per punto ad accuse e ricostruzioni.
Proprio perché il cardinale non ha mai mostrato segni di rincrescimento, per lui è stato chiesto il massimo possibile: 7 anni e 3 mesi di reclusione, l’interdizione dai pubblici uffici, una multa di 10329 euro e una richiesta di confisca di 14 milioni.
Per René Bruelhart, già presidente dell’Autorità di Informazione Finanziaria, sono stati chiesti 3 anni e 8 mesi di reclusione, interdizione temporanea dai pubblici uffici, il pagamento di 10329 euro di multa.
Per monsignor Mauro Carlino, che era segretario del sostituto al tempo dell’operazione, vengono chiesti 5 anni e 4 mesi di reclusione, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, 8 mila euro di multa.
Enrico Crasso, che era il gestore delle finanze della Segreteria di Stato attraverso Credit Suisse, dovrebbe scontare, secondo l’accusa 9 anni e 9 mesi di reclusione, pagare 18 mila euro di multa ed essere perpetuamente interdetto dai pubblici uffici.
Per Tommaso Di Ruzza, direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria, sono stati chiesti 4 anni e 3 mesi di reclusione, l’interdizione temporanea dai pubblici uffici e 9600 euro di multa. Su Cecilia Marogna, 4 anni e 8 mesi di reclusione, interdizione perpetua dai pubblici uffici e 10329 euro di multa. Per il broker Raffaele Mincione sono chiesti 11 anni e 5 mesi di reclusione, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e 15450 euro di multa.
La pena più alta richiesta è stata per l’officiale di Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi: 13 anni e 3 mesi di reclusione, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, 18750 euro di multa. Per l’avvocato Nicola Squillace, che reclamava di aver agito per conto della Segreteria di Stato, 6 anni di reclusione, la sospensione dall’esercizio della professione e 12500 euro di multa. Per il broker Gianluigi Torzi, 7 anni e 6 mesi di reclusione, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e 9 mila euro di multa.
A processo ci sono anche diverse società. La Logsic di Cecilia Marogna dovrebbe, secondo le richieste dell’accusa, essere sanzionata di 150 mila euro, ricevere tre anni di divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, essere confiscata di 174210 euro.
Quindi, le tre società riconducibili ad Enrico Crasso: la sanzione per la Prestige Family Office di 150 mila euro, con confisca di 902,585,51 franchi svizzeri; lo stesso per la Sogenel Capital Investment, cui però dovrebbero essere confiscati 308.547 euro; e lo stesso per HP Finance. Per tutte è richiesta l’interdizione dai pubblici uffici.
I nodi da sciogliere
Di cosa parleranno le parti civili? La Segreteria di Stato e l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, che ne ha ereditato la gestione delle finanze, dovranno dimostrare di avere subito un danno nella gestione del palazzo di Londra. Saranno chiamate a dimostrare come non avessero saputo delle condizioni economiche del palazzo di Londra dal primo broker Mincione (e in particolare di un mutuo che gravava sul palazzo) e di come il secondo broker che ha gestito il palazzo, Gianluigi Torzi, non avesse chiarito che le mille azioni che si riservava per lui gli dessero controllo totale sulla gestione dell’immobile, perché le uniche con diritto di voto.
Lo IOR deve dimostrare che è stato procurato un danno all’istituzione, e nel farlo potrebbe andare a cozzare con la Segreteria di Stato vaticana. La Segreteria di Stato, organo di governo, aveva infatti chiesto il prestito allo IOR, organo di Stato, e questo glielo aveva rifiutato, in una prassi tutta da definire.
Poi c’è monsignor Perlasca che si sente danneggiato da alcuni atteggiamenti del Cardinale Becciu, e l’ASIF che si sente danneggiato da alcune decisioni dei suoi vertici.
Restano però molti nodi da sciogliere. Il primo riguarda il coinvolgimento del Papa, fotografato tra l’altro nella stanza delle trattative, quando la Segreteria di Stato stava cercando di rilevare le sue quote da Torzi. Anche l’arcivescovo Pena Parra ha detto che il Papa sapeva.
Il secondo è la responsabilità di alcuni personaggi che non sono stati toccati dall’inchiesta giudiziaria, come Giuseppe Milanese, che compare all’inizio della trattativa con Torzi su richiesta del Papa e sul quale anche il promotore di Giustizia ha fatto calare un’ombra notando che questi aveva comunque interesse di procurarsi affari con lo stesso Torzi, e come monsignor Alberto Perlasca, non più considerato super testimone, ma comunque protagonista di un cambiamento di atteggiamento negli interrogatori tutto da verificare.
Il terzo riguarda il processo stesso, e il modo in cui verrà compreso a livello internazionale. Il Papa è intervenuto nelle procedure con quattro rescritti, una decisione di un giudice a Londra, Baumgartner, ha messo in luce persino alcune incongruenze nelle indagini che potrebbero persino renderle invalide (accuse profondamente respinte dal promotore di Giustizia), e la Segreteria di Stato è a processo a Londra citata dal broker Raffaele Mincione, in un procedimento i cui esiti appaiono incerti. Quanto questo processo mette a rischio la credibilità internazionale della Santa Sede?
Sono tre questioni che includono tante altre microquestioni – dalla validità delle ricostruzioni del promotore al ruolo dello IOR in contrapposizione alla Segreteria di Stato fino alla legittimità di alcuni comportamenti – e che sono centrali non tanto per le sentenze che si raggiungeranno, ma per il futuro del sistema giudiziario della Santa Sede.
https://www.acistampa.com/story/23351/processo-palazzo-di-londra-a-che-punto-siamo-rimasti
Processo Palazzo di Londra, le richieste di danni delle parti civili
Udienza 68, 69 e 70 del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Le parti civili hanno chiesto i danni agli imputati. Dal 5 ottobre la parola passa alle difese
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 30. settembre, 2023 12:00 (ACI Stampa).
Quello che colpisce, delle arringhe di parti civili, non sono le richieste di risarcimento danni, forse esagerate ma in linea con quello che si pensava potesse essere il prezzo del palazzo di Londra su cui la Segreteria di Stato aveva investito. Colpisce, piuttosto, la retorica che porta addirittura ad utilizzare il catechismo della Chiesa Cattolica per definire una colpevolezza, la ricostruzione dei fatti con una serie di “certezze” che però vanno ancora provate, persino – come è successo nella requisitoria – l’utilizzo di narrazioni già smentite dai testimoni.
Il processo vaticano per la gestione dei fondi della Segreteria di Stato ha visto le parti civili in campo nelle udienze 68, 69 e 70. Hanno parlato la Segreteria di Stato, l’Istituto per le Opere di Religione, Autorità di Supervisione e Informazione Finanziaria, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, nonché l’avvocato Sammarco (lo stesso di Francesca Immacolata Chaouqui) per monsignor Alberto Perlasca, ex capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, costituitosi parte civile per una presunta subornazione nei suoi confronti del Cardinale Becciu.
Le richieste di risarcimento
Le richieste di risarcimento sono ingenti. L’APSA, che ha ereditato dalla Segreteria di Stato la gestione dei fondi, ha quantificato il danno patrimoniale in 270 milioni, tra 173 milioni di perdite e 97 di mancato guadagno, almeno per l’investimento sul palazzo di Londra. A queste vanno aggiunte perdite diverse per le operazioni con le società di Enrico Crasso, per la vicenda Sardegna, per la contrattazione della sedicente operatrice di intelligence Cecilia Marogna.
La Segreteria di Stato invece si è limitata a parlare di danni di immagine, con una richiesta provvisionale di 98 milioni di euro di risarcimento.
L’ASIF, costituitasi parte civile contro l’operato degli ex vertici René Bruelhart (presidente) e Tommaso Di Ruzza (direttore) ha chiesto “la condanna degli imputati per i reati a loro ascritti e il risarcimento di tutti i danni subiti morali e non”, rimettendo al tribunale la loro quantificazione.
Infine, lo IOR ha chiesto il risarcimento dei fondi destinati dallo IOR alla Santa Sede e accantonati dalla Segreteria di Stato per 206 milioni 493 mila 665 euro, cui si aggiungono i danni morali, per i quali è stata chiesta una liquidazione equitativa, e i danni reputazionali, stabiliti da una perizia in 987 mila 494 euro.
I tre filoni del processo
Il processo si divide in tre tronconi principali. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.
Il secondo filone si concentra sl contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) per fini personali.
Le ricostruzioni delle parti civili
Senza entrare troppo nei dettagli, vale la pena evidenziare su cosa le parti civili convergono nella ricostruzione. Di fatto, la tesi della Segreteria di Stato è che la decisione di pensare un investimento su una piattaforma petrolifera in Angola, la cosiddetta operazione Falcon Oil, e poi di destinare i fondi per la prima volta nella storia in un hedge fund a discrezione del proprietario del fondo ha rappresentato un momento di svolta nella finanza vaticana.
“Sono stati fatti entrare i mercanti nel tempio”, ha tuonato Paola Severino, che difende la Segreteria di Stato. Mentre Giovanni Maria Flick, difensore dell’APSA, ha riferito punto per punto in che modo si sia arrivati alla decisione di investire nelle quote del palazzo di Sloane Avenue dopo aver lasciato stare l’investimento angolano.
Il fatto che Mincione avesse ampia discrezionalità sul fondo è stato un nodo per tutte le parti civili, così come il giro di affari che Mincione aveva con Gianluigi Torzi, il broker cui sarebbe poi passata la gestione dell’investimento di Londra. “Siamo passati dalla padella Mincione alla brace Torzi”, commentato l’avvocato Scaroina, nel team di Paola Severino in difesa della Segreteria di Stato vaticana.
In pratica, la Segreteria di Stato lamenta un raggiro sia nella gestione di Mincione, definita “costantemente in perdita”, sia nella decisione di passare la gestione a Torzi, avvenuta in una riunione “che potrebbe essere definita drammatica”, ma che in realtà, ricostruisce la Segreteria di Stato, era un gioco delle parti tra Torzi e Mincione per fare un passaggio di consegne che fosse vantaggioso per loro – e che coprisse anche alcune perdite, come quella dell’investimento in CARIGE di Mincione – ma non per la Segreteria di Stato.
In questa situazione, monsignor Alberto Perlasca sarebbe quello raggirato, l’unico che si rende conto che Torzi mantiene il controllo del palazzo, l’unico che poi vuole denunciare mentre si decide in un’altra direzione, cioè quella di liquidare i servizi dei broker e prendere l’intero controllo del Palazzo.
L’APSA vede anche la proposta del Cardinale Becciu di investire in una piattaforma petrolifera in Angola come l’inizio della nuova politica finanziaria che porterà solo disastri, e addirittura – è l’unico a farlo – configura un dolo nella prima decisione dell’allora sostituto, il quale, a onor del vero, scompare nel momento in cui trasferito ad altro incarico. È sempre monsignor Perlasca a gestire, monsignor Perlasca a firmare senza procura il contratto di passaggio della gestione del palazzo a Torzi, monsignor Perlasca poi a rendere testimonianze spontanee e a subire pressioni vari, e monsignor Perlasca che alla fine, da presunto super testimone (e inizialmente da indagato) ormai è quasi scomparso dalla narrativa.
Lo IOR addirittura lamenta che i fondi dall’istituto destinati al Santo Padre sono stati utilizzati per investimenti speculativi, ne chiede la restituzione, lamenta che si è messo in ridicolo il sistema finanziario vaticano puntando il dito contro gli ex vertici dell’AIF, che avrebbero agito irregolarmente consigliando alla Segreteria di Stato una operazione illecita. Per quello, non solo ci vuole risarcimento, ma anche la restituzione dei fondi dallo IOR destinati al Papa, quantificati in circa 700 milioni in 16 anni, perché poi il Papa li possa ridestinare.
L’ASIF, da parte sua, sottolinea che i suoi ex vertici abbiano agito contro il promotore di giustizia, sancendo così quella che appare essere una totale comunanza di intenti con l’ufficio dell’accusa vaticana. Non hanno segnalato le transazioni sospette quando le hanno ricevute, hanno funto da consulenti della Segreteria di Stato in palese conflitto di interessi, hanno consigliato di fare l’operazione più illecita invece di denunciare, e per questo hanno abusato del loro ufficio, almeno secondo l’ASIF.
Più marginale la questione della parte civile Perlasca, che lamenta che Becciu avrebbe fatto pressione perché cambiasse testimonianze, coinvolgendo il suo vescovo – e ora cardinale – Oscar Cantoni. Ma lo stesso Cardinale Cantoni ha smentito, nel suo interrogatorio, alcun tipo di pressione.
Alcuni nodi critici
Fin qui, la ricostruzione delle parti civili, che hanno i loro toni e anche le loro necessarie forzature, necessarie a giustificare le richieste risarcitorie. Ci sono, però, alcuni nodi critici che vale la pena di notare.
Il primo: il Papa era a conoscenza della situazione e del negoziato. Il Papa passa a Santa Marta nelle stanza dove Torzi è stato invitato a trattare la buonuscita, il Papa invia Giuseppe Milanese a gestire il problema e a fare la trattativa, il Papa convoca Pena Parra per parlare della situazione di Londra. Quanto era consapevole Papa Francesco? E, se Papa Francesco aveva autorizzato le modalità di uscita dall’operazione di Londra, allora ci può ancora essere un reato?
Il secondo nodo critico riguarda la costruzione delle accuse. Si è detto di Milanese, inviato dal Papa a risolvere il problema. Sia il promotore di Giustizia nella sua requisitoria che la Segreteria di Stato citano Milanese, mettono in luce che Milanese avesse interessi con Torzi, e in una delle testimonianze del processo è venuto anche fuori che la Segreteria di Stato aveva comprato dalla cooperativa OSA di Milanese 6 milioni di crediti sanitari. Perché, allora, Milanese non è stato coinvolto nel processo, se non per una testimonianza?
Il terzo nodo critico è quello degli imputati. Oltre a Milanese, compaiono spesso nelle ricostruzioni altri personaggi, a volte in combutta con Gianluigi Torzi, a volte presenti per i loro interessi. Ci sono chat in comune, scambi di informazioni, leak al momento giusto per aiutare a concludere le operazioni. Alcune delle persone menzionate sono state sentite come testimoni, ma nessuna è dalla parte degli imputati. Così, alcune possibili responsabilità che emergono dallo stesso quadro accusatorio non si rispecchiano, poi, nel processo stesso.
Il quarto nodo critico riguarda le attività dell’Autorità di Informazione Finanziaria. L’ASIF lamenta che i suoi ex dirigenti avrebbero agito fuori dai criteri del loro ufficio sin dall’inizio, per non aver informato il promotore di Giustizia della segnalazione di attività sospetta della Segreteria di Stato. L’AIF, però, è autorità di intelligence. Non segnala subito tutte le attività sospette. Fa le indagini – e infatti ha attivato diversi canali UIF di tutte le nazioni coinvolte – e poi, in caso queste fattispecie di reato si concretizzino secondo la sua valutazione, presenta un rapporto al promotore di Giustizia. La presentazione delle email inviate proprio alle UIF con le ipotesi di truffa non stanno a certificare una indagine fatta e finita, ma una indagine in corso.
C’è, insomma, una prospettiva diversa da cui vedere la situazione. La Segreteria di Stato si trova a dover risolvere un problema, l’AIF cerca di trovare per la Segreteria di Stato una soluzione che sia legale – da qui quello che viene chiamato “nulla osta”, che è un modo di sostenere che l’operazione in questione è fattibile senza problemi – e che sia efficace. È ovvio che ci sia una interlocuzione, perché l’AIF sta aiutando l’organo di governo e ponderando le situazioni possibili. È ovvio che ci sia una interlocuzione con lo studio di avvocati della Segreteria di Stato. Più che agire fuori dalle prerogative, l’AIF sembra aver agito per difendere la stabilità finanziaria della Santa Sede.
Quinto nodo critico: il ruolo dello IOR. Lo IOR destina ogni anno alla Santa Sede un contributo volontario dai profitti, che solo nell’ultimo rapporto è definito “dividendo”. Non si stanno distribuendo soldi all’azionista di riferimento. Si dà alla Santa Sede un surplus perché la Santa Sede lo possa usare a sua discrezione. Ora ne chiede la restituzione, come se poi quel denaro non sia stato già utilizzato per ripianare i bilanci o per fare altre iniziative.
La tesi dello IOR, in generale, è che lo IOR ha denunciato per evitare di finire nei guai, vedendo le operazioni altamente speculative che si stavano facendo. Lo IOR aveva ricevuto richiesta di una anticipazione di denaro alla Segreteria di Stato per risolvere alcuni debiti sul palazzo di Londra, e aveva inizialmente dato assenso alla richiesta, per poi fare incredibilmente marcia indietro. Dato che l’assenso alla richiesta non era stato immediato, perché lo IOR ha cambiato idea? E perché poi i vertici IOR hanno voluto una riunione con la Segreteria di Stato, a denuncia già fatta, per spiegare il loro punto di vista, senza però mai rivelare che avevano segnalato le operazioni al revisore generale?
Infine, la questione Becciu. L’APSA lo ritiene innocente sul caso di Cecilia Marogna, o comunque non troppo responsabile, ma poi è l’unico ente a considerare un dolo. Eppure tutte le testimonianze concordano che il Cardinale ha solo proposto l’investimento in Angola, non ha avuto altro ruolo, e poi fu decisione dell’amministrazione della Segreteria di Stato a decidere di mantenere l’impegno con Mincione, coinvolto dal consulente Enrico Crasso perché esperto di acquisizioni nel ramo petrolifero e rimasto perché si era guadagnato la fiducia di Perlasca.
A questi cinque nodi si aggiungono varie domande, che toccano anche il ruolo dell’officiale dell’amministrazione Fabrizio Tirabassi, colui per il quale è stata richiesta dal promotore di Giustizia la pena più alta. Tirabassi, però, era un esecutore, non era a capo della gestione. Quali possono essere le responsabilità?
La crisi istituzionale
Poi c’è la crisi istituzionale generata dal processo stesso. Nelle parole dello IOR, è stato “messo in ridicolo il sistema finanziario vaticano”, nelle parole dell’ASIF il problema dei vertici in abuso di ufficio è giunto persino nel rapporto sui progressi 2021 di MONEYVAL, il Comitato del Consiglio d’Europa che valuta l’aderenza agli standard internazionali antiriciclaggio dei Paesi che vi si sottopongono.
La narrativa su quel rapporto è che il rapporto è stato particolarmente positivo. Ma quel rapporto non solo era un rapporto con più luci ed ombre di quelle che si vuole dire, ma metteva in luce che c’era una crisi, ma riguardava il sistema giudiziario vaticano.
MONEYVAL metteva infatti in luce le anomalie delle indagini. “Durante le ricerche – si legge al punto 234 – un numero di apparati e documenti sono stati sequestrati, alcuni dei quali contenevano informazioni che l’Unità di Informazione Finanziaria aveva ricevuto da altre cinque controparti europee”, e che includevano più di 15 comunicazioni tra AIF e le altre UIF europee.
A seguito di questa anomalia, che avrebbe messo a rischio gli scambi di intelligence, il Gruppo Egmont, che raggruppa le Unità di Informazione Finanziaria di tutto il mondo, ha sospeso l’accesso all’intranet per lo scambio di informazioni.
“Da discussioni con le autorità della Santa Sede / Stato di Città del Vaticano – si legge ancora nel rapporto – non è chiaro se le autorità giudiziarie abbiano valutato il rischio in relazione alle potenziali conseguenze internazionali per le Unità di Informazione finanziaria che potevano venire fuori da queste perquisizione”.
La crisi è rientrata solo con la firma di un protocollo tra AIF e Promotore di Giustizia per “assicurare che la confidenzialità delle informazioni ricevute dalle UIF straniere sia protetta in casi simili in futuro”.
Non solo. Il punto 257 del rapporto segnalava “come una vulnerabilità il fatto che non tutti i promotori di giustizia lavorano esclusivamente per la Santa Sede / Stato di Città del Vaticano. La valutazione ha notato che ‘non si possono escludere’ potenziali conflitti professionali e incompatibilità’. I valutatori possono comprendere la preoccupazione espressa nella valutazione”.
Interessante è che con l’ultimo cambiamento dell’ordinamento giudiziario di Papa Francesco sia caduto l’obbligo per almeno uno dei giudici del tribunale di essere full time al servizio del tribunale stesso. Che conseguenze avrà questa decisione a livello internazionale?
Vero è che la Segreteria di Stato è stata profondamente danneggiata, perdendo la gestione degli investimenti e l’autonomia, mentre lo IOR si è incredibilmente rafforzato: il Segretario di Stato non è più membro del board, tutti gli enti in Vaticano sono tenuti ad investire solo con lo IOR secondo la costituzione apostolica Praedicate Evangelium, e sembra che nessuno possa fermare questa incredibile crescita di autonomia.
Ma lo IOR è sempre un organo di Stato che ha rifiutato la richiesta di un organo di governo, che ha prima acconsentito ad un anticipazione e poi la ha cancellata – e ci sono almeno altri due casi negli ultimi anni in cui l’istituto ha aiutato a ripianare debiti: il prestito di 11 milioni alla diocesi di Terni, contabilizzato nel rapporto IOR 2014 ma precedente alla gestione De Franssu, e quindi la questione che riguarda il monastero benedettino di Dalia, nella diocesi di Porec-Pula, che risolveva un contenzioso tra l’abbazia e la vecchia proprietà del monastero. La vicenda era del 2011, l’aiuto IOR era stato ottenuto nel 2018-2019, quando era già arcivescovo Dražen Kutleša, ora arcivescovo di Zagabria.
Perché lo IOR ha detto di no, se poi l’ultimo rapporto IOR certifica che l’istituto avesse in pancia il denaro necessario?
È un processo con più luci che ombre alla fine, che lascia poi una domanda di fondo: ma se davvero Segreteria di Stato e IOR saranno risarciti per il danno reputazionale e davvero utilizzeranno i fondi ottenuti per campagne di promozione per sistemare la narrativa, come faranno? Si faranno degli spot? Si promuoveranno degli articoli sui giornali? Oppure semplicemente il denaro andrà a rifondare un bilancio che non sembra essere più tanto florido, specialmente dopo il COVID?
Processo Palazzo di Londra, cambia la narrativa
Nell’udienza del 5 ottobre, le difese di Bruelhart e Di Ruzza hanno ricostruito i fatti minuziosamente. È un cambio di prospettiva fondamentale per il processo. Le domande aperte
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 7. ottobre, 2023 11:00 (ACI Stampa).
Non è da sottovalutare il cambiamento di prospettiva che è avvenuto al processo vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato nell’udienza del 5 ottobre. Le difese di René Bruelhart e Tommaso Di Ruzza, rispettivamente presidente e direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria all’epoca dei fatti contestati, hanno ricostruito i fatti, messo in contesto i documenti, superato le ricostruzioni dell’accusa senza mai distaccarsi da quelli che sono gli atti del processo, ma anzi rileggendoli e guardandoli da una prospettiva diversa. E questa rilettura stringente ha operato un profondo cambio di prospettiva, che ha un valore importante non solo per gli imputati, ma per comprendere quello che è in gioco per la Santa Sede con questo processo.
In particolare, ci sono tre temi cruciali.
Il primo è il tema della collaborazione tra gli organismi vaticani e la Santa Sede, che sono chiamate a esercitare le proprie competenze (e, nel caso dell’AIF, di mantenere una giusta autonomia e indipendenza), ma allo stesso tempo sono costitutivamente chiamati a collaborare in unità di intenti per il bene superiore della Santa Sede. Il tema della collaborazione è stabilito proprio dalla Pastor Bonus, la costituzione apostolica che regolava la Curia al tempo dei fatti, ma anche Papa Francesco lo ha rimarcato numerose volte in questo pontificato.
Il secondo tema è quello del bene superiore, quello della Santa Sede, che riguarda anche la decisione di non procedere ad aprire un contenzioso legale prima di recuperare la proprietà stessa del palazzo di Londra che è oggetto del procedimento.
È emerso, tra l'altro, che la decisione di non procedere ad un contenzioso legale era stata specificamente presa dal Santo Padre ed eseguita dalla Segreteria di Stato come ente interessato della vicenda. Il consenso esplicito di Papa Francesco era stato comunicato sia al sostituto Pena Parra che a Bruelhart e Di Ruzza.
Questo modus operandi mostrava anche come gli enti vaticani fossero portati a collaborare, secondo quanto stabilito della Pastor Bonus. Infatti, la Segreteria di Stato, agendo dopo aver consultato il Papa – fatto descritto in maniera chiarissima dal sostituto Pena Parra nella sua spesso citata testimonianza –operava nelle sue funzioni di coordinatore, e chiamava l'AIF ad assistere nella pacifica risoluzione della dolorosa questione.
Infine, c'è il tema della tenuta internazionale della Santa Sede, perché il processo, e il modo in cui è stato portato avanti, hanno dato anche un duro colpo alla credibilità internazionale della Santa Sede.
Il processo e i capi di accusa
Prima di addentrarci nei temi, però, vale la pena riepilogare su cosa verte il processo per la gestione dei fondi della Segreteria di Stato.
Il processo si divide in tre tronconi principali. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che – inizialmente all’oscuro della Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il pieno controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.
Il secondo filone si concentra sul contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) per fini personali.
Le accuse contro Bruelhart e Di Ruzza
La contestazione agli ex vertici dell’AIF è quella di aver consentito (addirittura favorito) l’estorsione di cui è accusato il broker Gianluigi Torzi, e in particolare di non aver bloccato il pagamento della transizione che riportava il controllo del palazzo di Londra sotto la Santa Sede consentendo così a Torzi un “ingiusto vantaggio” a danno della Santa Sede stessa. Addirittura, si è lamentata una insistenza dei vertici AIF perché l’Istituto delle Opere di Religione concedesse alla Segreteria di Stato l’anticipo di credito che sarebbe servito ad estinguere il mutuo gravante sul palazzo permettendo alla Santa Sede di risparmiare ingenti spese di gestione.
Non solo. La requisitoria del promotore di Giustizia Alessandro Diddi lamentava che i vertici dell’AIF avessero omesso di denunciare al suo ufficio, accusa poi reiterata anche dall’Autorità di Supervisione e Informazione Finanziaria che si è costituita parte civile. Contro Bruelhart si è anche agitato lo spettro del conflitto di interessi, perché lo stesso Bruelhart era consulente della Segreteria di Stato.
Il promotore di giustizia aveva chiesto per René Bruelhart 3 anni e 8 mesi di reclusione, l’interdizione temporanea dai pubblici uffici e 10.329 euro di multa; per Tommaso Di Ruzza 4 anni e 3 mesi di reclusione, l’interdizione temporanea dai pubblici uffici e 9.600 euro di multa. Per entrambi, gli avvocati hanno chiesto l’assoluzione con la formula più ampia possibile.
In generale, nel rinvio a giudizio si parla di “ruolo poco chiaro” dell’Autorità. In che modo però questo ruolo poco chiaro viene definito?
Gli avvocati della difesa, in effetti, hanno sottolineato che le conclusioni del Promotore di Giustizia nella sua requisitoria ha piuttosto ripetuto le congetture e speculazioni dei capi di accusa originali, senza tenere conto delle testimonianze raccolte durante il processo.
La collaborazione tra gli enti vaticani e della Santa Sede
Il grande tema che era rimasto finora sottotraccia è il tema della collaborazione tra gli enti vaticani. Quando la Segreteria di Stato si rende conto di avere un problema nella gestione del palazzo di Londra, perché il broker Torzi ha tenuto per sé le sole azioni con diritto di voto e il controllo totale della gestione dell’immobile, chiede una collaborazione all’AIF. È marzo 2019. La Segreteria inoltra una segnalazione di transazione sospetta, e l’AIF attiva subito i canali di intelligence, mettendo in moto le Unità di Informazione Finanziaria di quattro Paesi esteri. Questa collaborazione non mina l’indipendenza e l’autonomia dell’Autorità. L’AIF è un organismo vaticano chiamato a collaborare per il bene della Santa Sede, e la Segreteria di Stato rappresenta la Santa Sede.
Le difese hanno notato che tutta l’attività fatta dall’AIF si configura come una consulenza alla Santa Sede volta a minimizzare i rischi, e concludere, senza incorrere ulteriori danni, una operazione che doveva riportare al controllo dell’immobile per poi poterlo mettere a reddito. Si trattava, tra l’altro, di farlo rispettando la volontà sovrana, cioè del Papa. Lo ha spiegato l’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto, nel suo interrogatorio del 16 marzo.
Questa collaborazione non ha conflitto di interesse sia perché parte costitutiva dell’organizzazione vaticana, sia perché l’interesse è uno solo, ed è quello superiore della Santa Sede.
Proprio in nome di questa collaborazione che la Segreteria di Stato si rivolge all’Istituto delle Opere di Religione per chiedere un credito di 150 milioni per estinguere il mutuo che gravava sull’immobile. Allo IOR era, in fondo, richiesto di supportare la Santa Sede.
Che ruolo ha l’AIF in questa vicenda? L’AIF vaglia le operazioni, assiste la Segreteria di Stato nel trovare una soluzione di uscita. Si pensa anche alla via giudiziale, cioè a denunciare Torzi, ma poi – su consiglio del prestigioso studio legale Mishcon de Reya, che assiste la Segreteria di Stato – si comprende che denunciare comporta più rischi che opportunità. Torzi ha un contratto e una ampia autonomia gestionale, e dunque potrebbe vincere la causa. Meglio riprendere il controllo dell’immobile, trattando con Torzi per la cessione delle quote sulla base dei contratti in essere, e poi eventualmente continuare a tracciare, indagare, non escludendo la possibilità di una frode che è contemplata come ipotesi di lavoro sin dalle prime comunicazioni con le UIF estere.
La difesa, inoltre, ha notato che nel momento in cui l’AIF è stato chiamato a svolgere le sue funzioni, la decisione del Papa di evitare l’approccio del “contenzioso legale subito” in favore dell’approccio “prendiamo controllo dell’immobile prima” era stata già presa e comunicata dal Santo Padre al Sostituto.
L’autonomia dell’AIF
All’AIF viene contestata una sorta di “omessa denuncia”. La tesi dell’accusa è che l’AIF abbia voluto nascondere i fatti, non avvisando l’ufficio del promotore di Giustizia, e venendo così a tradire la sua autonomia e indipendenza in favore della Segreteria di Stato. Ma tutti i regolamenti internazionali di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo sostengono che le unità di intelligence devono segnalare una transazione dopo aver svolto le proprie indagini, valutando se il sospetto di transazione illecito fosse concreto o meno. Il promotore di Giustizia non era chiamato ad intervenire.
Inoltre, l’AIF non vigila sulla Segreteria di Stato, ma solo sullo IOR. Alla Segreteria di Stato si limita infatti a consigliare in che modo portare avanti l’operazione di recupero dell’immobile, non decide mai al posto della Segreteria di Stato. Questa consulenza mina l’autonomia o la terzietà dell’AIF? No, non potrebbe mai. Rientra, piuttosto, nel principio della collaborazione verso il bene superiore della Santa Sede cui tutti gli enti vaticani sono tenuti.
La questione del prestito dello IOR
Lo IOR - che ha poi segnalato (con un timing "assai curioso" secondo una delle difese) la situazione lamentando irregolarità e dando il via alle indagini da cui scaturisce questo processo - ha detto a più riprese di non aver concesso il prestito alla Segreteria di Stato principalmente per due ragioni: perché non poteva costitutivamente fare prestiti; e perché vedeva dei lati “oscuri” o “vaghi” dell’operazione finanziaria. Tuttavia, hanno notato le difese, non è stato mai fornito contenuto o significato giuridico a questi termini.
Nonostante tutto lo IOR aveva inizialmente aperto al prestito, rispondendo che si poteva fare. L’arcivescovo Pena Parra aveva deciso di rivolgersi allo IOR proprio per risolvere la questione tra "le mura domestiche" andando a chiudere un mutuo oneroso (un milione di euro al mese di interessi da pagare) e aprendo invece un credito con quella che possiamo definire impropriamente la “banca di casa”. Il credito avrebbe aiutato la Santa Sede a liberarsi da una operazione inutilmente costosa e lo IOR avrebbe comunque avuto un vantaggio dalla concessione di credito.
Alla fine, il comportamento dello IOR appare non dare seguito al principio di collaborazione degli enti vaticani, perché non solo rifiuta il prestito alla Segreteria di Stato, ma denuncia lo stesso organo di governo. Eppure, l’AIF aveva prima di tutto fatto sapere che lo IOR era autorizzato a concedere credito.
Dato che lo IOR non è una banca, non può fare attività di concessione di credito regolare. Tuttavia, può concedere credito ad alcune condizioni, autorizzazione concessa già nel novembre 2015. Si possono fare prestiti al personale dello IOR, al personale della Santa Sede e ad altre autorità pubbliche in corrispondenza di un deposito vincolato.
Il prestito dello IOR rientrava in questo terzo caso. Era un prestito eccezionale, e l'eccezionalità non era legata all’importo, ma piuttosto al fatto che non è una attività che poteva svolgere in modo sistematico.
Lo IOR poteva tuttavia svolgere quell’operazione, prima di tutto perché era una operazione sostenibile. Ai fini dell’analisi prudenziale, il patrimonio minimo di vigilanza non deve essere inferiore all’8 per cento del patrimonio di rischio. Il dato da guardare nei bilanci è il TIER 1, cioè la componente primaria del capitale di una banca. Guardando il rapporto IOR del 2019, ai tempi in cui la Segreteria di Stato chiese e si vide rifiutato una anticipazione per l’acquisto del famoso palazzo di Londra, il TIER 1 era dell’82,40 per cento. Il patrimonio, insomma c’era.
Oltre la sostenibilità, l’AIF doveva valutare se l’operazione aveva un vantaggio economico. Il fattore di rischio dell’operazione era 0, ma gli interessi – lo rivela lo stesso Pena Parra – sarebbero stati concessi, e quindi si trattava di una operazione economicamente vantaggiosa per lo IOR.
Infine, serviva una garanzia, e la garanzia era data dall’immobile stesso: da qui, la necessità di riprenderne il controllo.
Di fronte a queste rassicurazioni, lo IOR arriva il 24 maggio a decidere che sì, il prestito si può concedere. Salvo fare marcia indietro subito dopo, chiedendo ulteriori garanzie e dettagli, che la Segreteria di Stato fornisce. Ma il punto è che lo IOR non è tenuto a sapere come la Segreteria di Stato gestisca i soldi. È tenuto solo a decidere se concedere un prestito o meno, dopo aver avuto l’autorizzazione a farlo. Come all’AIF non compete valutare l’operazione della Segreteria di Stato, ma solo di consigliare quale sia il percorso migliore.
Il comportamento dilatorio dello IOR, hanno notato le difese, è costato tra l’altro caro alla Santa Sede, che continuava a pagare un milione di euro al mese del finanziamento precedente. Il prestito IOR serviva, come detto, proprio a estinguere il precedente finanziamento.
Non solo, dunque, lo IOR è venuto meno al principio di collaborazione, ma è anche andato oltre le sue competenze. Tra l’altro, la Commissione Cardinalizia dello IOR non sembra essere stata messa a piena conoscenza della situazione dai vertici laici dell'Istituto, né della richiesta di prestito, né poi della decisione dello IOR di denunciare. In che cosa, dunque, la Commissione dovrebbe “vigilare sulla fedeltà alle norme statutarie” se poi non viene coinvolta quando si tratta di prendere decisioni di aiuto alla Santa Sede?
Le arringhe difensive
Fin qui la ricostruzione dei fatti, fornita dagli avvocati con date e documenti. L’avvocato Filippo Dinacci, che rappresenta René Bruelhart insieme ad Ugo Dinacci, ha sottolineato che l’accusa è “una ipotesi, e come tale va verificata. E devo dire che, nel caso di specie, l’accusa si presenta abbastanza inconclusa in fatto e inconcludente in diritto”.
Lo stesso Dinacci ha ricordato che le istituzioni in Vaticano “hanno un obbligo funzionale ad agire con una unità di intenti; quindi, abbiamo anche una forma di paradosso dell’accusa che contesta un abuso d’ufficio sul presupposto che i pubblici ufficiali accusati avrebbero osservato quel dovere di unità operativa che è imposta dalla legge fondamentale dello Stato”.
Roberto Borgogno e Angela Valente, legali di Di Ruzza, hanno ripercorso punto per punto tutta la vicenda di Londra e del coinvolgimento dell’AIF. Valente, in particolare, ha notato come gli incontri avvenissero sempre ai vertici, e messo in luce come non ci sia un documento scritto dello IOR che mette in luce le perplessità dell’operazione. Semplicemente, a un certo punto finiscono le comunicazioni.
Lo IOR non fa nemmeno sapere di aver fatto una denuncia. Il direttore generale dello IOR Gianfranco Mammì, durante l’interrogatorio, ha detto che aveva ricevuto una valutazione negativa all’operazione. Gli è stato fatto notare che il parere tecnico che aveva ricevuto presentava riserve ma non era negativa. Voi potete dire che quel parere tecnico è positivo, ma per me è negativo”, è stata la risposta, secca, di Mammì, ricordata dall’avvocato Valente.
Borgogno ha notato che la omessa denuncia, tra l’altro nemmeno contestata tra i capi di imputazione, alla fine non è stata nemmeno contestata alla Segreteria di Stato.
Resta poi il profilo dei due imputati, perché un abuso di ufficio, ha notato Borgogno, prevede anche un vantaggio personale. Bruelhart, prima di entrare a lavorare in Vaticano, era vicepresidente dell’Egmont Group, che riunisce le Unità di Informazione Finanziaria del mondo, e aveva una credibilità internazionale sul ramo antiriclaggio di altissimo profilo. Di Ruzza, ha notato Borgogno, ha dedicato tutta la sua vita alla Santa Sede.
E c’è da dire che fu proprio Di Ruzza l’architetto principale dell’attuale legge antiriciclaggio vaticana, che tuttora protegge la Santa Sede. Come va notato che la Santa Sede perde credibilità internazionale proprio a ragione delle indagini e delle persecuzioni effettuate negli uffici dell’AIF, che portano al sequestro di documenti appartenenti alle UIF. Lì fu violata l’autonomia dell’autorità, tanto è vero che l’Egmont Group sganciò l’AIF dal sistema sicuro di scambio di informazioni, e solo un protocollo di intesa tra Promotore di Giustizia e la nuova Autorità permise di rientrare nel circuito.
I rischi per la Santa Sede
Questa ricostruzione mette in luce che a livello internazionale non sono in discussione la reputazione di Bruelhart e Di Ruzza, ma piuttosto la reputazione internazionale della Santa Sede. Come si sa, la Santa Sede si è sottoposta al sistema di mutua valutazione di aderenza agli standard internazionali antiriciclaggio del comitato MONEYVAL del Consiglio d’Europa. Il rapporto di MONEYVAL che ha fatto seguito all’inizio delle indagini segnalava già diverse criticità, ed era un rapporto con luci ed ombre, certamente più negativo degli altri rapporti sui progressi cui si è sottoposta la Santa Sede nel corso degli anni. Questo segnala un passo indietro da non sottovalutare, perché testimonia che il sistema costruito ora ha una debolezza. Tra l'altro, anche l’ultimo rapporto di MONEYVAL del 2021 segnala i risultati modesti della giustizia vaticana a seguito dei rapporti dell’AIF, mentre il Rapporto AIF del 2020, pubblicato dalla nuova dirigenza dell’AIF, andava persino a notare che nel 2019 l’AIF ha intensificato la propria azione in tutti gli ambiti di attività, e confermando il trend di crescita nella proporzione tra Rapporti inviati e segnalazioni ricevute.”
Una debolezza dimostrata dal processo stesso. In una situazione di normalità, AIF, Promotore di Giustizia, organi dello Stato, Gendarmeria collaborano normalmente, mantenendo ognuno la propria autonomia e competenza. Questo non è accaduto, e la cosa non può che creare al limite perplessità in ambito internazionale. Si pensi solo al fatto che un ente vigilato, lo IOR, che pretende denunciare l’ente vigilante, l’AIF, causando un “raid” della Gendarmeria negli uffici dell’AIF che interferiva con la sua independenza e autonomia. Basta questo dettaglio a mostrare la “stranezza” della situazione che si è creata in Vaticano.
Poi ci sono i rischi connessi al processo stesso. Il Papa vi è intervenuto con quattro rescritti, cambiando in qualche modo le regole del gioco. Ma lo stesso Papa aveva autorizzato le operazioni, tutto era stato deciso per volontà sovrana. Questi rescritti, dunque, che estendono la possibilità delle indagini non possono apparire piuttosto una alterazione del processo stesso da parte del sovrano?
Sono domande che bruciano, mentre ora c’è la possibilità di guardare i fatti da un’altra prospettiva. Il tema non è la gestione dei fondi, né l’eventuale scandalo. Il tema è piuttosto se il Promotore di Giustizia ha perseguito una valanga di ipotesi di reato, mai provate, e, così facendo è, alla fine, riuscito a mettere sotto accusa un sistema funzionante e riconosciuto a livello internazionale.
https://www.acistampa.com/story/23438/processo-palazzo-di-londra-cambia-la-narrativa
Processo Palazzo di Londra, le difese rimettono in discussione l’accusa
Due udienze in questa settimana, alle difese dell’officiale di Segreteria di Stato Tirabassi e all’avvocato Squillace. Dubbi sulle indagini e sul processo. Verso un altro cambio di narrativa?
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 21. ottobre, 2023 11:00 (ACI Stampa).
Dopo il cambio di narrativa sul processo riguardante la gestione dei fondi della Segreteria di Stato in Vaticano imposto dalle difese degli ex vertici dell’Autorità di Informazione Finanziaria, anche la difesa dell’officiale di Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi contribuisce a delineare un quadro di verso da quello descritto nella requisitoria del promotore di Giustizia Alessandro Diddi, rimasto ancorato alla sua prima ricostruzione dei fatti e noncurante dei rilievi avvenuti in sede dibattimentale.
L’avvocato Intrieri ha dettagliato le accuse contro il suo assistito, e ha ricostruito la situazione della compravendita dell’immobile di Londra, sottolineando il coinvolgimento attivo di monsignor Alberto Perlasca, ai tempi dell’acquisto capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato Vaticana, nonché il fatto che tutti conoscevano in Vaticano il modo in cui le quote dell’immobile erano state passate dalla gestione del fondo GUTT al fondo Athena, e agitando persino lo spettro della ragione di Stato. Ma prima di andare nella cronaca, vale riepilotare su cosa verte il processo.
Il processo e i capi di accusa
Il processo si divide in tre tronconi principali. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che – inizialmente all’oscuro della Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il pieno controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.
Il secondo filone si concentra sul contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) per fini personali.
La difesa di Tirabassi
Su cosa si poggia la difesa di Fabrizio Tirabassi? Sono tre i temi principali messi sul tavolo dall’avvocato Intrieri: l’impossibilità di fare qualunque scelta senza ricevere l’approvazione dei superiori; il fatto che tutti fossero consapevoli dell’operazione di Londra; il fatto che il processo si basa su premesse che sembrano piuttosto labili, e su quelle che l’avvocato ha chiamato “bugie”, mostrando invece carte che dimostravano il contrario. Sullo sfondo, quello che l’avvocato lamenta come “un pregiudizio” dell’ufficio del promotore di Giustizia, che invece si sarebbe lui stesso trovato in una situazione non chiara, tanto è vero che addirittura gli avvocati avrebbero pensato di ricusarlo.
Un processo simbolico e morale
Soprattutto, il limite è quello che ci si trova di fronte a un “processo morale”, simbolico di “uno slancio di rinnovamento” che vuole mostrare la Santa Sede, e che però ha il limite di tutti i processi simbolici “da Norimberga a Mani Pulite”, ovvero che “lo strumento del processo forza le ragioni del diritto”.
Allora “simbolo non è solo un processo, ma diventa archetipo di qualcosa, di un male di un fenomeno”, e in questo processo ci troviamo davanti “una singolare compagnia dell’anello”, in cui ci si trova davanti anche il suo assistito “definito da monsignor Perlasca un traffichino”.
Insomma, quando il sistema “non riesce a gestire i conflitti che si producono al suo interno, la vittima è una soluzione spiccia. L’espiazione di una colpa da parte di un uomo solo solleva i protagonisti della crisi dall’assunzione delle responsabilità e consente al sistema di non mettersi in discussione”.
E così, il processo ha ricordato “in sedicesimo il processo della trattativa Stato – Mafia. Abbiamo dei rappresentanti dello Stato che trattano con un presunto estortore, riescono ad ottenere il risultato dell’obiettivo che gli è stato dato dall’alto, cioè di riportare a casa il tesoro, e poi finiscono tutti sotto processo”.
Le premesse del processo
L’avvocato Intrieri nota che tutti sapevano della vicenda del Palazzo di Londra, persino il Papa che infatti interviene, riceve l’arcivescovo Pena Parra, invia il suo amico Giuseppe Milanese a cercare di negoziare l’uscita di Torzi dalla gestione delle quote, eppure non lo sa il Promotore di Giustizia, che aspetta che lo chiamino mentre nemmeno il sostituto si fida.
E tutto nasce da una denuncia “striminzita” dello IOR e una del revisore che “in otto pagine, fa il resumé di una revisione fatta otto mesi prima e depositata già a gennaio 2019, in cui parla di GUTT (la società di Torzi, ndr), della trattativa per l’uscita dalle quote, e non si muove nessuno”.
In pratica, era da tempo che si lavorava perché la Santa Sede potesse riprendere il controllo del palazzo, c’è persino una foto del Papa a Santa Marta con Torzi a Natale 2018, e si trova in tutto “la presenza pervasiva di monsignor Perlasca”, uno “dei cinque-sei miracolati del processo”.
Eppure, quando il revisore deposita la sua revisione “nessuno si muove”, e invece ci si muove dopo che la Segreteria di Stato fa “una richiesta di mutuo”.
La posizione dello IOR
Anche il direttore generale dello IOR Gianfranco Mammì – nota l’avvocato Intrieri – “sa tutto, viene informato anche della questione della possibilità di fare il prestito” e, nonostante dica che lui abbia saputo solo dopo della gestione societaria che si celava dietro Sloane Avenue, “purtroppo dice il falso”, perché “sa tutto, sa quanto è complicata la vicenda, sa i vari passaggi”.
Intrieri ricostruisce i passaggi, mostra la lettera del Cardinale Parolin in cui il Segretario di Stato “chiede il finanziamento, precisa la somma, la motiva ai fini istituzionali al fine di proteggere gli investimenti”, e a questo finanziamento “erano tutti incondizionatamente favorevoli”, ma questa richiesta resta nel cassetto, fino a un parere favorevole dello stesso IOR, tanto che “il 4 giugno 2019 il sostituto porta al Santo Padre una nota relativa all’estinzione del mutuo e dice che è riuscito a ottenere il prestito dello IOR. Troppo ottimista”.
Eppure “l’operazione in sé appariva economicamente motivata”, tanto che poi, da lì ad un anno, l’APSA e lo stesso IOR “concederanno il prestito alla Segreteria di Stato”, 17 milioni che in realtà coprono le perdite che la Segreteria di Stato ha subito nel pagare un mutuo oneroso a Cheyne Capital mentre lo IOR tergiversava, questo testimonia che “Mammì è venuto a ribadire una posizione insostenibile sostenendo che non erano autorizzato a dare credito”, e invece lo erano.
E si arriva così “alla cosa più incredibile di tutte”, ovvero la riunione in Segreteria di Stato tra i vertici vaticani, quelli AIF e quelli di IOR. “Il presidente dello IOR de Franssu dice: “la abbiamo fatta per risolvere un problema. E avevano già presentato la denuncia”.
Le anomalie del processo
Intrieri descrive anche le anomalie del processo, nota che nella questione del palazzo della Borsa di Budapest, altra vicenda finanziaria che vede lo IOR coinvolto, gli ex vertici dello IOR sono stati citati in giudizio per mala gestio, e in un processo civile, non in un processo penale. Ci si chiede allora perché si sia deciso addirittura di procedere penalmente, e con l’intervento di Papa Francesco con quattro rescritti – a partire dal primo in cui si da allo IOR “il permesso di collaborare solo con il promotore di giustizia e nessun’altra autorità”, mentre vengono condotte perquisizioni, intercettazioni, persino interrogatori – nota Intrieri, ripercorrendo anche altre testimonianze processuali – “irregolari”, con il risultato che la Segreteria di Stato viene completamente trascurata, mentre “l’indagine del promotore parte dalla falsa verità del dottor Mammì che omette di indicare tutti i passaggi”.
Un grande complotto?
E allora come si arriva alla prima trattativa di Londra, quella che sposta il controllo delle quote dell’immobile da Mincione a Torzi? E come si arriva al totale controllo del palazzo operato da Torzi con le golden share, cioè le sole mille azioni con diritto di voto?
Torzi – nota Intrieri – ha “la convinzione di essere legittimato dall’esercizio della gestione che gli era stata promessa da Perlasca.” L’accusa, aggiunge l’avvocato, delinea un quadro in cui “Enrico Crasso, Gianluigi Torzi e Fabrizio Tirabassi” si muoverebbero in contrasto con le direttive che vengono loro date.
Ma l’indagine non ha tenuto conto di alcune deposizioni importanti, come la nota di Pena Parra, e ha preferito “una altra strada che ha visto irruzione sulla scena di personaggi equivoci che sarebbe stata messa da parte – come la signora Chaouqui, che sarebbe stato meglio di non sentire”, nasce con una denuncia “tardiva di Mammì”.
Intrieri delinea un quadro di pressioni, ricorda l’incarcerazione per otto giorni di Gianluigi Torzi in Vaticano, mette in luce che le intercettazioni autorizzate da un rescritto vengono disposte il 6 agosto, addirittura prima della denuncia del revisore dell’8 agosto, e si intercetta anche monsignor Mauro Carlino che “al tempo non era nemmeno conosciuto dal promotore di Giustizia”.
Le perdite della Segreteria di Stato
E intanto, nota Intrieri, i bilanci dello IOR “non sono brillanti”, e lo IOR fa calare drammaticamente il contributo dato alla Segreteria di Stato. L’attenzione, però, è sull’investimento di Londra, ma “dire che un investimento è illecito perché il risultato è stato sbagliato è scorretto finanziariamente e logicamente. Se avesse fatto guadagnare la Chiesa qualcuno avrebbe contestato il peculato?”
L’avvocato di Tirabassi lamenta l’interrogatorio “quasi intimidatorio” a Perlasca, paventa il dubbio che la signora Genevieve Ciferri (che aveva “guidato” monsignor Perlasca in alcune situazioni, e che è stata interrogata) abbia indirizzato a senso unico le indagini su Tirabassi, Crasso, il Cardinale Becciu, ricorda che Perlasca si sentisse minacciato eppure “non si è mosso nessuno, ed è un silezio che parla da solo”.
Sono tutte circostanze che fanno aleggiare sulla vicenda – sottolinea l’avvocato Intrieri – “il sospetto della ragione di Stato”.
Nel mezzo si trova Fabrizio Tirabassi, che in realtà – spiega Intrieri – fa le ragioni della Segreteria di Stato, durante la trattativa di Londra aspetta fino all’ultimo anche una firma del sostituto per chiudere l’operazione laddove la Segreteria di Stato “era solo per osservare, perché l’accordo doveva essere tra le altre società”, mentre Pena Parra arriverà poi ad avocare a sé tutta la gestione di Londra, come spiega nel memoriale. Eppure – nota Intrieri – “il sostituto non è mai stato interrogato in istruttoria”, sebbene consegni il memoriale in cui nota di “essere tenuto all’oscuro della trattativa”.
Poi c’è la trattativa con Torzi, la presunta estorsione, eppure il 3 per cento che si definisce, che però sarebbero una sorta di standard riconosciuto per la gestione e l’uscita della gestione. Se tutte queste sono le evidenze “si torna all’idea del capro espiatorio”
La gerarchia della Segreteria di Stato
L’avvocato Intrieri mostra due documenti del Cardinale Pietro Parolin, uno che richiede a Credit Suisse il rifinanziamento di un credito alla base delle trattative, e l’incarico di sostituto dato a Pena Parra, e in entrambi i casi si dettaglia il pieno potere di firma dato al promotore, anche “poteri di firma disgiunta su ogni contratto”.
In fondo, di fonte alla legge vaticana “l’unico responsabile di un determinato atto è il superiore”. Tirabassi poteva decidere da solo? No, nota Intrieri. Tirabassi voleva nascondere i suoi incontri? No, risponde ancora Intrieri, tanto è vero “la preparazione dei fatti di Londra è preceduta da una serie di incontri dei magnifici tre Giovannini, Intendente e Milanese con Tirabassi, ma anche due incontri in Segreteria di Stato, a metà e fine ottobre 2018”.
La posizione di Squillace
Secondo Intrieri anche l’avvocato Squillace “dice qualche bugia”, specialmente per quanto riguarda il suo ruolo nella trattativa di Londra.
Il 20 ottobre è stato sentito il legale di Squillace, che ha chiesto la assoluzione da tutte le imputazioni, dalla truffa all’appropriazione indebita, fino al riciclaggio perché il fatto contestato non sussiste. Su Squillace pende una richiesta di condanna a 6 anni di reclusione, con sospensione dall’esercizio della professione e una multa per 12.500 euro.
L’accusa contesta a Squillace di aver scritto il documento con tutte le risposte ai dubbi del sostituto della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Edgar Peña Parra sui contratti con i quali il controllo del palazzo di Londra passava, tra il 20 e il 22 novembre 2018, dal fondo Athena del broker Raffaele Mincione (imputato) alla società Gutt di Gianluigi Torzi (anche lui imputato).
Secondo l’avvocato, non c’è prova che Squillace abbia truffato la Segreteria di Stato, perché “ufficialmente non è mai stato incaricato di assisterla” , né si può rivendicare la paternità delle question and answers.
Insomma, la responsabilità di Squillace “deriva da un messaggio in cui dice a Torzi, sono stato tre ore al telefono con Tirabassi e domani arriva la procura” anche se non ne è sicuro.
Si è anche parlato di “truffa contrattuale”, ma il legale ha redatto, ricorda Bertacco, solo il Framework Agreement (Fa), che definiva l’uscita della Segreteria di Stato dal fondo Athena di Raffaele Mincione per entrare, per la gestione del palazzo di Londra, nella società Gutt con Gianluigi Torzi. E non lo Share Purchase Agreement (Spa), che lasciava a Torzi mille azioni con diritto di voto della società Gutt, che per sei mesi ha controllato il Palazzo di Sloane Avenue, lasciando alla Segreteria di Stato 30 mila azioni senza diritto di voto e senza controllo dell’immobile.
Sono comunque contratti “non ingannevoli né fraudolenti”, e la clausola delle golden share a Torzi “sono una clausola”, mentre non c’è traccia di scambi di email tra Squillace e Perlasca e Tirabassi, né la Segreteria di Stato, secondo l’avvocato, “ha tratto alcun pregiudizio economico dalla condotta di Squillace".
E Squillace non sarebbe responsabile della presunta estorsione di Torzi – dice l’avvocato – perché “non sapeva niente” della richiesta del suo assistito, e “di questo non si è occupato” nonostante fosse l’avvocato del broker, né ci sarebbe prova della contestata appropriazione indebita e successivo riciclaggio di circa 619 mila euro, perché la cifra è piuttosto
“è il totale dei trasferimenti da un conto di Squillace ad un altro, frutto di parcelle per rapporti professionali precedenti e successivi alla vicenda” del palazzo di Londra. La parcella richiesta di 350 mila euro alla Segreteria di Stato.
I prossimi appuntamenti
Come procederà il processo? L’8 novembre, alle 16, interverrà la difesa di Gianluigi Torzi, così come pure il 21 novembre. Il 9 e il 10 novembre sarà la volta dell’avvocato di Enrico Crasso. Il 20 novembre, i legali di monsignor Mauro Carlino, mentre il 22 novembre, e forse per un’oretta del 6 dicembre (insieme con la seconda parte dell’arringa del legale di Fabrizio Tirabassi), è prevista la difesa del cardinale Angelo Becciu. Il 4 e il 5 dicembre, toccherà infine ai legali di Raffaele Mincione.
Processo Palazzo di Londra, verso la sentenza a metà dicembre
Tre udienze, tutte molto critiche nei confronti sia del modo in cui sono state condotte indagini e interrogatori, sia degli atti di accusa. Verso la sentenza a metà dicembre
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 11. novembre, 2023 14:00 (ACI Stampa).
Nella settimana che termina il 16 dicembre, non solo saranno finite tutte le arringhe difensive dei dieci imputati, ma avranno avuto luogo anche le repliche del promotore di Giustizia Alessandro Diddi (l’11) e le controrepliche dei difensori (il 12). E dunque sarà alla fine di quella settimana e all’inizio della successiva che il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone potrebbe consegnare la sentenza, che chiuderebbe così il processo di primo grado dedicato alla gestione dei fondi della Segreteria di Stato.
La sentenza non metterà una pietra tombale sulla vicenda, perché ci saranno gli appelli. Però avrà la capacità di mettere in luce come il Tribunale vaticano ha recepito questi due anni e tre mesi di processo, quattro anni includendo le indagini, la cui narrativa era inizialmente squilibrata verso le tesi dell’accusa e poi, man mano che si dipanavano le vicende, diventava più simpatetica verso gli imputati, fino al drastico cambio di narrativa che è avvenuto con le ultime arringhe.
Documenti alla mano, ci si trova di fronte ad indagini che non hanno considerato tutti i contesti e le vicende, che hanno creato un quadro accusatorio sul quale sono rimasti fermi (nella sua requisitoria, Diddi ha mantenuto tutti i punti del rinvio a giudizio di tre anni fa, come se non ci fosse stato dibattimento), e che ora si trovano messe in discussione dai difensori degli imputati.
Questo scenario si è ripetuto durante le ultime tre udienze, che hanno visto l’arringa dell’avvocato Matteo Santamaria, uno dei difensori del broker Gianluigi Torzi, e poi la lunga arringa dell’avvocato Luigi Panella, difensore di Enrico Crasso, che per anni è stato incaricato di gestire i fondi della Segreteria di Stato. Panella, tra l’altro, ha ribadito la necessità di azzerare il processo di fronte ai tanti vizi procedurali, e soprattutto di fronte agli interventi pesanti del Papa sulle procedure (ben quattro rescritti) che avrebbero portato ad un processo che “non si sarebbe potuto celebrare in questo modo”.
Prima di andare nel dettaglio delle udienze, vale la pena però riassumere il quadro delle accuse.
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Il processo e i capi di accusa
Il processo si divide in tre tronconi principali. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che – inizialmente all’oscuro della Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il pieno controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.
Il secondo filone si concentra sul contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) per fini personali.
L’arringa dell’avvocato di Torzi
Va ricordato che il 5 giugno 2020 Gianluigi Torzi è stato incarcerato in Vaticano, dove si era recato per essere interrogato, con una procedura quanto mai inusuale.
Oggi è latitante a Dubai, negli Emirati, perché sulla sua testa spicca un mandato di cattura, ma di certo non ha dimenticato l’esperienza del carcere vaticano, da cui è uscito con un corposo memoriale.
Torzi è accusato di peculato, truffa, appropriazione indebita, riciclaggio, autoriciclaggio, corruzione, estorsione. In particolare, l’accusa sostiene che l’estorsione abbia avuto luogo quando Torzi accettò di liquidare le sue mille azioni con diritto di voto del palazzo di Sloane Avenue a seguito di un pagamento di 15 milioni.
L’avvocato ricorda l’episodio “doloroso” dell’arresto, parla di “interrogatorio aggressivo”, “Domande nocive”, “presupposti errati”, e sottolinea che l’arresto è “il simbolo delle modalità in cui è stata condotta l’indagine”.
Santamaria definisce l’indagine “caotica”, fatta sulla base di tesi, lamentando che “anche chi ci insegna e ci fa appassionare al valore dei diritti è disposto a sacrificarli sull’altare di interessi ulteriori, come quello investigativo”.
Santamaria ha smontato una per una le ipotesi accusatorie, partendo proprio dalla descrizione del presunto reato. Ha ricordato che le clausole contrattuali sulle quote dell’immobile erano chiare, che Mincione non era tenuto a cedere le quote perché c’era un lock up, era un contratto che prevedeva uno sviluppo su una base temporale, e che lo stesso broker ha rinunciato a quello che lui chiamava un trophy asset per una cifra definita da Santamaria congrua pari a 40 milioni di euro.
Il dito dell’avvocato Santamaria è stato puntato poi sull’architetto Luciano Capaldo, prima collaboratore di Torzi e poi della Segreteria di Stato, che sarebbe stato, secondo le testimonianze di Pena Parra. Secondo l’avvocato, Capaldo ha rilasciato una “deposizione inquietante”, anche perché lui stesso avrebbe determinato “valori gonfiati” dell’immobile.
Santamaria sostiene che si nota che “Capaldo è al centro del progetto, fa tutto lui”, “Capaldo dovrebbe stare sul banco degli imputati”.
L'avvocato Santamaria parla anche del presunto ruolo dello studio Dentons. “Se si dovesse applicare la disciplina che indica la parte civile IOR – sottolinea Santamaria - io credo che ci dovrebbe essere Dentons”. Questa, aggiunge l’avvocato “fa da consulente nella trasformazione del fondo UK Opportunities”, ed è una consulenza “non solo formale, ma sostanziale”, “non fa una consulenza fiscale”, “ha visto tutti i contratti, è responsabile di tutti i contratti. Se leggete, i documenti costitutivi sono tutti approvati e rivisti da Dentons e Segreteria di Stato”. È comunque un tema che fino ad ora è stato sollevato solo dall’avvocato Santamaria e non prevede alcun tipo di reato.
Non si è affrontato il tema della presunta estorsione, che sarà invece parte di una seconda fase dell’arringa difensiva di Torzi. Resta la feroce critica delle procedure adottate durante l’indagine, che non è nuova all’aula e che mette, ancora una volta, in discussione il modo in cui l’impianto accusatorio è stato costruito.
L’arringa dell’avvocato di Crasso
Luigi Panella, avvocato di Enrico Crasso, è andato ancora oltre con la critica, chiedendo addirittura l’azzeramento dell’intero dibattimento, perché si sarebbe derogato dalle regole del giusto processo.
In particolare, Panella ha parlato di “mancato rispetto” da parte del promotore, durante le indagini, dell’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. In realtà, la Santa Sede non ha mai sottoscritto la convenzione (ci sono dei problemi, soprattutto riguardo i nuovi diritti che promuove), ma secondo Panella comunque la Santa Sede vi avrebbe aderito quando ha sottoscritto la Convenzione Monetaria dell’Unione Europa.
Su Crasso pende una richiesta di condanna di 9 anni e 9 mesi di reclusione più 18 mila euro di multa per i reati di riciclaggio e autoriciclaggio, truffa, peculato, abuso d’ufficio, corruzione, estorsione, falso materiale di atto pubblico commesso dal privato, falso in scrittura privata e indebita percezione di erogazione a danno dello Stato.
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Panella punta il dito contro i rescripta del Papa, che avrebbero riportato le lancette della storia indietro a Canossa, al 1075, con il Papa re. “Questo – sottolinea Panella - è un processo storico: saremo giudicati per quello che diremo e per quello che faremo”.
Pannella affronta, uno ad uno, i 20 capi d’imputazione a carico del suo assistito, e quello, la truffa, a carico delle società riconducibili a Crasso, da HP Finance LLC a Prestige Family Office SA, fino a Sogenel Capital Investment. Crasso in realtà ha gestito i fondi della Segreteria di Stato prima come dipendente di Prime Consult e poi di Credit Suisse.
Panella contesta il fatto che Crasso fosse “un pubblico ufficiale”, come si definisce in dodici imputazioni, anche se poi in un’altra imputazione, del 30 marzo 2023, viene definito estraneo alla Pubblica Amministrazione Vaticana.
L’avvocato ha dunque gioco facile a sottolineare che il promotore di Giustizia “confonde la gestione degli investimenti della Segreteria di Stato e la gestione del cliente Segreteria di Stato per conto della società Credit Suisse”, che è quello che avrebbe fatto il suo assistito. Che “è sempre stato retribuito dalle banche e dalle società d’investimento, non dalla Segreteria di Stato”.
Non solo. Crasso controllava soprattutto che gli investimenti di Segreteria di Stato fossero compatibili con la sua classe di rischio, e l’avvocato mette in luce come quel tipo di investimenti immobiliari fossero operati dalla Segreteria di Stato già dagli anni Novanta.
Diverso il discorso delle presunte “tangenti”, che in realtà sono – spiega l’avvocato – le fees che Crasso riceveva per la sua attività di introducer.
Da Falcon Oil al Fondo Athena
Come si è arrivati all’investimento di Londra? Si partiva dall’ipotesi di investire sulla Falcon Oil, una società petrolifera in Angola, e Mincione era stato individuato come un esperto di commodities. Quando si decise di non investire più perché non ce n’erano le condizioni, fu lasciata a Mincione libertà di investire. Ma cosa sapeva Crasso di come Mincione gestisse l’investimento? Nulla, secondo l’avvocato, che contesta così molti dei reati già nei presupposti.
Panella poi sottolinea che "è un'assurdità anacronistica pensare che la Chiesa debba liberarsi dei sui beni, dei suoi immobili per darli ai poveri: anche secondo il Codice di Diritto canonico, la Chiesa può possedere, gestire e amministrare i suoi beni per ottenere i suoi fini” pastorali e di evangelizzazione. “La stessa destinazione delle offerte dei fedeli – per Panella - può essere il mantenimento della Sede apostolica e il complesso delle sue attività, cosa sfuggita al promotore di giustizia, che ha confuso l'impiego dei beni con la loro amministrazione".
Gli investimenti di Crasso
Considerando che gli investimenti sono sempre stati in linea a partire dagli anni Novanta, dice l’avvocato, è “grave dire, come ha fatto la parte civile Segreteria di Stato, che grazie al Cardinale Becciu i mercanti sono entrati nel tempio”. Anzi, anche il “credit Lombard” – una particolare forma di prestito - utilizzato nel 2012 per reperire le risorse per Falcon Oil “ha fruttato 16 milioni di sterline di plusvalenze” e dunque è stata una ottima soluzione per la Segreteria di Stato.
Per quanto riguarda invece il coinvolgimento di Crasso nell’acquisto del palazzo di Londra, questi non aveva “prima di tutto idea del valore dell’immobile”. Poi, è vero, partecipò alle riunioni a Londra per il passaggio delle quote dalla GOF di Mincione alla GUTT di Torzi, ma non solo non fu parte di “alcun accordo fraudolento”, ma era stato anche escluso dalle riunioni dopo aver messo in luce alcune criticità. Insomma, Crasso, non aveva partecipato alla definizione dell’accordo che conferiva a Torzi le uniche mille azioni con diritto di voto, e non ha mai “dettato” il famoso memorandum del novembre 2018, richiesto dal nuovo sostituto, l’arcivescovo Edgar Peña Parra, all’avvocato Squillace, un altro degli imputati.
Secondo l’avvocato Panella, il processo è stato costruito su “elementi privi di fondamento”. Crasso è coinvolto anche in un incontro con l’officiale di Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi (anche lui sotto processo) e il broker Torzi all’Hotel Bulgari di Milano nel dicembre 2018. Lo stesso Crasso registrò la conversazione, e l’avvocato dice che dalla conversazione integrale si nota chiaramente come Crasso sia estraneo alle vicende, piuttosto marginale, mentre sono attivi gli officiali di Segreteria di Stato che cercano di convincere Torzi a cedere le sue quote alla Santa Sede.
L’obiettivo di Torzi – secondo il suo avvocato – era quello di “fare fuori” Crasso dalla gestione degli investimenti e prendere il suo posto.
La riunione era “molto tesa” – spiega il legale – ma dalla registrazione non risulta nemmeno che nessuno abbia mai offerto a Torzi 9 milioni, e dunque né l’estorsione di Torzi né la corruzione potrebbero sussistere.
Anzi, il momento in cui viene proposto di far transitare le azioni attraverso il fondo Centurion riconducibile a Crasso viene considerato da Torzi un “atto di guerra”, ed è in quello stesso giorno che si apre la chat di gruppo “I magnifici tre” con Torzi, Giuseppe Milanese (ovvero l’amico di Papa Francesco chiamato dal Papa a fare il negoziato con Torzi per rilevare l’immobile, che poi uscirà di scena) e l’avvocato Manuele Intendente. Torzi escluderà l’officiale di Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi dal board GUTT.
Era stato Perlasca, continua la difesa, a consigliare, per uscire dall’impasse, la sottoscrizione di quote del fondo Centurion. Panella sottolinea che la Segreteria di Stato “non ha tratto alcun dalle operazioni” svolte con le società di Crasso Hp Finance, Prestige e Sogenel, anzi come sottoscrittore di Centurion la Santa Sede ha goduto di una plusvalenza di 5,5 milioni di euro.
L’avvocato Panella sottolinea che non ci sono prove nemmeno della corruzione di Crasso e Tirabassi compiuta dal broker Raffaele Mincione, tra gli imputati, come sostenuto da Torzi (in una dichiarazione non utilizzabile nel processo) e il testimone Fabio Perugia, che riferisce accuse sentite da Alessandro Noceti e che “aveva solo l’interesso di prendere il posto di Crasso come consulente della Segreteria di Stato”.
L’avvocato nega l’accusa di autoriciclaggio. La società Aspigam, che veniva usata come veicolo ed era di proprietà del broker Simetovic e non di Crasso, ha ricevuto dal Fondo Athena 2 milioni 259 mila dollari americani, e 3,5 milioni di euro sono stati versati a Divanda, società di Crasso. Ma questa cifra sarebbe quelle delle commissioni da Credit Suisse attraverso Apsigam a Crasso, per la sua attività di introducer, esercitata dal 2014, una volta lasciata la banca svizzera da pensionato.
Le parti civili
Panella ha contestato anche le richieste di risarcimento delle parti civili. L’avvocato nota che la Segreteria di Stato ha chiesto 128 milioni di danni non patrimoniali, ma di immagine, sulla base di una perizia che era piuttosto – dice Panella – “una rassegna stampa del processo”. Dunque, il danno di imagine lo avrebbe fatto il clamore mediatico del processo, non le accuse. “È legittimo chiedere un danno – ha insistito Panella – se c’è un nesso di casualità diretto con i fatti che vengono contestati”.
Per quanto riguarda l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA), questa non sarebbe nemmeno intitolata a chiedere un risarcimento, perché l’eventuale perdita finanziaria riguardava la Segreteria di Stato, e solo successivamente le competenze amministrative furono trasferite alla Segreteria per l’Economia. Era un tema sollevato all’inizio del processo, anche se poi il presidente del Tribunale Pignatone aveva ammesso la presenza della parte civile APSA
Lo IOR è addirittura arrivato a chiedere alla Segreteria di Stato i soldi versati come contributo volontario dal bilancio perché siano restituiti al Papa. Si tratta di un contributo dal profitto dello IOR, nell’ultimo bilancio definito dividendo, che ha sempre aiutato la Santa Sede a coprire il bilancio e che veniva dato dallo IOR senza vincolo di destinazione, versati alla Segreteria di Stato.
Panella sottolinea che quelli sono “soldi della Segreteria di Stato”, e “non erano sufficienti alla gestione della Curia Romana e che nulla dimostra che siano state investite a Londra”.
Nel corso della requisitoria, Panella ricorda anche che non sono mai stati usati soldi dell’Obolo di San Pietro, come era la narrativa iniziale, ma altri fondi.
Enrico Crasso
Al termine dell’udienza dell’11 novembre, Enrico Crasso ha voluto leggere una lunga dichiarazione spontanea. Rotto dall’emozione, ha ripercorso i passi della sua vita, la sua carriera, i suoi inizi da famiglia modestissima, e la sua crescita di “un ragazzo che si è fatto da solo”, passo dopo passo. Crasso ha rivendicato di aver sempre operato per la Segreteria di Stato e di aver fatto il massimo per il cliente.
Ora si trova anche con una richiesta del fisco svizzero, che ha valutato la sua società Sogenel dieci volte quanto ascritto a bilancio, e con fondi congelati che non gli permettono di ottemperare alle richieste delle autorità svizzere. L’avvocato chiede per lui l’assoluzione con formula piena, ma anche la revoca della confisca e, nel momento della sentenza, una rapida trasmissione della stessa alle autorità svizzere.
https://www.acistampa.com/story/23701/processo-palazzo-di-londra-verso-la-sentenza-a-meta-dicembre
Processo Palazzo di Londra, “il Cardinale Becciu mostrificato”
Nelle ultime tre udienze del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, hanno parlato le difese del Cardinale Becciu, di nonsignor Carlino, di Gianluigi Torzi. Mettendo in luce altri dettagli
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 25. novembre, 2023 14:00 (ACI Stampa).
La “mostrificazione” del Cardinale Angelo Becciu, attraverso una lettura di fatti che si rifà ad una “certezza morale”, ma non a prove. Il senso del dovere di monsignor Mauro Carlino, che “ha fatto il suo dovere con lealtà”. La gestione di Gianluigi Torzi. Le ultime tre udienze del processo vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato vaticana hanno portato nuovi dettagli e prospettive, gettando ulteriore luce su una vicenda che è stata presentata come “processo del secolo” e che invece, se le prove prodotte dalle difese verranno considerate dal tribunale, potrebbe rivelarsi più che altro una ricostruzione accusatoria che non ha fondamento nelle prove prodotte. E la prova, in un processo penale, è tutto.
Le ultime tre udienze sono state particolarmente dense di dettagli, e non vale la pena entrare nei tecnicismi delle accuse e delle difese. Quello che si proverà a fornire è un quadro generale della vicenda, che però, giunta quasi alla fine del giro di arringhe difensive, ha visto la narrativa in qualche modo cambiare: se all’inizio della vicenda il pendolo era tutto sulle tesi dell’accusa, ora le difese hanno guadagnato terreno, fornendo tutte una visione coerente della vicenda, sebbene con sfumature differenti. Eppure, a guardare lo scenario che si è dipanato con la ricostruzione degli avvocati, tutto sembra avere senso, poche cose si contraddicono in maniera palese, ed è un dato che non possiamo non considerare.
Va invece considerato il danno che l’istruzione di questo processo ha creato alla Santa Sede dal punto di vista internazionale. Si dirà che è un prezzo che si doveva pagare, eppure dall’inizio delle indagini la Santa Sede è stata prima sganciata dal sistema di comunicazioni sicure del gruppo Egmont, che riunisce le Unità di Informazione Finanziaria di tutto il mondo e scambia informazioni di intelligence; quindi si è trovata ad affrontare la critica del comitato del Consiglio d’Europa Moneyval per il modo in cui il sistema di scambio di informazioni è stato messo in discussione; e la scorsa settimana, in un procedimento a Londra per diffamazione intentato da uno degli imputati, Raffaele Mincione, l’Alta Corte ha chiesto la divulgazione di email, whatsapp e messaggi crittografati scambiati tra alcuni prelati (tra i quali il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato e l’arcivescovo Edgar Peña Parra, sostituto) perché questo non costituisce “segreto pontificio”. È un tema che mette in discussione, per la prima volta, la sovranità della Santa Sede, aprendo un vulnus giuridico che potrebbe avere delle conseguenze.
Come sempre, prima di guardare alle tre arringhe difensive, facciamo un passo indietro per comprendere su cosa verte il processo.
I tre tronconi del processo
Il processo si divide in tre tronconi principali. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che – inizialmente all’oscuro della Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il pieno controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.
Il secondo filone si concentra sul contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) per fini personali.
La difesa a Becciu: un processo “teorema”
Era ovviamente molto attesa la difesa del Cardinale Angelo Becciu, al centro della vicenda, su cui pende una richiesta di condanna a sette anni e tre mesi di reclusione, la più alta possibile nella forbice dei reati perché, aveva sottolineato il promotore di Giustizia Alessandro Diddi al termine della requisitoria, il Cardinale non aveva mai mostrato pentimento, e anzi aveva anche risposto con varie dichiarazioni spontanee.
Gli avvocati Fabio Viglione e Maria Concetta Marzo, in circa sei ore di arringa, hanno risposto punto per punto a tutte le accuse, definite “assurde e infondate” e frutto di indagini mosse da un “occhi pregiudizievole”, con un impianto accusatorio “debole”. C’era una volontà, ha denunciato la difesa, di “mostrificare il cardinale”.
La chiave è la testimonianza di monsignor Alberto Perlasca, capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato vaticana, che in un memoriale del 31 agosto 2020 ha dettagliato le sue accuse al cardinale. Ma si tratta di una testimonianza “inquinata”, nota l’avvocato Viglione, certificata dal fatto che Perlasca cambia atteggiamento nel corso degli interrogatori.
La stessa testimonianza di monsignor Perlasca, al primo posto nella hit parade delle citazioni del processo, è inquinata, nota l’avvocato Viglione, perché nata anche dai suggerimenti di Genevieve Ciferri, la sua amica di famiglia, che riceveva a sua volta consigli da quello che la stessa Ciferri aveva descritto a Perlasca come un “anziano magistrato”, e invece altri non era che Francesca Immacolata Chaoqui, la donna già membro della Commissione referente per l’economia e l’amministrazione (COSEA) e poi finita a sua volta a processo per il cosiddetto caso Vatileaks 2.
L’avvocato Viglione ha sottolineato che “non c’è un centesimo” che sia finito a vantaggio personale del cardinale – cosa che tra l’altro l’accusa non contesta – e dunque “non c’è nessuna appropriazione indebita da parte del Cardinale”.
Resta da definire la vicenda della famosa cena di Perlasca allo Scarpone con il Cardinale. Perlasca ci tiene ad informare la Gendarmeria, ma, si chiedono gli avvocati, dopo tutte le accuse nel memoriale, come è possibile che i gendarmi non si chiedano il perché di quella cena, nata da un invito dello stesso Perlasca?
L’accusa ha delineato una responsabilità del Cardinale Becciu anche nel dare via all’acquisizione delle quote del palazzo di Londra, ha puntato il dito contro 125 mila euro donati dalla Segreteria di Stato alla cooperativa Spes legata alla Caritas di Ozieri e guidata dal fratello del Cardinale, e di aver destinato a Cecilia Marogna somme che lei ha utilizzato per spese voluttuarie e personali, e che invece erano destinate ad una mediazione per la liberazione di suor Gloria Narvaez, rapita in Mali.
Una “ambiziosa struttura accusatoria – ha detto Viglione – che però non ha trovato riscontro nelle prove documentali, tecniche e testimoniali”.
Per quanto riguarda la questione del palazzo di Londra, l’avvocato Maria Concetta Marzo ha colto anche una contraddizione insita nei capi di accusa stessi contestati al Cardinale. Perché l’accusa contesta sia al cardinale di aver sottoscritto un fondo con Raffaele Mincione che non lasciava margini di scelta, ma anche che lo stesso Becciu aveva disposto delle operazioni di investimento. Si tratta – ha detto l’avvocato marzo – “di due ricostruzioni incompatibili: delle due l’una! E comunque non c’è mai stata alcuna disposizione del cardinale”.
È stata riprodotta dalle difese una nota che era già del Cardinale Tarcisio Bertone come Segretario di Stato, e che descriveva la formula del credit lombard – una forma di finanziamento che utilizza come garanzia un portafoglio di titoli, utilizzata anche nella vicenda Londra – come appropriata già nel 2013. È stato fatto notare che la proposta di investimento iniziale nelle quote della società petrolifera Falcon Oil, contestate dall’accusa come speculative e mai operate dalla Segreteria di Stato, avevano in realtà già precedenti simili nelle operazioni della Santa Sede.
Su Falcon Oil, ha notato Viglione, il Cardinale si è limitato a proporre l’investimento, per l’unica volta in sette anni da sostituto, e poi, quando l’investimento non è stato ritenuto opportuno, si è persino scusato per le energie profuse. Ma gli avvocati del Cardinale hanno anche stigmatizzato l’atteggiamento dell’accusa nella requisitoria, che è arrivato ad urlare “vile” al cardinale, con un eccesso verbale che tradisce, spiegano, una mancanza di prove a sostegno.
Invece il cardinale è stato “vittima” di una campagna mediatica e di una “macchinazione”. Smentiti ancora una volta i rapporti tesi tra il Cardinale Becciu e il Cardinale Pell, che sospettava come un transfer di circa 2 milioni dalla Segreteria di Stato un Australia sarebbe servito a finanziare una campagna contro di lui. Ma quei soldi, aveva spiegato Parolin stesso, erano serviti a comprare un dominio .catholic in Australia, mentre lo scontro tra Pell e Becciu non era personale, ma riguardava piuttosto la modalità con cui Pell voleva sottoporre la Segreteria di Stato ad un auditing esterno. Auditing, tra l’altro, rinegoziato dalla Santa Sede proprio per preservare la propria sovranità (non si tratta di una azienda), mentre lo stesso Papa Francesco aveva rimodulato e riequilibrato le competenze della Segreteria per l’Economia con un motu proprio che riportava alcune funzioni all’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica.
Viglione ha detto che il cardinale “non si è difeso nel processo, ma dal processo”, ma di certo “non è stato il regista delle operazioni finanziarie” – “al limite un attrezzista”- anche perché un regista si sceglie gli attori, mentre il cardinale ha operato da sostituto con chi c’era già, senza fare “spoils system”.
Il cardinale – sottolineano le difese - si trova a condividere le accuse di peculato con Raffaele Mincione che “non aveva mai conosciuto”, ha ribadito – come aveva tra l’altro ammesso lo stesso promotore di Giustizia nella requisitoria – che gli investimenti nel fondo Athena non provenissero dall’Obolo di San Pietro (c’era, invece, in segreteria di Stato, un fondo Obolo). L’avvocato Marzo ha sottolineato che “nemmeno un euro dell’Obolo è stato investito”, e anche il contributo annuale dello IOR, tra l’altro sceso notevolmente negli ultimi anni a causa del calo dei profitti avvenuto a partire dal 2013, non “era sufficiente” a coprire le spese. Lo IOR ha chiesto la restituzione di quei contributi al Papa, sebbene si trattasse di contributi volontari alla Santa Sede, e dunque in generale sempre gestiti dalla Segreteria di Stato per i bisogni correnti.
Gli avvocati hanno anche ripercorso la vicenda dei versamenti di 125 mila euro alla Caritas di Ozieri per l’acquisto di una macchina per la panificazione e il sostegno di un progetto. Il denaro è sempre stato destinato alla Caritas, mai direttamente alla SPES, che ne era il braccio operativo. Questa era guidata dal fratello del Cardinale, Antonino Becciu, che non ha mai percepito uno stipendio fino al 2016, quando ha lasciato l’incarico di insegnante ed è stato messo a contratto per i cinque anni che lo hanno portato fino alla maturazione della pensione nel 2021, anno in cui ha di nuovo preso a contribuire volontariamente. La vicenda dell’impresa della Birra Pollicina, una impresa dell’altro fratello Mario, è invece marginale. Nessun vantaggio è stato certificato sia arrivato direttamente ai fratelli di Becciu, e allora “come è possibile che due donazioni, dimostrate come certamente caritative, siano diventate peculato?”
L’avvocato Marzo si è poi dedicata alla questione dei bonifici inviati alla società Logsic di Cecilia Marogna allo scopo di liberare Suor Gloria Narvaez, rapita in Mali. Va ricordato, tra l’altro, che i bonifici erano stati disposti non più dal cardinale Becciu, ma dal suo successore in segreteria di Stato, l’arcivescovo Peña Parra, e che il Papa era stato informato. Marogna aveva presentato una società di intelligence, la Inkermann, che, nella sua testimonianza, il commissario De Santis ha detto che “non si sapeva bene cosa facesse”. Ma invece, nota l’avvocato Marzo, “bastava chiedere al maresciallo Google per avere tutte le informazioni necessarie”.
Tuttavia, il Cardinale è stato “il primo ad essere raggirato”, perché Marogna, che avrebbe poi usato il denaro per spese personali, “non era autorizzata a spendere nemmeno un euro”. L’avvocato Marzo ha ricordato che il promotore di Giustizia era arrivato addirittura a definire volgarmente Marogna come “la mantenuta del Cardinale”, e ha aggiunto: “Se il cardinale avesse voluto mantenerla non lo avrebbe fatto quando era sostituto e poteva agire liberamente, invece di aspettare che i versamenti li facesse un altro, cioè il successore Peña Parra?”.
In generale, la difesa del cardinale ha anche notato i vari aggiustamenti dei capi di imputazione che si sono succeduti nel tempo.
La difesa di Torzi
Il 21 novembre, la difesa di Gianluigi Torzi ha terminato la sua arringa difensiva. Gianluigi Torzi aveva rilevato le quote del palazzo di Londra da Mincione. Oggi è accusato di corruzione, peculato aggravato, truffa aggravata, appropriazione indebita aggravata, riciclaggio e autoriciclaggio, estorsione aggravata. Per lui, il promotore di Giustizia ha chiesto 7 anni e 6 mesi di reclusione, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e 9 mila euro di multa.
Va ricordato che il 5 giugno 2020 Gianluigi Torzi è stato incarcerato in Vaticano, dove si era recato per essere interrogato, con una procedura quanto mai inusuale.
Oggi è latitante a Dubai, negli Emirati, perché sulla sua testa spicca un mandato di cattura, ma di certo non ha dimenticato l’esperienza del carcere vaticano, da cui è uscito con un corposo memoriale. La difesa di Torzi ha chiesto anche che venga rivista l’ordinanza del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano del primo marzo 2022, soprattutto alla luce dell’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, sul diritto alla libertà e alla sicurezza, e ha sottolineato che “qualsiasi provvedimento sanzionatorio che adotterà questo collegio sarà poi analizzato dai giudici di altri Paesi, che valuteranno se lo Stato della Città del Vaticano rispetta i principi della Convenzione dei diritti dell’uomo”.
Secondo l’avvocato Mario Zanchetti, che difende Torzi, “c’è un solo modo di vedere le cose ed è quello di vederle interamente”, e “per ricostruire correttamente una vicenda bisogna confrontarsi con tutte le prove, con tutti gli elementi”. Il difensore ha lamentato invece che il promotore di Giustizia ha solo preso alcuni elementi della vicenda, e ci “siamo trovati di fronte alla sostanziale inutilità dell’istruttoria dibattimentale”, accusando alcuni testi di aver detto “delle cose palesemente non vere”, puntando il dito in particolare contro Monsignor Perlasca, Giuseppe Maria Milanese, Luca Dal Fabbro, Luciano Capaldo. Milanese, tra l’altro, era stato incaricato da Papa Francesco di “mediare” con Torzi la sua uscita dalla gestione dell’immobile di Londra, mentre Capaldo è il collaboratore della Segreteria di Stato che in precedenza collaborava con Torzi.
Dalla descrizione degli avvocati, Gianluigi Torzi era “totalmente in buona fede”, che Torzi e Mincione non hanno mai ordito “alcun fantomatico complotto”, ma semplicemente la Segreteria di Stato voleva “modificare il titolo dell’investimento e avere maggiori garanzie” e ha individuato in Torzi la persona giusta.
L’accusa di estorsione e di truffa di Torzi vertono intorno al fatto che lui avesse trattenuto per sé mille azioni delle quote del palazzo di Londra. Ma secondo l’avvocato Marco Franco, “è impossibile sostenere che queste mille azioni non si era capito che Torzi le aveva con diritto di voto mentre gli altri non le avevano, c’è scritto già nel Framework Agreement, dappertutto c’era scritta questa cosa”.
Secondo Franco, una chat dell’imputato del 23 novembre, subito dopo le trattative di Londra, “a cose fatte”, mostra che “Torzi non sapeva prima delle mille azioni” e si vede la “buona fede di Torzi”. Franco ha sottolineato che anche l’arcivescovo Peña Parra era “sempre informato” su tutto quello che succedeva nella gestione, come dimostrano i report periodici. Secondo l’avvocato, “Torzi ha sempre avuto cura del palazzo” e “non c’è un solo atto che dimostri che Torzi non aveva la volontà di restituire le quote. Si è solo parlato del giusto compenso”. Le mille azioni, è stato spiegato, avevano un valore complessivo di 10 milioni di euro, e i 5 milioni erano la previsione del “lucro cessante”.
L’avvocato Marco Franco ha, infine, ampiamente parlato di Luciano Capaldo, definendolo “un personaggio veramente inquietante”. L’uomo, secondo il legale, è il responsabile del “processo demolizione dell’immagine di Torzi”, attuato per “mettere le mani sugli affari della Segretaria di Stato”, con la complicità di Luca Dal Fabbro e l’officiale di Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi, cosa tra l’altro che nega il fatto che Tirabassi avesse favorito Torzi in alcun modo.
La difesa Carlino
Il 20 novembre, è stata la difesa di monsignor Mauro Carlino a prendere la parola. Questi è imputato per estorsione e abuso di ufficio, il promotore di giustizia Alessandro Diddi ha chiesto 5 anni e 4 mesi di reclusione, oltre all’interdizione perpetua e a una multa di 8 mila euro. Fu a lui che si rivolse Peña Parra per aiutarlo a risolvere la questione di Londra, e fu lui ad ottenere da Torzi uno “sconto” di 5 milioni sui 20 pattuiti per la sua uscita dal fondo, che sono poi i 15 milioni che costituiscono la presunta estorsione.
L’avvocato Salvino Mondello ha sottolineato che l’ex segretario del sostituto “ha fatto il suo dovere con competenza e lealtà”. L’accusa sostiene che Carlino sarebbe colpevole di estorsione per “aver rafforzato il proposito criminoso di Gianluigi Torzi” e per “aver assunto responsabilità come intermediario”. Ma sono impostazioni, dice Mondello, “viziate clamorosamente da errori giuridici”, anche perché l’accusa non ha accertato la “differenza di interessi tra Torzi e Carlino”, dato che quest’ultimo non era di certo in concorso. Anzi, ha aggiunto Mondello, tutti in Segreteria di Stato, “ritenevano i 15 milioni non dovuti, ma si sono trovato costretti a pagare per non rischiare danni economici maggiori”.
L’opera di intermediazione di Carlino è stata “nell’interesse esclusivo della vittima, come nei casi di sequestro di persona, quindi non c’è stato certo concorso nell’estorsione”, e tra l’altro monsignor Carlino “era solo un “emissario, che agiva per conto della Segreteria di Stato, che si è inserito nella vicenda su incarico del sostituto, non motu proprio. E il suo fine non è stato mai il tornaconto personale”.
“Con quale coscienza – ha detto Mondello - si può affermare che una persona che non ha tratto profitto né vantaggio, non fosse animata da un fine solidaristico? Qual era il concorrente interesse di Carlino rispetto a quello della Segreteria di Stato. Le parole del sostituto Peña Parra sono tombali per qualunque accusa a Carlino”.
L’avvocato Mondello ha descritto come “uno sfregio” il sequestro dei conti del sacerdote, anche perché dimostra “che il concorrente di un reato contro il patrimonio non ha avuto vantaggi economici”.
Mondello ha ricordato molti passaggi della testimonianza dell’arcivescovo venezuelano del 16 marzo 2023, nella quale il sostituto ha spiegato che Torzi non voleva più trattare con l’Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, e quindi con monsignor Perlasca e Fabrizio Tirabassi (che è tra gli imputati), e quindi ha incaricato Carlino a trattare, quando si era già deciso di dare 20 milioni di euro al broker perché cedesse alla Santa Sede le sue mille azioni con diritto di voto e quindi il controllo del palazzo.
Nel corso dell’udienza, Peña Parra, ha detto Mondello, aveva sottolineato che monsignor Perlasca, “non si era comportato fedelmente, non solo per aver sottoscritto un contratto senza averne la procura, che con inganno poi la Segreteria di Stato era stata indotta a ratificare” e di aver eluso “le richieste di chiarimento del sostituto”.
Carlino è “la persona di fiducia” scelta dal sostituto. L’avvocato mostra una chat tra il sostituto e Pelasca del marzo 2019. Peña Parra “ricorda a Perlasca la sua proposta di non pagare Torzi e di fargli causa, e gli chiede di inviare un testo con i pro e i contro della soluzione legale. Una proposta che Perlasca non invierà mai”. Per Mondello quindi “non si può processare una trattativa”, anche perché la decisione drammatica di trattare con Torzi “l’ha presa il sostituto, e l’ha rivendicata, non si è mai tirato indietro”.
Mondello ha notato che Carlino ha sempre informato il suo superiore dei vari passaggi, che Carlino usava un “tono gentile” per poter raggiungere l’obiettivo. E ha poi messo in luce che l’accusa di abuso di ufficio a monsignor Carlino viene dalla richiesta di un prestito allo IOR che è stata fatta dal sostituto, e che comunque non è reato, e che avrebbe permesso di chiudere un’altro mutuo con interessi molto onerosi, che faceva perdere all’Ufficio più di un milione di euro al mese.
Infine Mondello ha contestato che la mancata denuncia dell’estorsione di Torzi, da parte di Carlino, sia stato abuso d’ufficio. Perché, si è chiesto, “avrebbe dovuto denunciare all’autorità giudiziaria un fatto del quale il suo superiore sapeva tutto e aveva avvisato anche il Papa? E comunque su tutto questo, perché materia economica, c’era il segreto pontificio, dal quale Francesco stesso dispensa i vertici dello Ior, quando fanno la denuncia”.
Anche l’avvocato di Segreteria di Stato Agnese Camilli Carissimi è intervenuta a descrivere il ruolo e la personalità di Carlino.
Verso la sentenza
Il 4 dicembre, sarà la volta delle difese del broker Raffaele Mincione, il 5 dicembre altra udienza e l 6 la conclusione della difesa Becciu. L’11 dicembre sono previste le repliche del promotore di Giustizia al mattino, e poi dal pomeriggio dell’11 al 12 le controrepliche delle difese. Quindi, si stabilirà l’ultima udienza, che porterà alla sentenza.
Finora, le difese hanno lasciato diverse domande cui trovare risposta. Alla fine, si è messo a rischio un sistema di trasparenza finanziaria che stava venendo messo a punto. La denuncia dello IOR contro la Segreteria di Stato sembra aver creato un corto circuito nel sistema finanziario. La decisione di procedere all’indagine ha fermato i possibili rapporti di intelligence dell’Autorità di Informazione Finanziaria, che da subito aveva fatto sapere che avrebbe continuato a tracciare le operazioni. La vicenda dell’immobile di Londra si è conclusa con una perdita economica per la Segreteria di Stato, ma resta il dubbio che se le cose fossero state fatte seguendo i contratti e i lock up (il termine entro cui il contratto non poteva essere modificato) forse ci sarebbe stato un profitto maggiore. Ed è stato messo in discussione anche il sistema di investimenti della Santa Sede, che pure si era sviluppato a partire dagli Anni Trenta.
La sentenza di Pignatone dovrà rispondere a tutte queste domande, e in qualche modo certificherà anche lo stato di salute del sistema vaticano. Resta la domanda: quanto è stato informato il Santo Padre e quanto è intervenuto nel processo?
https://www.acistampa.com/story/23815/processo-palazzo-di-londra-il-cardinale-becciu-mostrificato
Processo Palazzo di Londra, la sentenza entro la prossima settimana
Ultime tre udienze dedicate ai difensori. La difesa di Becciu chiede assoluzione con formula piena per ricostruire la dignità del Cardinale.
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 9. dicembre, 2023 14:00 (ACI Stampa).
Dopo due anni, la strada verso la sentenza del processo vaticano sulla gestione dei fondi per la Segreteria di Stato sembra ormai vedere la luce. Nella prossima settimana, dopo aver ascoltato tutti i difensori, il Promotore di Giustizia vaticano potrà replicare l’11 dicembre, e i difensori potranno contro-replicare al promotore di Giustizia il 12. Quindi, il presidente del Tribunale Pignatone stabilirà la data per la lettura del dispositivo – per la sentenza completa si dovrà aspettare un po’ – che non dovrebbe essere oltre il 16 dicembre.
Sarà da vedere se e come saranno tenute in conto le considerazioni delle difese, nonché le risultanze che sono venute in ambito dibattimentale. Perché se è vero che la requisitoria del promotore di Giustizia Alessandro Diddi, spalmata in cinque udienze con vari eccessi verbali, sembrava non aver tenuto conto di tutto quello che era accaduto in aula, i difensori si sono prodotti con prove, contro deduzioni e una serie di rilevazioni che non possono non essere tenute in considerazione.
Fatto salvo il fatto che ogni avvocato punta all’assoluzione dell’assistito, c’è da dire che tutti gli avvocati, anche quando i loro interessi non convergevano, hanno avuto la stessa posizione su alcuni elementi. Ovvero, l’accusa è frutto di un teorema e di un pregiudizio. L’accusa sta mettendo in campo un processo morale. L’accusa sta giudicando le situazioni del passato con i parametri dell’oggi e delle riforme attuali, ma di fatto quello che accadeva anni fa poteva anche benissimo essere legale anni fa. L’accusa prova a testimoniare un cambio di rotta nella gestione delle finanze, che in realtà non c’è mai davvero stato. L’accusa non solo ha avuto un teorema, ma per seguire questo teorema non ha considerato le prove opposte. L’accusa ha usato leggi ad hoc fatte dal Papa per questo processo, in quattro rescritti che ne hanno mutato le forme a indagine in corso, e questo rischia di delegittimare la stessa corte.
Alla fine, il problema non era il sistema vaticano, né i mercanti che sono entrati nel tempio. Perché se di mercanti si deve parlare, gli investimenti immobiliari sono sempre stato il modo privilegiato in cui la Santa Sede ha reinvestito i soldi (basta scorrere l’ultimo bilancio dell’APSA, e notare come società come Grolux nel Regno Unito o Sopridex in Francia, di proprietà della Santa Sede) erano nate proprio per gestire investimenti immobiliari. Se di fondi si deve parlare, l’Obolo di San Pietro (che poi nemmeno è stato davvero usato per gli investimenti) nasce proprio per il sostegno alla Santa Sede. Un sostegno cui sono chiamati tutti gli enti vaticani, a cominciare dall’Istituto delle Opere di Religione, che da anni dava un contributo non al Papa, ma alla Santa Sede.
Ci si trova, invece, di fronte a un Istituto per le Opere di Religione che ha denunciato la Segreteria di Stato, e che comunque si mette fuori dalla prospettiva solidaristica che vigeva tra e per i dicasteri vaticani. I bilanci dell’Istituto poi mostrano, almeno nei primi anni del nuovo corso, spese ingenti per consulenze o dismissione di vecchi portafogli.
Le domande, insomma, sono più delle risposte. Ma prima di entrare nel dettaglio di quello che si è detto nelle udienze 81, 82 e 83 del processo, vale la pena, come sempre, riavvolgere il nastro e comprendere quali siano i capi di accusa del processo.
I tre filoni del processo
Il processo si divide in tre tronconi principali. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che – inizialmente all’oscuro della Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il pieno controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.
Il secondo filone si concentra sul contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) per fini personali.
La difesa di Mincione
Raffaele Mincione è il broker che Credit Suisse aveva introdotto alla Segreteria di Stato per valutare un potenziale investimento su una società di petrolio in Angola. Poi, quando si decise di non procedere all’affare, la Segreteria di Stato lasciò a Mincione la gestione del fondo che era stato creato per l’occasione. Mincione lo usò per investire in quote del famoso Palazzo di Sloane Avenue. Era un contratto di cinque anni di gestione, più due in caso di disruption (come fu la Brexit), ma la Segreteria di Stato decise di uscire dal progetto, pagò a Mincione un indennizzo e affidò la gestione a Gianluigi Torzi, anche lui a processo.
Mincione è attualmente accusato di truffa aggravata, peculato e peculato aggravato, abuso di ufficio aggravato, appropriazione indebita aggravata, autoriciclaggio, e conclusione aggravata”. L’Ufficio del Promotore ha richiesto per lui 11 anni e 5 mesi di reclusione, interdizione perpetua dai pubblici uffici e 15.450 euro di multa.
Per Giandomenico Caiazza, legale di Mincione, qui “c’è stato un oltraggio alla verità, sulla persona, sulla sua reputazione professionale, sulla presunta natura predatoria della due diligence di Falcon Oil, sul ruolo di Credit Suisse”.
Ma il legale ha anche puntato il dito sulla pretesa inconsapevolezza della Segreteria di Stato, in particolare sul mutuo che gravava sull’immobile di Sloane Avenue. E ha mostrato una minuta – che lui sostiene essere nascosta tra altri documenti, trovata solo grazie ad un software – in cui si descriveva il mutuo iniziale che gravava sul palazzo da parte di Deutsch Bank.
Alla fine, se la Segreteria di Stato sapeva, ed è provato (sono stati mostrati anche i metadati della creazione dei file) come si fa a dire che c’è stata anche mancanza di informazione?
Caiazza ha lamentato che “l’evidenza documentale è stata piegata ai propri convincimenti”, ha stigmatizzato le “lacune investigative che hanno caratterizzato l’ordito accusatorio sin dalla nascita”, tanto che “il promotore di Giustizia ha costruito una sorta di realtà parallela, un luogo in cui i fatti possano essere rappresentati in modo esclusivamente funzionale agli obiettivi dell’accusa”.
L’avvocato ha ripercorso la vicenda, ha mostrato contratti e minute (tra cui una dell’officiale dell’amministrazione della Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi, datata 8 luglio 2014), ha negato che Mincione sia “un mascalzone, un mezzo farabutto che si intrufola in Segreteria di Stato per fare soldi”, ma piuttosto “un signore che ha fatto una carriera straordinaria”.
Caiazza ha notato che Credit Suisse non viene mai considerata, eppure questa “non era solo la banca depositaria, ma anche il fiduciario della Segreteria di Stato, e ha sottolineato che gli Stati sovrani possono comprendere uno specifico profilo di investimento, come ha fatto la Santa Sede.
L’avvocato Andrea Zappalà, anche lui del team dei difensori di Mincione, ha appunto dettagliato come quel tipo di investimenti non fossero cosa nuova presso la Santa Sede, e anzi che “non c’è mai stata una differenza di investimenti nel tempo” e che la Segreteria di Stato “aveva un’esperienza ultradecennale” nella composizione del proprio portafoglio”.
Un portafoglio che, ha notato Zappalà, ci sono state anche operazioni di security landing, ma anche di altri credit lombard e price cap. Il promotore – ha detto l’avvocato – ci ha detto cose non vere: che la Segreteria di Stato non avesse mai effettuato investimenti in strumenti finanziari complessi o rischiosi; secondo che la stessa non avesse esperienza: e, infine, che non avesse mai contratto debiti per investire”.
Claudio Urciuoli, anche lui nel tema di avvocati, ha sottolineato che “è un fatto inoppugnabile che la Segreteria di Stato gestisse riserve patrimoniali molto significative, e questo già prima dell’arrivo di monsignor Becciu. E lo faceva per il tramite di investimenti finanziari anche complessi, che erano affidati a banche italiane, banche straniere, persone esperte. Quindi, i mercanti nel tempio, se di mercanti si può parlare, c’erano già da molto tempo”.
Urciuoli ha parlato di “un errore prospettico” del Promotore di Giustizia, il quale “anziché guardare la Segreteria di Stato dall’esterno cioè dal punto di vista del mondo finanziario regolamentato, dal punto di vista di Raffaele Mincione, si è presunto e si è assunto che Raffaele Mincione avesse non solo la possibilità ma anche l’obbligo di neutralizzare le categorie giuridiche, finanziarie internazionali a favore di quelle che l’Ufficio del Promotore di Giustizia ha individuato nel diritto vigente interno allo Stato della Città del Vaticano”.
E ha aggiunto che “da questo difetto genetico, da questo difetto di prospettiva ne sono discese una serie di conseguenze disastrose e chiaramente incomprensibili per la posizione dell’imputato. Il concetto di propensione al rischio, che è una caratteristica intrinseca di qualsiasi tipo di investimento, diventa una speculazione, e su questo concetto si è costruito tutto”.
Sono quattro i cardini del processo, secondo Urciuoli. Il primo è la figura di monsignor Alberto Perlasca, per un decennio capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato. Perlasca non è indagato, ha testimoniato con un memoriale che poi, durante il processo, si è scoperto al limite sollecitato da quello che lui credeva essere un anziano magistrato, e altri non era che Francesca Immacolata Chaouqui, prima in una commissione vaticana e poi a processo nel cosiddetto Vatileaks 2.
Perlasca, ha detto Urciuoli, era “un testimone chiave”, ma poi anche l’Ufficio del Promotore “ha dovuto alzare le mani davanti a una situazione contradditoria”.
Il secondo cardine è l’Obolo di San Pietro, “l’architrave pop e mediatico di questo processo”, sul quale però c’è stata “una completa inversione di rotta”.
Il terzo cardine è la costituzione apostolica Pastor Bonus, perché si diceva che questa non dava alla Segreteria di Stato facoltà giuridica di amministrare le proprie riserve. Una ricostruzione apparsa “totalmente assurda”, tanto che “le stesse accuse di parte si sono affrettate a ripudiare questa posizione”.
Il quarto cardine è stato definito “la parte più surreale”, ed è Luciano Capaldo, presentato come “il maxi consulente, il salvatore della patria”, “che ci è venuto a dire che la cifra di 275 milioni di pound era una cifra fuori da ogni logica di mercato”, l’uomo a cui “dobbiamo attribuire la paternità di aver abbandonato lo sviluppo residenziale e la riconversione in uffici dell’immobile di Sloane Avenue”.
“La Segreteria di Stato nel cedere l’immobile in modo così immotivatamente affrettato – ha proseguito – ha fatto una vendita in perdita. La storia si incaricherà di giudicare questo fatto: sapete quando? Quando Bain Capital si rivenderà l’immobile e vedremo quanto ne ricaverà”.
L’avvocato ha, inoltre, evocato la figura di Enrico Crasso, che “certamente non poteva essere un pubblico ufficiale” e di Gianluigi Torzi, “un interlocutore scelto dalla Segreteria di Stato” e non dall’imputato; fino a ricordare altri soggetti che avrebbero potuto essere convocati, ma che, tuttavia, non sono a processo.
L’utimo avvocato del team Mincione a intervenire è stata Ester Molinaro, che ha invece parlato dell’accusa di truffa. Un reato morto “non durante il processo, ma già durante le indagini”, prima di tutto perché “le perizie fatte sul valore dell’immobili sono credibili, attendibili, bisogna solo intendersi sui criteri di calcolo, dove vengono estremizzate le due categorie: il criterio di calcolo per beni fermi, statici, immobili, e quello per i progetti. Sono criteri diametralmente opposti”.
Molinaro ha spiegato che la Segreteria di Stato non ha comprato un bene, ha partecipato piuttosto a un progetto di investimento, da cui è poi uscita in anticipo.
La difesa del Cardinale Becciu
I difensori del Cardinale Becciu hanno avuto una ultima appendice dopo la vibrante arringa di due settimane fa, e hanno ribadito il fatto che tutta l’accusa era “un teorema per coinvolgere il cardinale Becciu” come responsabile della gestione dei fondi della Segreteria di Stato che in realtà spettava all’ufficio amministrativo. A Becciu il promotore di Giustizia ha contestato i reati di abuso d'ufficio, peculato e subornazione, chiedendo al Tribunale una pena di sette anni e tre mesi di reclusione, oltre a 10.329 euro di multa e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
L’avvocato Fabio Viglione ha sottolineato le “evidenti contraddizioni dell’accusa, e il giudizio verso Becciu misurato su fatti non documentati”, rispetto ai quali “il suo coinvolgimento è totalmente ingiustificato”.
E questo pregiudizio nasce dal memoriale di monsignor Perlasca, quello che poi si è scoperto essere nato anche da suggerimenti esterni. Ma – si chiede l’avvocato – “per quale motivo
il cardinale avrebbe dovuto consciamente violare la legge e consentire a persone sconosciute di guadagnare ai danni della Segreteria di Stato?”.
Come già fatto nelle udienze precedenti, Viglione ha descritto monsignor Perlasca come ““portatore sano di malafede, che dovrebbe essere il primo a conoscere gli investimenti realizzati”. E cita il memoriale dell’arcivescovo Edgar Peña Parra, il successore di Becciu come sostituto della Segreteria di Stato. Nel memoriale, Peña Parra parlava persino di “un metodo Perlasca”, e Viglione ha sottolineato che c’era “un quadro ben definito su chi prendeva le decisioni dopo l’istruttoria degli investimenti”.
Per questo, ha ribadito Viglione, “è inconcepibile, rispetto ai dati che ci offre il processo, riconoscere una responsabilità del cardinal Becciu per questi investimenti”.
A vedere la storia degli interrogatori di Perlasca, l’ex capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato cambia radicalmente punto di vista. Per Viglione, tutto nasce dopo l’interrogatorio del 29 aprile 2020, quando il Promotore dice a Perlasca: “le diamo un secondo tempo”.
Si arriva da qui al memoriale del 31 agosto 2020, ispirato da Francesca Immacolata Chaouqui e Genevieve Ciferri
Viglione ha anche contestato che la requisitoria non ha mai parlato della Caritas di Ozieri, cui finivano i finanziamenti che infatti non erano destinati al conto della cooperativa Spes gestita dal fratello di Becciu, e ha notato che comunque le operazioni – un sostegno ad una iniziativa locale di un panificio per far lavorare persone ai margini dove “stanno in questo momento sfornando pane” -
Avevano la fiducia dell’ ex vescovo di Tempio Ampurias Sanguinetti, sotto la cui giurisdizione cadeva anche Ozieri.
Anzi, Viglione dice che i 25 mila euro di finanziamenti hanno permesso di far ripartire il panificio della cooperativa distrutti da un incendio, mentre gli altri 100 mila euro contestati sono stati chiesti dal vescovo Corrado Melis per il progetto della “Cittadella della Carità”.
L’altro legale del Cardinale Becciu, Maria Concetta Marzo ha evidenziato “l’enorme sofferenza che le accuse hanno provocato al cardinale Becciu come uomo e sacerdote, nonostante la sua totale innocenza”. Le prove esibite nel dibattimento avrebbero “dimostrato la più totale innocenza del cardinale da ogni reato contestato”, da qui, la richiesta di “assoluzione con la formula più ampia possibile, per restituire al cardinale la sua dignità personale”.
La difesa di Tirabassi
Le udienze hanno visto anche la seconda parte della difesa di Fabrizio Tirabassi, officiale della amministrazione della Segreteria di Stato, accusato di peculato e peculato aggravato, abuso d’ufficio aggravato, corruzione e corruzione aggravata, riciclaggio-autoriciclaggio, truffa aggravata, estorsione aggravata e abuso d’uffici. In più di cinque ore, l’avvocato Massimo Bassi ha sottolineato che Tirabassi era “il vero responsabile dell’ufficio”, e che “esercitava il potere co pugno di ferro”.
Tirabassi era, insomma, un esecutore degli ordini. Anzi, più volte mette in guardia dalla situazione, anche quando si va a Londra a trattare l’uscita di Mincione, e si va senza avvocato della Segreteria di Stato. Allora si pensa che Torzi farà gli interessi della Segreteria, ma non spetta a Tirabassi avere dubbi, anche perché – spiega l’avvocato Bassi – “Torzi era stato presentato da Giuseppe Milanese, che era amico del Papa, dunque che motivo ci sarebbe stato di non fidarsi?”
Per la cronaca, Milanese aveva fatto affari con Torzi, che aveva acquistato dei crediti sanitari della sua cooperativa OSA (lo notò anche il Promotore di Giustizia nella sua requisitoria) e fu poi la persona scelta da Papa Francesco per portare avanti i primi negoziati con Torzi per cedere le mille azioni con diritto di voto che aveva trattenuto per la gestione dell’immobile.
Di quelle azioni, tra l’altro, Tirabassi non si era accorto in prima battuta, e poi – spiega l’avvocato – aveva ricevuto da Perlasca la spiegazione che erano azioni che servivano a Torzi per poter gestire il palazzo.
L’avvocato ha affrontato anche le fees che Tirabassi aveva da UBS, una possibilità che gli era stata dall’ex capo dell’ufficio amministrativo Piovano. Era un contratto in essere con UBS, ha spiegato, e dunque la Segreteria di Stato non poteva avere niente da contestare.
Processo Palazzo di Londra, la sentenza il 16 dicembre
Sono terminate le controrepliche delle difese. Il Cardinale Parolin scrive una lettera. La posta in gioco
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , mercoledì, 13. dicembre, 2023 17:00 (ACI Stampa).
L’ultimo colpo di scena è una lettera firmata dal Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, e indirizzata al Promotore di Giustizia Alessandro Diddi, che ribadisce la volontà di portare avanti il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato e di punire eventuali comportamenti criminali. Il testo è irrituale, come appare irrituale molto del processo, che si avvia alla conclusione. Perché il 16 dicembre, dopo l’ultima, breve, controreplica della difesa (l’avvocato Filippo Dinacci, che non aveva potuto intervenire per COVID) i giudici del Tribunale vaticano si riuniranno in camera di consiglio e definiranno il dispositivo della sentenza.
Nel pomeriggio di sabato 16 dicembre, dunque, si saprà se il cardinale Becciu e altri nove imputati saranno condannati o assolti. Si saprà se le accuse rimarranno quelle che sono o verranno derubricate a reati minori. Si saprà, soprattutto, se il presidente del Tribunale, Giuseppe Pignatone, avrà abbracciato la tesi dell’accusa, indebolitasi fortemente nel corso del processo, o se invece avrà fatto proprie le ragioni delle difese.
In realtà, il tema del processo va oltre gli imputati e i capi di accusa. Il procedimento ha fortemente indebolito l’istituzione vaticana, e in particolare la Segreteria di Stato che si considera parte lesa in questo momento, ma che in realtà è stata più danneggiata dall’interno dell’istituzione che non dal comportamento dei presunti affaristi.
Quattro rescripta di Papa Francesco sono intervenuti nel procedimento, dando poteri praticamente illimitati al promotore di giustizia, mettendo anche a rischio la stabilità e l’equilibrio del sistema giudiziale vaticano. E la credibilità internazionale della Santa Sede ha vacillato, al di là della narrativa (molto italiana, per la verità) che rappresenta una Santa Sede sempre più trasparente e amata dai valutatori europei.
In realtà, MONEYVAL ha censurato la situazione nel suo ultimo rapporto sulla Santa Sede, e non era stata tenera con i giudici vaticani nemmeno in precedenza, mentre il Gruppo Egmont, che mette insieme le unità di intelligence finanziaria di tutto il mondo, aveva disconnesso la Santa Sede dal circuito sicuro di comunicazione interna perché, con il raid nella sede dell’Autorità di Informazione Finanziaria, non c’era più sicurezza di autonomia e di messa in sicurezza di dati confidenziali.
Ma il processo appare essere anche qualcosa di più, ovvero una sorta di “colpo di Stato”, o di restaurazione. Perché con la legge antiriciclaggio del 2012 la Santa Sede aveva preso una strada internazionale, tagliando i rami che la legavano a doppio filo all’Italia e guardando piuttosto al mondo e agli standard internazionali.
Ma oggi tutto parla di nuovo italiano in Vaticano, dai vertici dell’Autorità di Supervisione e Informazione Finanziaria, che si è rifatta il trucco con un cambio di nome, ai promotori di giustizia, che hanno tutti altri incarichi in Italia e che ora, con l’ultima modifica alla normativa, hanno ottenuto di poter essere tutti part time. Nessuno, insomma, si dedica al Vaticano al cento per cento, e questo contro tutte le raccomandazioni internazionali. In fondo, sarebbe un “colpo di Stato” se ci fosse uno Stato ben strutturato. La lettera di Parolin che legittima il lavoro del tribunale e del promotore di giustizia, può essere, alla fine, la certificazione di una debolezza strutturale.
Fatte queste premesse, vale la pena prima di tutto riavvolgere il nastro per comprendere di cosa tratta il processo.
I tre filoni di indagine
Il processo si divide in tre tronconi principali. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che – inizialmente all’oscuro della Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il pieno controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.
Il secondo filone si concentra sul contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) per fini personali.
La lettera del Cardinale Parolin
È alla fine dell’udienza dell’11 dicembre, che ospita le repliche del promotore di Giustizia e delle parti civili alle arringhe dei difensori, che l’ufficio del promotore di giustizia presenta una “Dichiarazione di Sua Eminenza il Segretario di Stato a conferma della richiesta e della manifestazione delle volontà di perseguire i reati accertati e contestati”. La dichiarazione è una lettera, sollecitata dallo stesso promotore, e datata 6 novembre, in cui, dopo una breve premessa, il Cardinale Parolin fa sapere che “anche facendo seguito alla posizione già assunta, confermo l’istanza di perseguire e punire tutti i reati su cui si agisce su istanza di parte e di cui la Segreteria di Stato è considerata parte offesa”.
La lettera è particolarmente irrituale. È come se un presidente del Consiglio inviasse al procuratore capo una lettera da leggere nella settimana in cui c’è il pronunciamento della sentenza, fatto che sarebbe considerato una pressione indebita. Non viene considerato tale in Vaticano, dove comunque la volontà del Papa è sempre considerata sovrana.
E la lettera di Parolin si sovrappone ad un’altra lettera, questa volta inviata dal Papa agli officiali della Segreteria per l’Economia, e pubblicata sul sito della SPE. Nella lettera, che fa seguito ad un incontro del Papa con gli officiali del dicastero economico del 13 novembre, Papa Francesco chiede lealtà ai principi della Chiesa, nota che c’è un deficit importante ogni anno, e chiede a ciascuno di “essere pronto a rinunciare al proprio interesse particolare”, dando anche una idea di quello che si aspetta dagli investimenti.
Una lettera che suona come un monito indiretto, pubblicata ora, considerando che la natura degli investimenti della Santa Sede e della loro presunta natura speculativa sono stati oggetto di scrutinio e anche di accuse da parte del promotore di Giustizia.
La replica del Promotore di Giustizia
Il Promotore di Giustizia ha visto, nel corso del dibattimento, la sua tesi accusatoria smontata in ogni parte. Ci sta, in un dibattimento. Colpisce, però, come il lavoro delle difese abbia concorso a operare un vero e proprio cambio di narrativa nel processo. Tutte le difese hanno lamentato una decontestualizzazione dei fatti contestati, una vaghezza dei capi di accusa, una interpretazione del diritto ad hoc per alcune circostanze.
Le difese hanno anche messo in luce che il processo aveva diverse irregolarità, a partire dai rescripta del Papa che davano al promotore speciali poteri di indagine, anche di fare intercettazioni, e che sono però circoscritti solo a questo processo.
Ma Diddi, nella sua replica, sottolinea che i rescripta servivano a disciplinare qualcosa che altrimenti non sarebbe stato disciplinato, come le intercettazioni, e arriva a dire che i provvedimenti di urgenza o retroattivi hanno la loro ragione di essere, rievocando la decisione straordinaria del maxi processo anti Mafia di dare per letti tutti gli atti per evitare l’ostruzionismo dei difensori.
Lasciando da parte l’ardito paragone tra un processo di Mafia e un processo penale che riguarda questioni di diritto commerciale, la replica di Diddi lamenta soprattutto un pregiudizio nei suoi confronti, sottolinea che le difese non hanno considerato fatti emersi a processo e invece attaccano il promotore per lo stesso motivo, ribalta le accuse andando a rileggere memorie e chat che dovrebbero andare a corroborare la sua tesi accusatoria.
Non solo. Monsignor Alberto Perlasca, per nove anni capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato, non può essere considerato un “super testimone”, e anzi l’incidenza della sua testimonianza non è stata così alta, spiega Diddi, perché andava considerato anche il suo stato emotivo.
La testimonianza, e il memoriale, di Perlasca sono stati però un perno che ha permesso al limite di costruire la narrativa dell’accusa, perno poi crollato nel momento in cui è venuto fuori che lo stesso monsignore era influenzato da Genevieve Ciferri, la quale a sua volta riceveva i suggerimenti di Francesca Immacolata Chaouqui, già nota alle cronache vaticane per essere stata prima commissario della COSEA e poi per essere stata processata nell’ambito del cosiddetto Vatileaks 2.
Chaouqui e Ciferri sono state sentite in tribunale, ma anche la loro testimonianza è “pari a zero”, dice il promotore, che di fatto taglia dal suo impianto accusatorio ogni situazione o circostanza che potrebbe essere controversa.
Il promotore si sofferma anche sulla posizione di Fabrizio Tirabassi, officiale della sezione amministrativa della Segreteria di Stato anche lui a processo, il quale ha più volte ribadito la sua posizione di estraneità ai fatti e di totale subordinazione ai superiori. Tirabassi era minutante, e il minutante, spiega Diddi, è “il più alto grado amministrativo”, cosa sostanzialmente non corretta perché comunque è sempre almeno subordinato ad un capo ufficio.
Diddi ha lamentato le “contumelie aggressive nei confronti del promotore di giustizia”, cosa che ha dimostrato che “in molti casi le difese non hanno avuto altri argomenti che attaccarci”.
Riguardo il cardinale Becciu, Diddi ha detto che il cardinale è entrato nell’indagine perché “proprio lui ha fatto di tutto per entrare nel processo difendendo l’operazione di Londra”, arrivando a orchestrare, tra il 2019 e l’inizio del 2020, una vera e propria “campagna stampa nei confronti dell’ufficio del promotore che avrebbe preso un abbaglio sulla indagine”. Probabilmente è anche per questo che Diddi ha deciso di chiedere per Becciu una pena al massimo della forchetta, perché non ha “mai chiesto perdono”, ma anzi si è difeso durante il dibattimento.
Per quanto riguarda la vicenda Sardegna, ha detto Diddi, “la difesa non si è confrontata con gli esiti dell’indagine della Guardia di Finanza di Oristano” sulla diocesi di Ozieri e la cooperativa SPES, mentre sulla questione di Cecilia Marogna, Diddi si chiede “perché Becciu non ha fatto denuncia”, e soprattutto dice che il Papa di lei non sapeva nulla, ma sapeva di un bonifico alla società inglese Inkerman.
Le richieste dello IOR
Roberto Lipari, avvocato dell’Istituto delle Opere di Religione che è costituito parte civile, ha sottolineato che lo IOR “ha subito un danno autonomo”, e ribadito che chiede un risarcimento dei fondi IOR destinati al Santo Padre e finiti alla Segreteria di Stato, perché siano poi destinati alle attività del Papa (e ovviamente amministrati dallo IOR, che secondo la costituzione apostolica Praedicate Evangelium ha ora tutta la gestione amministrativa del patrimonio).
La questione però è dirimente, perché non ci può essere distinzione tra Papa e Santa Sede, né tra Papa e Segreteria di Stato. In particolare, il canone 361 del Codice di Diritto Canonico stabilisce che Santo Padre, Sede Apostolica, Santa Sede, Segreteria di Stato e anche Curia sono sinonimi. Il contributo che lo IOR destinava alla Santa Sede, che non aveva vincoli di destinazione, era de facto destinato al Santo Padre. Sarà da capire se, in punta di diritto canonico, la richiesta risarcitoria può davvero essere esercitata.
In realtà, tutto il processo nasce da una denuncia del direttore generale dello IOR Gianfranco Mammì, a seguito della richiesta di prestito della Segreteria di Stato per far fronte al mutuo che gravava sull’immobile di Londra. Vale la pena ricordare che lo IOR aveva prima accettato di erogare il prestito, sebbene dopo due mesi in cui aveva chiesto ulteriori documentazioni alla Segreteria di Stato, per poi fare improvvisamente marcia indietro tre giorni dopo l’assenso.
Colpisce, in questa vicenda, che lo IOR, organo di Stato, rifiuti una collaborazione con il governo che l’ente vigilante, cioè l’AIF, aveva tra l’altro segnalato come possibile e nei limiti del perimetro delle autorizzazioni dello IOR.
Dal punto di vista IOR, però, l’assenso dell’AIF al prestito alla Segreteria di Stato è addirittura una pressione indebita, anzi l’allora direttore Di Ruzza “sapeva bene dei problemi di Londra” eppure invita a concedere il prestito, così come l’ex presidente René Bruelhart.
La Segreteria di Stato
Paola Severino, legale di parte civile della Segreteria di Stato, ha fatto riferimento anche lei al finanziamento. Lo ha definito una “dolorosa vicenda” dove i primi ad essere ingannati sono stati il cardinale Parolin e l’arcivescovo Edgar Peña Parra, sostituto della Segreteria di Stato. Ma fu proprio il sostituto a chiedere il prestito, a sollecitarlo, e anche in sede di dibattimento ha ribadito il suo disappunto per il comportamento dello IOR, che con la sua dilazione e poi rifiuto di prestito ha portato la Santa Sede a perdere diversi milioni di euro.
Colpisce che la Severino ha aperto per la prima volta di una possibile “riqualificazione” dei capi di imputazione, una apertura importante, che testimonia come anche le parti civili abbiano cominciato a vedere il processo sotto un’altra luce.
La parte civile APSA
Giovanni Maria Flick, legale di parte civile per l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, ha ribadito che le richieste risarcitorie dell’APSA non possono essere considerate un duplicato di quelle della Segreteria di Stato vaticana, che era titolare dell’amministrazione dei fondi al tempo dei fatti, perché la Segreteria di Stato sta chiedendo un risarcimento per danno di immagine, mentre l’APSA chiede il danno patrimoniale.
La parte civile l’ASIF
L’Autorità per la Supervisione e l’Informazione Finanziaria, con il suo legale Anita Titomanlio, ha invece replicato ribadendo i principi di autonomia dell’autorità, che sarebbero stati messi in discussione dal comportamento degli ex vertici. In pratica, secondo l’ASIF, Bruelhart e Di Ruzza avrebbero sbagliato a collaborare con la Segreteria di Stato fornendo una consulenza per uscire dalla difficile situazione di Londra, e avrebbero dovuto subito segnalare la situazione al promotore di giustizia. La tesi dell’ASIF è che la collaborazione con la Segreteria di Stato mina l’indipendenza della stessa autorità.
È una tesi tutta da valutare, perché l’autorità ha autonomia, ma è pur sempre un organo chiamato a collaborare per il bene superiore della Santa Sede, ed è dunque chiamata a dare un supporto al governo, cioè la Segreteria di Stato, ed è anche per questo che Bruelhart, divenuto presidente dell’AIF (incarico al tempo non operativo) aveva assunto anche il ruolo di consulente della Segreteria di Stato.
Ma, nella tesi di Titomanlio, l’indipendenza dell’AIF si sostanziava solo in una collaborazione con la magistratura, in una sorta di sudditanza al potere giudiziario. E questo non considerando il fatto che, guardando le carte, l’AIF aveva seguito tutte le procedure, attivato tutte le UIF coinvolte, scambiato dati di intelligence. Non aveva disseminato un rapporto all’ufficio del promotore perché le indagini erano in corso, e tra l’altro il raid improvviso che ha poi decapitato l’autorità ha bloccato il flusso delle indagini. Sono tutti temi ampiamente sviluppati nell’arringa degli avvocati dell’AIF, che tra l’altro ha operato un cambio di narrativa stringente.
La risposta degli avvocati di Bruelhart e Di Ruzza
Nelle controrepliche del 12 dicembre, Ugo Dinacci, avvocato di René Bruelhart, ha notato la difficoltà a definire i capi di accusa, anche perché nel decreto di sequestro originario si parla semplicemente di “ruolo non chiaro dell’AIF”. Dinacci ha sottolineato l’importanza del principio di mutua collaborazione e interdipendenza organica dei dicasteri della Santa Sede. A Titomanlio, che affermava che la sospensione del Gruppo Egmont sarebbe stata una forma di tutela, Dinacci ricorda che l’AIF è stato riammesso al gruppo solo dopo aver stipulato un apposito protocollo di intesa con il promotore di Giustizia. Riguardo la posizione di Bruelhart come advisor della Segreteria di Stato, dato che c’era un contratto firmato dopo la nomina di Bruelhart a presidente dell’AIF, allora, se questo non poteva essere fatto, “o la Segreteria di Stato o il Santo Padre hanno posto Bruelhart in una situazione di non conformità”.
Dinacci ha poi sottolineato che “le quattro ipotesi di abuso di ufficio contestate a Bruelhart sono accomunate dal medesimo dolo specifico che consiste nel fine di far ottenere a Torzi un indebito vantaggio. Ma perché ci sia questo tipo di dolo è “indispensabile individuare e provare che cosa in concreto si è prefisso la gente con la sua condotta”, e “l’ipotesi che Bruelhart abbia agito su finalità per far conseguire a Torzi un illecito vantaggio non trova alcun appiglio documentale né in dichiarazioni che sono nel fascicolo del dibattimento”.
Angela Valente, avvocato di Di Ruzza, ha sottolineato che “non ci sono profili di censura rispetto all’operato dei vertici dell’AIF che hanno adempiuto alla normativa di settore”, e tra l’altro sono loro che “hanno introdotto la normativa antiriciclaggio, che hanno introdotto normativa prudenziale, e sono connotati da serietà professionale da essere chiamati dal Santo Padre a risolvere una questione e sono state identificate persone di fiducia”. E no, ha sottolineato, l’AIF non ha imposto allo IOR una scelta, ma anzi piuttosto “il limite di Di Ruzza e Bruelhart è stato di far comprendere agli altri che stavano travalicando i loro doveri”.
Lo IOR ha infatti voluto fare una adeguata verifica rafforzata, cosa tra l’altro accettata dalla Segreteria di Stato, ma il Regolamento 4 dell’Autorità, cui lo IOR deve sottostare, dice all’articolo 21 che la verifica va semplificata quando un ente richiedente è un ente della Santa Sede e quando si tratta di soggetti e utenti garantiti.
L’AIF – ha spiegato l’avvocato . “nella ricostruzione fornita sarebbe stato opaco e sfuggente. Cosa avrebbe dovuto fare? Gli hanno chiesto se il prestito era fattibile, hanno replicato che il prestito era fattibile, era sostenibile, rientrava nel perimetro autorizzativo e aveva per oggetto di estinguere mutuo onerosissimo garantito dalla Segreteria di Stato”, e tra l’altro mette anche in luce che “l’operazione è anche economicamente vantaggiosa”.
Insomma, si è cercato di “fare accertamenti non dovuti da parte di ente vigilato”, ma lo IOR era chiamato solo a dire se “poteva o non poteva fare operazione”. Insomma, “una applicazione irrituale della normativa non è stata posta in essere da Di Ruzza, ma da altri in questo contesto”.
La difesa Crasso
Luigi Pannella, avvocato di Enrico Crasso, che per conto di Credit Suisse e poi di altre società aveva gestito i fondi della Santa Sede, ha lamentato che il promotore di giustizia “ha cercato di piegare la realtà alla sua idea investigativa, cancellando e trasformando le lettere di Parolin e Bertone a Credit Suisse Age nel 2016, che chiarivano che sulle somme depositate nella banca svizzera non c’era alcun vincolo di destinazione, e quindi il sostituto della Segreteria di Stato poteva disporne sempre come voleva”.
Tra l’altro, Crasso è trattato come “un pubblico ufficiale di fatto” della Santa Sede, ma non ha mai lavorato per la Santa Sede, che invece si appoggiava alle istituzioni finanziarie come Credit Suisse.
La difesa Tirabassi
Cataldo Intrieri, legale di Tirabassi, ha parlato di “disperazione intellettuale” del promotore di Giustizia, e ne ha messo in luce le contraddizioni. A luglio, Diddi aveva detto che né Crasso né Tirabassi avevano partecipato all’ideazione della presunta truffa alla Segreteria di Stato che ha portato Torzi ad avere il controllo delle sole mille azioni con diritto di voto che controllavano il palazzo di Londra. Nella replica, invece, Diddi ha detto, secondo Intrieri, “che siccome lo statuto del fondo Gutt era stato mandato ad Andrea Crasso (figlio di Enrico, n.d.r) il 23 novembre 2018 lo ha sicuramente visto anche Tirabassi, ma a lui arriva il 27 novembre attraverso una mail di Nicola Squillace (legale di Torzi, anche lui imputato)”. In un processo “di capri espiatori, il più capro è il mio cliente – ha proseguito il legale – lo scemo di turno scemo di turno che viene mandato a Londra a firmare da monsignor Alberto Perlasca (il responsabile dell’Ufficio amministrativo, testimone non imputato) che era responsabile dell’accordo con il broker Raffaele Mincione, e sapeva benissimo il prezzo dell’uscita di Mincione, 40 milioni di euro” .
Gli avvocati Massimo Bassi e Cataldo Intrieri hanno duramente criticato “ la pasticciata replica del promotore” che ha contraddetto la propria iniziale impostazione. I due hanno anche sottolineato che il promotore non ha replicato sulla denuncia del grave scontro istituzionale tra IOR e Segreteria di Stato che si è concluso con il ridimensionamento della segreteria in favore dell’ente finanziario
La difesa Squillace
Per l’avvocato Nicola Squillace ha parlato il difensore Lorenzo Bertacco. Squillace è socio dello studio Libonato-Jaeger, che ha assistito il finanziere Torzi e la società Gutt, ma anche la Segreteria di Stato. Già nella sua arringa, l’avvocato Lorenzo Bertacco ha sottolineato che nella trattativa sul palazzo in Sloane Avenue a Londra, con il broker Mincione e per l’ingresso della Santa Sede nella società Gutt, “ha fatto solo il suo lavoro di avvocato”. Nella sua replica, Bertacco ha ribadito che quando la Segreteria di Stato ha pagato 15 milioni di euro a Torzi per recuperare il controllo del palazzo di Londra, “non c’è stata truffa, perché la Segreteria non era in condizione di errore. Sapeva benissimo cosa faceva”.
La difesa Becciu
Fabio Viglione, avvocato del Cardinale Angelo Becciu, ha notato che il cardinale ha subito, piuttosto che compiuto, una “campagna stampa fortemente denigratoria”, ha affermato che non ci sono “elementi specifici contro le nostre osservazioni, ma solo caricature”, ha ribadito che l’accusa al cardinale viene partorita dall’interrogatorio di Perlasca del 31 agosto 2020, che da indagato diventa testimone.
L’avvocato ha ribadito che il famoso “conto promiscuo” della diocesi di Ozieri era noto a tutti e su cui è stato versato il contributo della Segreteria di Stato, e dunque non c’erano illeciti. Si parla di peculato perché la SPES, braccio operativo della Caritas, era diretta dal fratello del Cardinale Antonino Becciu. “Se il cardinale voleva dare soldi al fratello – ha notato l’avvocato Viglione – li poteva versare direttamente sul suo conto, ma non ce n’è traccia”. Come non c’è traccia di soldi inviati direttamente alla SPES, mentre si è “arrivati a dire che l’amministratore della SPES era lo stesso cardinale.
Maria Concetta Marzo, anche lei difensore del Cardinale Becciu, ha ribadito che non c’era vincolo di destinazione per i fondi della Segreteria di Stato, e questo non era nemmeno stato segnalato da Perlasca, e messo in luce l’illogicità del fatto che il cardinale avrebbe distratto fondi a favore della Marogna quando non era più sostituto – il bonifico per la liberazione della suora rapita in Mali viene fatto quando sostituto è Pena Parra – quando “avrebbe dovuto farlo quando era sostituto, e non doveva chiedere autorizzazioni al suo successore”.
La difesa Torzi
Marco Franco, difensore di Gianluigi Torzi, ha ricordato ancora una volta come il suo assistito sia stato tratto in arresto quando era andato in Vaticano per farsi interrogare, sottolineando che si è trattato di una “palese ingiustizia – ha dichiarato – senza nessun controllo giurisdizionale previsto dal sistema giudiziario vaticano”.
Inoltre, l’avvocato ha notato che la prova dell’estorsione, secondo l’accusa, sarebbe una nota di Tirabassi, che viene anche “considerato complice dell’estortore”. Inoltre, secondo l’avvocato
“non ci sono dubbi sul fatto che la Segreteria di Stato aveva promesso a Torzi di fargli gestire il palazzo di Londra”.
L’avvocato Matteo Santamaria, da parte sua, ha voluto ribadire che Torzi non si è appropriato delle mille azioni, ma le aveva, e che dunque poteva condurre il negoziato per la cessione.
La difesa Carlino
Salvino Mondello, legale di monsignor Mauro Carlino, ha parlato di “repliche evanescenti”. Carlino è accusato di aver concorso all’estorsione di Torzi. Già segretario del sostituto Becciu, e poi dell’arcivescovo Peña Parra, Carlino fu destinato da quest’ultimo a risolvere la questione del palazzo di Londra. Dall’interrogatorio a Carlino è venuto fuori che fu lui ad ottenere uno “sconto” di cinque milioni, dando a Torzi 15 milioni invece dei 20 iniziali.
Mondello ha sottolineato che Carlino non ha avuto “alcun comportamento casuale”, né “è mai andato a cena con Torzi, ed è stato anche lui vittima del reato di estorsione.
La difesa Mincione
Giandomenico Caiazza, legale del broker Mincione, ha sottolineato come “sia venuta meno la parabola dei mercanti nel tempio e l’assioma accusatorio della mancanza di precedenti di investimenti di questo tipo”. Secondo i legali, il finanziamento proposto da Mincione – il credit Lombard, un prestito con una garanzia – era già operato dalla Segreteria di Stato, e che “se un investitore come la Segreteria di Stato vuole investire su un fondo con diritto estero e lussemburghese, come l’Athena di Mincione, “deve conoscere quel diritto. La profilatura del cliente è stata fatta da Credit Suisse, che scrive alla Deutsche Bank, e dà garanzie sul cliente. E Credit Suisse garantisce che i fondi provengono da fonti legittime. Cosa doveva verificare ancora Mincione?”.
Caiazza si è chiesto infine “come sia possibile pensare che un soggetto che gestisce un fondo di diritto lussemburghese, super controllato, che opera secondo clausole contrattuali, possa porre in essere una condotta illecita”.
L’altro avvocato del team di Mincione, Andrea Zappalà, ha di nuovo mostrato che la Segreteria di Stato aveva già investito su prodotti complessi e rischiosi, notando come la Segreteria di Stato non aveva solo fondi bilanciati, ma anche “fondi hedge, immobiliari e anche off shore”.
Verso la sentenza
Il processo si concluderà il 16 dicembre, all’udienza numero 86. È stato definito il “processo del secolo” e di certo è il processo più lungo che si sia trovato ad affrontare lo Stato di Città del Vaticano. Ma è anche un processo che è stato caratterizzato da varie anomalie, e che ha messo a rischio la stessa credibilità della Santa Sede a livello internazionale.
Sarà da vedere in che modo potranno essere configurati i capi di accusa. Il Promotore di Giustizia, Diddi, ha risposto sulle contestazioni di vaghezza dicendo che negli Stati Uniti più che un capo di accusa di presenta la descrizione di un fatto occorso. È anche vero che in un processo penale si devono provare fatti, e non ci possono essere certezze morali o speculazioni.
In più, varrebbe la pena soffermarsi sul fatto che alcune pratiche contestate durante il processo, come anche una totale autonomia di gestione dell’ufficio del sostituto, erano prassi comuni. Non si possono giudicare comportamenti del passato attraverso l’ermeneutica attuale o le nuove normative.
Di fatto, che ci fosse bisogno di una riforma o di un aggiustamento è possibile. Ma che questa riforma debba passare per una purificazione processuale può lasciare perplessi.
https://www.acistampa.com/story/23949/processo-palazzo-di-londra-la-sentenza-il-16-dicembre
Processo Palazzo di Londra, il Cardinale Becciu condannato a 5 anni 6 mesi
Anche l’interdizione dei pubblici uffici per il cardinale. Molti i delitti riqualificati, molte le assoluzioni, ma pesanti le condanne. Assolto monsignor Carlino
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 16. dicembre, 2023 17:46 (ACI Stampa).
Il Cardinale Angelo Becciu è stato condannato a 5 anni e 6 mesi di reclusione, 8 mila euro di multa e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Una sentenza dura, che sicuramente sarà appellata dagli avvocati convinti della “totale innocenza del cardinale”, e che riguarda solo una parte dei reati contestati, e in buona parte riqualificati dal Tribunale vaticano.
Al termine di una camera di consiglio durata circa quattro ore, dopo aver inaugurato l’udienza 86 ringraziando tutti per la collaborazione e ribandendo l’importanza del dibattimento in aula, il presidente del Tribunale Vaticano Giuseppe Pignatone legge una sentenza che, in realtà, ha molte assoluzioni e molti capi di imputazione riqualificati, ma che di fatto assolve completamente solo monsignor Mauro Carlino, che fu segretario del Cardinale Becciu quando questi era sostituto e che fu chiamato poi dall’arcivescovo Edgar Pena Parra, successore di Becciu come sostituto, ad aiutarlo a risolvere la questione dell’investimento immobiliare a Londra.
Prima di entrare nei dettagli delle questioni, guardiamo alle condanne.
La sentenza
René Bruelhart e Tommaso Di Ruzza, rispettivamente presidente e direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria all’epoca dei fatti contestati, ricevono solo una multa di 1750 euro. Enrico Crasso, il broker che per conto di Credit Suisse prima e poi in altre vesti gestiva i fondi della Segreteria di Stato vaticano, è condannato alle pena di sette anni di reclusione e 10 mila euro di multa con interdizione perpetua dai pubblici uffici.
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Raffaele Mincione, cui era stato affidato il fondo che poi fu destinato all’acquisto di quote dell’immobile di Londra, a cinque anni e sei mesi di reclusione, ottomila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Fabrizio Tirabassi, l’officiale della amministrazione della Segreteria di Stato che fu coinvolto dai superiori nelle trattative, è condannato a sette anni e sei mesi di reclusione, diecimila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Nicola Squillace, avvocato, coinvolto da Gianluigi Torzi nella compravendita, ha una pena sospesa di un anno e sei mesi.
Gianluigi Torzi, il broker che rilevò la gestione delle quote dell’immobile da Mincione per conto della Segreteria di Stato, è condannato a sei anni di reclusione, 6 mila euro di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici e sottoposizione alla vigilanza speciale per un anno.
Cecilia Marogna, la sedicente “agente segreta” che ricevette un compenso di 500 mila euro per una operazione di liberazione di una suora rapita in Mali e che secondo l’accusa avrebbe usato per sé, è condannata a 3 anni e 9 mesi di reclusione con interdizione temporanea dai pubblici uffici per lo stesso periodo.
La società della Marogna, la Logsic Humanitarne Dejavnosti D.O.O. pagherà una multa di 40 mila euro e ha divieto di contrattare con le autorità pubbliche per due anni.
Inoltre, il Tribunale ha ordinato la confisca per equivalente delle somme costituenti corpo dei reati contestati per oltre 166.000.000 di euro complessivi. Gli imputati sono stati infine condannati, in solido tra loro, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, liquidati complessivamente in oltre 200.000.000,00 di euro.
Da cosa si partiva?
Ecco chi erano i dieci imputati, e le relative richieste di condanna: il Cardinale Angelo Becciu (7 anni e 3 mesi), il finanziere Raffaele Mincione (11 anni e 5 mesi), il broker Gianluigi Torzi (7 anni e 6 mesi), il gestore di Credit Suisse Enrico Crasso (9 anni e 9 mesi), i dipendenti della segreteria di Stato monsignor Mauro Carlino (5 anni e 4 mesi) e Fabrizio Tirabassi (13 anni e 3 mesi), gli ex vertici dell’antiriciclaggio vaticano Aif (ora Asif) René Bruelhart (3 anni e 8 mesi) e Tommaso Di Ruzza (4 anni e 3 mesi), l’avvocato Nicola Squillace (6 anni), la sedicente agente segreta Cecilia Marogna (4 anni e 8 mesi).
I tre tronconi del processo
Il processo si divide in tre tronconi principali. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che – inizialmente all’oscuro della Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il pieno controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.
Il secondo filone si concentra sul contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) per fini personali.
Il processo ha esaminato fatti accaduti tra il 2012 e il 2019. Le difese hanno più volte lamentato che sono stati trascurati personaggi che avrebbero dovuto sedere tra i banchi degli imputati e non tra i testimoni, a partire da monsignor Alberto Perlasca, l’ex capo dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato. Fu Perlasca a firmare i contratti per l’acquisto integrale del palazzo di Londra su una stima di circa 230 milioni.
Il dispositivo di sentenza del Tribunale
Il Tribunale vaticano, subito dopo la sentenza, ha inviato un comunicato attraverso la Sala Stampa della Santa Sede.
Il Tribunale ha sottolineato che riguardo la questione del Palazzo di Londra, “il Tribunale ha ritenuto sussistente il reato di peculato (art. 168 c.p.) in ordine all’uso illecito, perché in violazione delle disposizioni sull’amministrazione dei beni ecclesiastici (ed in particolare del canone 1284 C.I.C.), della somma di 200.500.000 dollari USA, pari a circa un terzo delle disponibilità all’epoca della Segreteria di Stato”.
Il Tribunale sottolinea che “detta somma è stata versata tra il 2013 e il 2014, su disposizione dell’allora Sostituto mons. Giovanni Angelo Becciu, per la sottoscrizione di quote di Athena Capital Commodities, un hedge fund, riferibile al dr. Raffaele Mincione, con caratteristiche altamente speculative e che comportavano per l’investitore un forte rischio sul capitale senza possibilità alcuna di controllo della gestione”.
Per questo, Becciu e Mincione sono stati ritenuti colpevoli di peculato. Mincione, in particolare, “era stato in relazione diretta con la Segreteria di Stato per ottenere il versamento del denaro anche senza che si fossero verificate le condizioni previste, nonché, in concorso con loro, Fabrizio Tirabassi, dipendente dell’Ufficio Amministrazione, ed Enrico Crasso”.
Per quanto riguarda l’utilizzo successivo della somma, “il Tribunale ha ritenuto Raffaele Mincione colpevole del reato di autoriciclaggio (articolo 421-bis c. p.)”, ma ha escluso invece “la responsabilità di mons. Becciu, Crasso Enrico e Tirabassi Fabrizio in ordine agli altri reati di peculato loro contestati perché il fatto non sussiste, non avendo più la Segreteria di Stato la disponibilità del denaro una volta che esso era stato versato per sottoscrivere le quote del fondo”.
Crasso è stato dichiarato colpevole di autoriciclaggio (art. 421-bis c.p.) “in relazione all’utilizzo di una ingente somma di oltre 1 milione di euro, costituente il profitto del reato di corruzione tra privati commesso in concorso con Mincione”.
Inoltre, il Tribunale ha dichiarato Torzi e Squillace colpevoli di truffa aggravata (art. 413 c.p.) in relazione alle operazioni di riacquisto da parte della Segreteria di Stato delle quote del palazzo e poi del palazzo stesso nel 2018 – 2019. Torzi è dichiarato colpevole anche di estorsione in concorso con l’officiale di Segreteria di Stato Fabrizio Tirabassi, nonché per “autoriciclaggio di quanto illecitamente ottenuto”.
Quindi Torzi, Tirabassi, Crasso e Mincione sono assolti dal reato di peculato sulla ipotizzata sopravalutazione del prezzo di vendita dell’immobile, perché il fatto non sussiste. Tirabassi è stato invece “ritenuto colpevole del reato di autoriciclaggio (articolo 421-bis c.p.) in relazione alla detenzione della somma di oltre 1.500.000 USD a lui corrisposta – fra il 2004 e il 2009 – dall’UBS; il Tribunale ha infatti ritenuto che la ricezione di tale somma da parte dell’imputato integrasse il reato di corruzione in ordine al quale però, dato il tempo trascorso, l’azione penale è ormai prescritta”.
Per quanto riguarda Tommaso Di Ruzza e Renè Bruelhart, “intervenuti nella fase finale del riacquisto del Palazzo di Sloane Avenue, essi sono stati assolti dei reati di abuso di ufficio loro contestati e ritenuti colpevoli solo dei delitti di cui agli articoli 178 e 180 c.p. per omessa denuncia e per la mancata segnalazione al Promotore di giustizia di un’operazione sospetta”. Una questione, questa, procedurale, anche perché non si è dato all’AIF, con la sentenza, la prerogativa tipica delle Unità di Informazione Finanziaria di segnalare l’operazione sospetta solo quando questa era definita.
Per quanto riguarda invece la vicenda Marogna, il Cardinale Becciu e Cecilia Marogna “sono stati ritenuti colpevoli, in concorso, del reato di cui all’art. 416-ter c.p. in relazione al versamento, da parte della Segreteria di Stato, di somme per un totale di oltre 570.000 euro a favore della Marogna, tramite una società a lei riferibile, con la motivazione, non corrispondente al vero, che il denaro doveva essere utilizzato per favorire la liberazione di una suora, vittima di un sequestro di persona in Africa”.
Il Cardinale Becciu è anche ritenuto colpevole di peculato (art. 168 c.p.) “per aver disposto, in due riprese, su un conto intestato alla Caritas-Diocesi di Ozieri, il versamento della somma complessiva di Euro 125.000 destinata in realtà alla cooperativa SPES, di cui era presidente il fratello Becciu Antonino”.
E questo perché “pur essendo di per sé lecito lo scopo finale delle somme, il Collegio ha ritenuto che l’erogazione di fondi della Segreteria di Stato abbia costituito, nel caso di specie, un uso illecito degli stessi, integrante il delitto di peculato, in relazione alla violazione dell’art. 176 c.p., che sanziona l’interesse privato in atti di ufficio, anche tramite interposta persona, in coerenza – del resto – con quanto previsto dal canone 1298 C.I.C. che vieta l’alienazione di beni pubblici ecclesiastici ai parenti entro il quarto grado”. In questo caso, in pratica, l’erogazione è stata considerata data non alla Caritas, ma direttamente al fratello del cardinale, ed è una interpretazione che farà discutere.
Infine, il Cardinale Becciu, Mincione, Torzi, Tirabassi, Squillace, Crasso, Di Ruzza, Bruelhart “sono invece stati assolti, con le formule specificate nel dispositivo, da tutti gli altri reati loro ascritti”. Monsignor Mauro Carlino è stato assolto da tutti i reati.
Le confische
Pesanti anche le confische, che restano comunque sospese fino all’appello. Il Cardinale Becciu, Crasso, Mincione e Tirabassi subiscono la confisca di 200 milioni 500 mila dollari oltre interessi e rivalutazione a far data dal 26 febbraio 2014 come profitto del delitto di peculato. In pratica, si chiede la restituzione dei soldi destinati al fondo che poi gestì il palazzo di Londra.
Crasso e Mincione vedranno confiscati, se le condanne saranno confermate in appello, 1 milione 500 mila dollari, oltre interessi e rivalutazione a partire dal 15 agosto 2016, come “prezzo del delitto di corruzione tra privati”.
Crasso e Tirabassi ricevono anche una confisca di 1.540.292 euro oltre interessi e rivalutazione a far data dal 31 dicembre 2009 per il delitto di autoriciclaggio.
Torzi e Tirabassi dovrebbero anche vedersi confiscati 15 milioni di euro oltre interessi e rivalutazione a far data dal 2 maggio 2019 “quale profitto del reato di estorsione” – in pratica, il denaro che la Segreteria di Stato ha liquidato a Torzi per cedere il controllo del palazzo, reato che viene attribuito in concorso anche a Tirabassi, che invece sembrava essere uno di quelli che si opponeva alla trattativa e fu anche estromesso da Torzi dal board del fondo GUTT che gestiva le quote.
Al Cardinale Becciu, a Marogna e alla societò Logsic la confisca di 589.400 oltre interessi e rivalutazione a far data dall’8 luglio 2019, quale profitto del reato di truffa aggravata.
Il Cardinale Becciu si dovrebbe vedere anche confiscati i 125 mila euro da lui destinati alla Caritas di Ozieri “quale profitto del reato di peculato”.
Per ora, la confisca resta “sospesa fino alla irrevocabilità della sentenza di condanna, sia mantenuto il sequestro in atto su tutte le somme di cui è stata disposta la confisca”, ma nel frattempo resta il sequestro di tutte le somme di cui è disposta la confisca.
Per quanto riguarda i risarcimenti alle parti civili, il cardinale Becciu, Crasso, Mincione e Tirabassi dovranno risarcire 91 milioni come danno emergente in favore dell’APSA, e 15 milioni a titolo di lucro cessante maturato a tutto il 2 maggio 2019.
Torzi e Tirabassi sono chiamati a risarcire l’APSA per 15 milioni a titolo di danno emergente, la Logsic e Marogna devono risarcire 575 mila euro a titolo di danno emergente all’APSA, mentre Becciu deve risarcire 125 mila euro di danno emergente all’APSA.
Da notare che, sebbene il danno sia stato maturato dalla Segreteria di Stato, è l’APSA che riceve il risarcimento, perché all’APSA sono state passate tutte le competenze amministrative della Segreteria di Stato.
Tutti gli imputati sono chiamati a liquidare 80 miloni di danno non patrimoniale alla parte civile Segreteria di Stato e altri 100 mila come danno non patrimoniale in favore della parte civile IOR “per tutti i reati in ordine ai quali vi è stata pronuncia di condanna”.
Di Ruzza e Bruelhart devono invece liquidare all’ASIF un danno non patrimoniale di 10 mila euro.
Tutti gli imputati dovranno dividersi le spese delle parti civile, ovvero 70 mila euro per ogni parte civile e 50 mila euro di spese in favore della Segreteria di Stato, che “ne ha fatto espressa richiesta”.
Verso l’appello
Si chiude così un processo durato 86 udienze, concluso con i ringraziamenti del presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone il quale, prima di riunirsi in camera di consiglio, ha voluto ribadire l’utilità e l’importanza del dibattimento che aiuta a portare alla “verità processuale” e magari anche il più vicino possibile alla “verità senza aggettivi”.
Questa è solo il dispositivo di sentenza di primo grado, mentre la sentenza completa non verrà pubblicata prima di sei mesi. Entro tre giorni, tuttavia, le decisioni del giudice potranno essere impugnate e ci si potrà appellare al secondo grado. Il processo di secondo grado in Vaticano, tuttavia, è soprattutto documentale, c’è pochissimo dibattimento, e così sarà per la Cassazione. Siamo però di fronte a reati di tipo finanziario, e allora l’ultimo grado di giudizio potrebbe essere la Corte dei Conti Europea di Lussemburgo.
Inoltre, c’è un procedimento per diffamazione intentato a Londra da uno degli imputati, Raffaele Mincione, contro la Segreteria di Stato, e questo proseguirà su binari paralleli. Senza considerare che ci sono altri procedimenti penali collegati, in quello che appare essere un procedimento infinito.
Resta da vedere se Papa Francesco deciderà di prendere provvedimenti nei confronti del Cardinale Becciu vista l’interdizione dai pubblici uffici. Va considerato, però, che è ancora una sentenza di primo grado.
Processo Palazzo di Londra, condanne, assoluzioni e riepilogo in attesa degli appelli
Sono tre filoni di inchiesta che si intrecciano nella vicenda della gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Ecco cosa c’è da sapere e perché l’appello potrebbe essere decisivo
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , martedì, 19. dicembre, 2023 9:00 (ACI Stampa).
La Corte di Appello dello Stato di Città del Vaticano si è già vista recapitare le prime richieste di appello dopo la sentenza di primo grado del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Non poteva essere altrimenti. Non tanto perché, come ha detto il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone nell’udienza finale (la numero 86) del processo “nessuna sentenza accontenta tutti”. Piuttosto, è la sentenza stessa a lasciare dei buchi, dei coni d’ombra nelle ricostruzioni e anche nel castello delle accuse provate e non provate.
Il Tribunale vaticano ha assunto una prospettiva intermedia, e proprio facendo questo ha creato un vulnus ulteriore nel sistema giuridico e nella percezione dei fatti vaticani, dopo quello che si era creato con i quattro rescripta di Papa Francesco che avevano dato al Promotore di Giustizia vaticano poteri che non c’erano mai stati prima (il promotore, però, sostiene che siano solo stati disciplinati) e avevano autorizzato a procedere in maniera sommaria.
Nel processo vaticano si intrecciano molte questioni, e tutte dirimenti. Prima di tutto, la questione della sovranità della Santa Sede, che si basa anche sulla funzionalità dello Stato di Città del Vaticano. Ma uno Stato che ha giudici part-time, formati sul diritto di un Paese estero, può riuscire a creare un sistema credibile? Potrebbe, se abbracciasse una visione di fondo. Non è quello che è successo, nei fatti. Anche alcune letture della sentenza dimostrano una visione “miope” riguardo la Santa Sede, laddove i magistrati diventano persino i punti di riferimento anche delle attività di intelligence.
In secondo luogo, la forza dello Stato e della indagine, contestata più volte. La lettera inviata dal Cardinale Pietro Parolin al promotore di Giustizia in cui si ribadiva la volontà di andare avanti rappresentava un segno di debolezza non solo del sistema, ma anche della stessa Segreteria di Stato. Può un “primo ministro” chiamare un procuratore capo dicendo di andare avanti nelle indagini senza essere accusato di ingerenza?
In terzo luogo, c’è il problema della credibilità internazionale della Santa Sede. Più volte è stata invocata la questione della violazione dei diritti dell’uomo, e si è fatto riferimento alla Carta Europea dei Diritti dell’Uomo, cui però la Santa Sede non aderisce perché non è membro del Consiglio d’Europa, e cui non aderirebbe comunque per via di alcuni dei diritti contemplati. Le difese hanno sostenuto che la Santa Sede comunque ha accettato i principi della CEDU firmando la Convenzione Monetaria con l’Unione Europea nel 2009. Discutibile, ma comunque oggetto di discussione.
A mente fredda e sentenza arrivata, c’è allora bisogno di rivolgere il nastro, partendo proprio dalla questione della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo.
La questione della Carta Europea dei Diritti dell’Uomo
Come detto, le indagini hanno suscitato molti interrogativi, specialmente per le modalità, tra interrogatori particolarmente aggressivi e persino un arresto improvviso, quello di Gianluigi Torzi, che in Vaticano era andato appunto per farsi interrogare. L’obiezione generale è quella che la Santa Sede non è parte della convenzione CEDU, ed è vero.
Restano però alcune questioni in gioco. Può la Santa Sede utilizzare un argomento positivistico, ovvero la mancata sottoscrizione della Convenzione CEDU) come difesa in caso di violazione di diritti umani, e in particolare al giusto processo, di cittadini europei?
Inoltre, la Convenzione Monetaria siglata dalla Santa Sede nel 2009 è, si, una forma di partecipazione al sistema monetario, ma anche una adesione ai valori dell’Unione Europea, incluso il rispetto della dignità e dei diritti dell’uomo.
La Carta Fondamentale dell’Unione Europea sui Diritti dell’Uomo del 2000 stabilisce all’articolo 47 il diritto al ricorso ad un giudice imparziale, e all’articolo 48 la presunzione di innocenza e diritti della difesa. L’articolo 50, poi, stabilisce il diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato.
In alcuni casi, il processo vaticano ha violato questi principi. Di fatto, però, il tema non è se il Vaticano aderisca o meno alla CEDU, ma a quali principi e valori si ispiri. Resta una questione dirimente.
I tre tronconi del processo
Cerchiamo di comprendere in che modo si è sviluppato il processo nelle sue 86 udienze.
Come già spiegato più volte, il processo si divide in tre tronconi principali. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che – inizialmente all’oscuro della Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il pieno controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.
Il secondo filone si concentra sul contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) per fini personali.
Il processo esamina fatti accaduti tra il 2012 e il 2019. Le difese hanno più volte lamentato che sono stati trascurati personaggi che avrebbero dovuto sedere tra i banchi degli imputati e non tra i testimoni, a partire da monsignor Alberto Perlasca, l’ex capo dell’ufficio amministrativo della Segreteria di Stato. Fu Perlasca a firmare i contratti per l’acquisto integrale del palazzo di Londra su una stima di circa 230 milioni.
Condanne e assoluzioni
Unico completamente assolto da ogni capo di imputazione è monsignor Mauro Carlino, all’epoca dei fatti segretario del sostituto della Segreteria di Stato.
René Bruelhart e Tommaso Di Ruzza, rispettivamente presidente e direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria all’epoca dei fatti contestati, ricevono solo una multa di 1750 euro. Enrico Crasso, il broker che per conto di Credit Suisse prima e poi in altre vesti gestiva i fondi della Segreteria di Stato vaticano, è condannato alle pena di sette anni di reclusione e 10 mila euro di multa con interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Raffaele Mincione, cui era stato affidato il fondo che poi fu destinato all’acquisto di quote dell’immobile di Londra, a cinque anni e sei mesi di reclusione, ottomila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Fabrizio Tirabassi, l’officiale della amministrazione della Segreteria di Stato che fu coinvolto dai superiori nelle trattative, è condannato a sette anni e sei mesi di reclusione, diecimila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Nicola Squillace, avvocato, coinvolto da Gianluigi Torzi nella compravendita, ha una pena sospesa di un anno e sei mesi.
Gianluigi Torzi, il broker che rilevò la gestione delle quote dell’immobile da Mincione per conto della Segreteria di Stato, è condannato a sei anni di reclusione, 6 mila euro di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici e sottoposizione alla vigilanza speciale per un anno.
Cecilia Marogna, la sedicente “agente segreta” che ricevette un compenso di 500 mila euro per una operazione di liberazione di una suora rapita in Mali e che secondo l’accusa avrebbe usato per sé, è condannata a 3 anni e 9 mesi di reclusione con interdizione temporanea dai pubblici uffici per lo stesso periodo.
La società della Marogna, la Logsic Humanitarne Dejavnosti D.O.O. pagherà una multa di 40 mila euro e ha divieto di contrattare con le autorità pubbliche per due anni.
Inoltre, il Tribunale ha ordinato la confisca per equivalente delle somme costituenti corpo dei reati contestati per oltre 166.000.000 di euro complessivi. Gli imputati sono stati infine condannati, in solido tra loro, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, liquidati complessivamente in oltre 200.000.000,00 di euro.
I risarcimenti danni
Tra i danni da conteggiare, anche 80 milioni di danni non patrimoniali per la Segreteria di Stato, mentre la sentenza punta anche a recuperare tutto il denaro destinato da Becciu alla Caritas di Ozieri e quello destinato alla sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna. Le confische saranno esecutive a partire dalla sentenza di secondo grado, ma c’è una norma che prevede la possibilità di confiscare i proventi del reato già con la sentenza di primo grado.
Con le casse sofferenti, e rese ancora più sofferenti dall’inquadramento dei giudici vaticani nei ranghi dirigenziali della Curia con relativo stipendio (decisione arrivata da Papa Francesco a due settimane dalla sentenza), recuperare il denaro è, per la Santa Sede, una necessità. Tanto più che il pool di avvocati messo in campo in questo processo, capeggiato dalla celeberrima Paola Severino in difesa della Segreteria di Stato e dall’altrettanto celebre Gian Maria Flick per l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, non è stato certamente a buon mercato. Tuttavia, per le confische serve innanzitutto che la sentenza vaticana venga riconosciuta efficace da un ordinamento estero. Serve, cioè, la “delibazione”.
Le perdite con il palazzo di Sloane Avenue
La sentenza finale del processo è stata di condanna parziale, o per meglio dire di una assoluzione generale con degli episodi di condanna. Episodi comunque gravi, se si considera la quantità di anni di carcere comminati.
Il Cardinale Becciu ha avuto condanne per tre capi di imputazione, due per peculato e uno per truffa. Uno dei reati di peculato lo vede in concorso con il broker Raffaele Mincione per aver destinato 200 milioni di euro (un terzo della capacità di investimento della Segreteria di Stato) in un fondo altamente speculativo appartenente al broker.
Una condanna da capire, considerando che fu monsignor Perlasca, una volta naufragata l’opzione di investire il denaro in una piattaforma petrolifera in Angola, a decidere che i soldi dovevano continuarsi a muovee e ad affidare la gestione del fondo allo stesso Mincione.
Il palazzo di Londra, nel frattempo, è stato rivenduto nel 2022 a Bain Capital per 186 milioni di euro. Secondo il promotore di Giustizia, la gestione dei beni da parte della Segreteria di Stato avrebbe causato perdite tra i 130 e i 180 milioni di euro, di circa 55 milioni di euro per il palazzo.
La gestione finanziaria e la questione dell’Obolo di San Pietro
Se le perdite fanno pensare a un cattivo affare, in realtà il palazzo di Londra è stato in perdita soprattutto per “cattiva gestione”. La Segreteria di Stato lamenta di non avere avuto tutte le informazioni riguardo il palazzo, in particolare il prestito oneroso che vi gravava, ma era stata sempre la Segreteria di Stato, nella persona di monsignor Alberto Perlasca, ad accettare i contratti, per poi fare marcia indietro, romperli, pagare salate penali. Penali che erano dovute anche a Mincione e Torzi.
Si è detto che la gestione riguardasse l’Obolo di San Pietro, ma alla fine è venuto fuori che non è mai stato così. La Segreteria di Stato aveva un conto, denominato “Conto Obolo”, e da lì faceva partire tutte le operazioni finanziarie. Non era, però, il conto di gestione delle offerte dei fedeli, che invece sono da tempo gestite dall’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica.
Il Cardinale Becciu
Tra il 2011 e il 2018, il Cardinale Becciu è stato sostituto della Segreteria di Stato. In pratica, era lui che gestiva la Segreteria di Stato, aveva accesso ai fondi, aveva discrezione di decisione. Ma è stato processato solo perché il Papa ha stabilito, con un motu proprio a due mesi dal rinvio a giudizio, che anche i cardinali possono essere giudicati dal Tribunale ordinario: prima, i cardinali venivano solo giudicati dalla Cassazione, ovvero da un collegio di cardinali.
Molto prima del processo, il Papa aveva “punito” Becciu chiedendogli di dimettersi dal suo incarico di Prefetto del Dicastero per le Cause dei Santi e di rinunciare alle prerogative del cardinalato. Sarà da vedere ora se il Papa prenderà ulteriori decisioni, dato che per Becciu è stata anche chiesta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Di fatto, Becciu è un cardinale senza incarichi e tale potrebbe restare.
Becciu era sotto processo per appropriazione indebita, abuso di ufficio e pressioni sui testimoni, e i legali del cardinale, Fabio Viglione e Maria Concetta Marzo, hanno rivendicato “l’assoluta innocenza” di Becciu.
Per il Tribunale vaticano, però, non è così. Perché fu Becciu nel 2012 a dare il via all’operazione Slaone Avenue. Come detto, Becciu aveva portato la proposta di investire sullo sviluppo di una piattaforma petrolifera off shore in Angola, arrivata da un imprenditore angolano suo amico, Antonio Mosquito. Tutte le testimonianze hanno confermato che Becciu non ha fatto alcuna pressione per portare a termine l’investimento.
Si decise allora che quei soldi venissero dirottati nell’acquisto dal 45 per cento delle quote del palazzo di Londra, attraverso un fondo di investimento gestito da Raffaele Mincione, broker che era stato chiamato a valutare l’investimento della piattaforma petrolifera e che aveva guadagnato credito. Mincione aveva il 55 per cento de fondo dell'immobile.
Il fondo è dunque dato in gestione a Mincione, che comincia ad utilizzarlo per varie operazioni. Secondo l’accusa e le parti civili, Mincione perde parte dei soldi del fondo in operazioni speculative come la scalata Banca Carige, che poi verrà commissariata a inizio gennaio 2019.
Nel novembre 2018, la Segreteria di Stato muove così gli ultimi passi per uscire dal fondo Athena di Mincione prima della scadenza prevista. A prendere la decisione è – ancora una volta – monsignor Perlasca, e l’arcivescovo Pena Parra nel suo memoriale per i magistrati parlerà di un vero e proprio “metodo Perlasca”. Si decide di trasferire la gestione delle quote dell’immobile dal fondo di Mincione a quello di Gianluigi Torzi, broker entrato nella scena vaticana su presentazione di Giuseppe Milanese, autodefinitosi e definito da molti testimoni come “amico del Papa” e titolare di una cooperativa sanitaria, la OSA, ma anche con altri intermediari come il professor Renato Giovannini e l’avvocato Michele Intendente.
Al termine della trattativa, Mincione ottiene le quote del fondo con dentro le azioni Carige, Retelit e le quote del fondo Sorgente insieme a 40 milioni di sterline di conguaglio.
Perché scegliere Torzi? Perché Torzi aveva relazioni di affari con Mincione e dunque avrebbe saputo come convincerlo ad uscire dall’operazione. E perché c’era fretta di cambiare gestione, per la Segreteria di Stato, mentre si consumava una “guerra civile” per il controllo dei fondi. Prima era stata la Segreteria per l’Economia a mettere in discussione la stessa autonomia di gestione della Segreteria di Stato, ora era il Revisore Generale che chiedeva il rispetto di certe norme.
Secondo il promotore di giustizia, quando nel novembre 2018 si tratta il passaggio delle quote del palazzo, tutto è stato deciso in anticipo dai broker per spartirsi i milioni pagati dal Vaticano.
Ma è davvero così? I legali hanno parlato di “teoremi”, hanno sottolineato che c’è stata una trattativa commerciale tra Torzi (che tra l’altro rappresentava la Santa Sede, la quale si presenta senza avvocato) e Mincione, e che tutto è stato fatto secondo le regole. In fondo, le società che hanno stipulato i contratti avevano sede in Lussemburgo, con una regolamentazione certo non permissiva.
Perlasca prende le decisioni, arriva a firmare anche per i superiori, mentre l’officiale Tirabassi viene mandato alle trattative, anche se poi la difesa di Torzi negherà il fatto che Tirabassi fosse inconsapevole della situazione e affermerà che anzi difendeva il suo tornaconto.
Il memoriale Peña Parra
Nel 2018, l’arcivescovo Edgar Peña Parra prende il posto di sostituto, e come primo compito si dà quello di razionalizzare e vedere chiaro nella vicenda. E viene fuori che Torzi ha mantenuto per sé la proprietà delle uniche 1000 azioni su 30 mila con diritto di voto. Torzi aveva, insomma, il totale controllo del palazzo. La Segreteria di Stato si è detta inconsapevole di questo dettaglio, anzi Perlasca fa sapere che lui ha compreso che quelle mille azioni servono a Torzi per gestire il palazzo.
Inoltre, l’immobile è gravato da un mutuo di 128 milioni di sterline a tassi vicini al 7 per cento, che costa alla Segreteria di Stato un milione al mese. Il nuovo sostituto decide di prendere in mano le cose: c’è il timore che Torzi venda il palazzo, c’è il timore che una azione legale possa far perdere il controllo del palazzo e un investimento oneroso, e si decide di procedere in due direzioni.
Da un lato, si cerca di prendere il pieno controllo dell’immobile. Torzi, forte della sua posizione, negozierà una buonuscita da 20 milioni, ridotta a 15 milioni grazie ai buoni uffici di monsignor Carlino. Nelle trattative iniziali entra anche Milanese, che porta Torzi a Santa Marta, lì dove li raggiunge il Papa per una foto insieme. È il 26 dicembre 2018. Mentre all’officiale Fabrizio Tirabassi viene imputato un concorso in estorsione con Torzi. Ma è anche vero che Tirabassi era stato estromesso da GUTT da Torzi, perché lo vedeva come un ostacolo.
Torzi e l’architetto Luciano Capaldo
Secondo il promotore di Giustizia, Torzi ha architettato una truffa contro la Santa Sede. Nell’ambito delle indagini, Torzi viene convocato per un interrogatorio in Vaticano nel giugno 2020. Al termine di questo interrogatorio, viene arrestato a sorpresa e resterà in una delle celle nel palazzo della Gendarmeria per 11 giorni, uscendone con un memoriale in cui ricostruisce la sua verità sui cinque mesi di trattative. In quei cinque mesi, arriveranno a fianco della Segreteria di Stato nuovi consulenti: l’architetto (ingegnere) Luciano Capaldo, che fino a qualche giorno prima della trattativa è manager della società di Torzi e poi subito dopo comincia a lavorare come consulente della Segreteria di Stato. Non è indagato. Tuttavia gli avvocati Marco Franco, Mario Zanchetti e Matteo Santamaria, legali di Torzi, hanno più volte tratteggiato Capaldo in maniera negativa, addirittura arrivando a chiedere al tribunale di valutare se rimettere gli atti al promotore per una ipotesi di falsa testimonianza.
Capaldo sarebbe stato quello che avrebbe fatto aprire gli occhi a Peña Parra e a Perlasca i presunti imbrogli sulle mille azioni, insieme con Luca Dal Fabbro, allora presidente Snam e adesso presidente di Iren, che introdusse Capaldo a Tirabassi. Nessuno di loro è tra gli imputati.
Tuttora (al dicembre 2023) Capaldo è gestore della London 60 SA, la società che deteneva il palazzo di Sloane Avenue e che oggi è controllata al 100 per cento dalla Santa Sede. Durante il dibattimento, i legali di Torzi hanno messo in luce che Capaldo aveva spiato il broker nel febbraio 2019 attraverso il sistema di videosorveglianza del suo ufficio. Non solo. Lo stesso Capaldo - come spiega Milano Finanza - avrebbe fatto arrivare una proposta di acquisto per un altro immobile del Vaticano a Londra, quello nella società Sloane & Cadogan, da una società inglese, la Albion Square Holding senza però rivelare che quella società - di fatto, una scatola vuota - apparteneva lui: si chiamava Holy Macaroni, e il nome era stato cambiato il giorno prima della proposta. Forse la proposta serviva solo a difendere il valore dell’investimento.
L’agente segreto per intercettare il telefono del direttore dello Ior
Nel dibattimento, è emerso anche che Capaldo ha messo in contatto Peña Parra con un ex agente segreto del Sisde, Giovanni Ferruccio Oriente, affinché intercettasse il telefono cellulare del direttore dello Ior Mammì, l’artefice dell’avvio dell’inchiesta con la denuncia presentata nell’estate del 2018 al promotore. Un’altra denuncia venne presentata sempre quell’estate dal revisore generale del Vaticano, Alessandro Cassinis Righini. Chissà che il promotore di giustizia vaticano non voglia indagare anche su quella vicenda.
La questione dello IOR
La denuncia IOR è un punto focale della vicenda. È con la denuncia dello IOR che prendono l’avvio le indagini, e l’avvocato dello IOR è arrivato addirittura a chiedere alla Segreteria di Stato di restituire all’Istituto il contributo volontario inviato ogni anno dai profitti, che secondo lui sarebbe stato destinato al Papa e che non sarebbe stato usato secondo le intenzioni del Papa. Un ragionamento al di fuori del diritto canonico, dove Papa, Santa Sede, Sede Apostolica e Segreteria di Stato sono sinonimi (articolo 361 del Codice di Diritto Canonico) e dove comunque il denaro destinato alla Santa Sede viene automaticamente destinato al Papa e viceversa.
Lo IOR viene chiamato in causa dalla Segreteria di Stato, che aveva chiesto un prestito per chiudere l’oneroso mutuo sull’immobile di Londra e aprirne uno nuovo. Lo IOR nicchia, l’Autorità di Informazione Finanziaria (ente che vigila lo IOR) dice che sì, l’operazione si può fare, perché vero che lo IOR non è una banca, ma può concedere anticipi di denaro a fini istituzionali a determinate condizioni. Condizioni che nel caso dell’immobile di Londra c’erano, perché la garanzia era stata dallo stesso immobile.
Dopo vari mesi di tentennamenti, dopo che lo IOR chiede e ottiene documentazione ulteriore secondo una “adeguata verifica rafforzata” che in realtà viene applicata oltre le prerogative, l’istituto dira sì al prestito. Salvo poi, tre giorni dopo, il 24 maggio 2019, cambiare idea, ritirare il consenso, e quindi esporre la Segreteria di Stato a ulteriori perdite. Il 25 luglio 2019, in una drammatica riunione dal Cardinale Pietro Parolin, lo IOR resterà fermo sulle sue posizioni, e arriverà a considerare pressioni quelle dell’Autorità di Informazione Finanziaria. Ma a quel punto c’era già la denuncia, e il sistema vaticano era andato in tilt: un organo di governo non solo aveva rifiutato di aiutare il governo, in una operazione economicamente vantaggiosa, ma aveva denunciato il governo, ottenendo tra l’altro l’ok dell’autorità suprema. Era venuto meno, così, anche il principio di collaborazione tra i dicasteri vaticani.
Allo IOR spettano ora 100 mila euro di risarcimento di danni non patrimoniali, e tuttavia la ricostruzione della parte civile IOR non è stata pienamente accolta dal Tribunale vaticano. Né è stato accolto l’attacco contro l’AIF e i vertici di allora, tra l’altro contestati dal presidente dello IOR De Franssu durante un interrogatorio perché avrebbero messo in discussione un transazione IOR in una società che era stata per trenta anni casa dello stesso de Franssu.
L’Autorità di Informazione Finanziaria
Il rinvio a giudizio definiva “poco chiaro” il ruolo dell’Autorità di Informazione Finanziaria. René Bruelhart e Tommaso Di Ruzza, rispettivamente ex presidente e direttore dell’Autorità, sono stati condannati solo a 1750 euro di multa per omessa denuncia. In pratica, il Tribunale vaticano ha riconosciuto la bontà del loro operato, ha negato l’abuso di ufficio, ma ha detto che, una volta compresa la situazione, avrebbe dovuto segnalare la cosa al promotore di Giustizia.
Questa lettura, però, è fuori da ogni regolamento internazionale di intelligence. L’AIF aveva raccolto informazioni, stava facendo le sue valutazioni e solo successivamente avrebbe dovuto inviare eventualmente una segnalazione al promotore. Sembra pretestuoso, però, parlare di omessa denuncia quando sono sei le unità di informazione finanziaria coinvolta e quando l’AIF ha reso chiaro che la Segreteria di Stato può fare l’operazione ma poi il denaro sarebbe stato tracciato ed eventualmente recuperato se utilizzato in maniera illecita.
E c’è qui una idea che sembra farsi largo, e che pare derivare direttamente dall’ambiente italiano, ovvero quella di una sorta di “mitologia del magistrato” da avvertire in ogni circostanza. Idea che, tra l’altro, si ritrova nella nuova AIF, ora ridenominata ASIF; che ha visto il ritorno di una serie di dirigenti provenienti dal milieu della primissima dirigenza. Dirigenza che poi fu abbandonata per abbracciare una mentalità internazionale, guardando ad un adeguamento agli standard europei coerente con le peculiarità della Santa Sede.
A rigor di logica, possono i vertici che hanno contribuito a creare un sistema di trasparenza essere i primi a violarlo? E dove sarebbe stato l’interesse personale?
Monsignor Perlasca
È una situazione potenzialmente esplosiva per la Santa Sede. I capi di accusa utilizzano come base il memoriale di monsignor Perlasca, che nel corso degli interrogatori ha cambiato profondamente atteggiamento, diventando un collaboratore di giustizia. Ma poi è venuto fuori dal dibattimento che il memoriale di monsignor Perlasca, che contiene un atto di accusa durissimo contro il cardinale Becciu, è stato ispirato da Francesca Immacolata Chaouqui, personaggio noto in Vaticano per essere stata prima membro della Pontificia Commissione Referente sulla Struttura Economica Amministrativa della Santa Sede (COSEA) e poi finita a processo nel caso Vatileaks 2 per furto di documenti riservati. Chaoqui, che non fa mistero di avercela con il cardinale Becciu, era “l’anziano magistrato” che suggeriva Genevieve Ciferri, a sua volta amica di monsignor Perlasca, sui passi che l’amico monsignore avrebbe dovuto fare.
Enrico Crasso
Enrico Crasso, broker che per conto di Credit Suisse gestiva i fondi della Segreteria di Stato, è stato condannato a sette anni di reclusione. Nel 2017, si mise in proprio, creò il Fondo Centurion, e reinvestì 65 milioni della Segreteria di Stato. Si è parlato di affari fallimentari, ma Crasso ha dichiarato che il fondo ha generato una plusvalenza di 5,5 milioni finché lo ha guidato lui.
Cecilia Marogna
E poi c’è la vicenda di Cecilia Marogna. Presentata al cardinale Becciu come esperta di intelligence, si dirà coinvolta nella liberazione di suor Cecilia Narvaez, colombiana, rapita in Mali e liberata solo nel 2021, dopo cinque anni. Becciu aveva lavorato per la sua liberazione da sostituto, e ha poi continuato anche da Cardinale, sollecitando tra l’altro il suo successore a pagare alla società di Marogna (la Logsic) la cifra necessaria per la liberazione di Suor Narvaez. A Marogna vengono affidati 575 mila euro, che però lei spende in viaggi e oggetti di lusso.
Becciu ha sempre sostenuto di non sapere che Marogna avrebbe destinato il denaro a spese personali, ma, secondo il promotorem Becciu avrebbe dovuto denunciare, e non continuare ad avere un rapporto amichevole con lei, e questo è sintomo di un comportamento sospetto. Interessante che il promotore abbia chiesto la condanna di Becciu, e l’APSA ne abbia chiesto l’assoluzione dall’accusa di peculato.
Il Tribunale ha condannato Marogna a 3 anni e 9 mesi di reclusione, mentre alla sua società è stata comminata una multa di 40 mila euro.
La vicenda Sardegna
Infine, c’è la vicenda Sardegna. Quando era sostituto, Becciu avrebbe destinato 125 mila euro verso la Caritas di Ozieri, e questa avrebbe destinato 25 mila euro alla cooperativa Spes, guidata dal fratello Antonino. Incredibilmente, Becciu è stato riconosciuto colpevole di peculato, perché è vero che la destinazione dei fondi era legittima, ma farlo verso una società gestita dal fratello può rappresentare un vantaggio illecito tra fratelli.
Si tratta comunque di cifre modeste, che però hanno pesato sulla situazione del cardinale, ora chiamato a difendersi in secondo grado. Tra l’altro, al cardinale viene contestato un peculato, e sottolineato che, sebbene l’erogazione delle somme non sia un illecito, il fatto che la cooperativa si presieduta dal fratello lascia il sospetto di un indebito vantaggio. Il peculato, però, andrebbe provato, e del denaro inviato 25 mila euro sono stati destinati dalla Caritas e 100 mila euro sono ancora “in pancia” della Caritas. Dove è stato, dunque, il vantaggio?
Le riforme di Papa Francesco
Resta da capire se questo processo farà bene al sistema vaticano. Papa Francesco ha messo mano al comparto finanziario, ma ha messo a serio rischio la sovranità del sistema con elargizioni personali e decisioni improvvise. Di fatto, la Segreteria di Stato si è trovata senza gestione di fondi, dacché ne amministrava 600 milioni.
Da che mondo è mondo, i dicasteri vaticani con capacità finanziaria hanno rivendicato la loro autonomia e indipendenza. La Segreteria di Stato, tuttavia, aveva un ruolo specifico, che è quello di coordinamento di tutta la Curia. Questo la rende un dicastero “diverso”.
L’APSA, invece, ha incamerato tutte le funzioni amministrative della Segreteria di Stato. Questo crea qualche tensione, perché i beni della Santa Sede sono stati affidati da Francesco all’Apsa ma con la gestione accentrata presso lo Ior.
Restano tutti i dubbi su un processo in cui, tra l'altro, si sono giudicate delle prassi del passato con criteri nuovi di trasparenza. Restano alcune contraddizioni, e alcune condanne sembrano senza prove. Si saprà a dicembre 2024 cosa i giudici hanno definito, quando dovrebbe essere pubblicata la sentenza con tutte le motivazioni.
Processo Palazzo di Londra, verso il secondo grado
In attesa della sentenza, ci sono già le dichiarazioni di appello. L’assenza di APSA e Segreteria di Stato. Le richieste del promotore di Giustizia
Dopo la sentenza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, il promotore di Giustizia vaticano Alessandro Diddi si era dichiarato soddisfatto dell’esito del processo. Ma era una soddisfazione effimera, perché lo stesso promotore di Giustizia ha poi depositato una dichiarazione di appello alla sentenza articolatissima, che di fatto mette in discussione l’intero dispositivo di sentenza.
Così, in attesa di avere la sentenza – ci vorranno almeno sei mesi, ma la previsione è che si abbia il documento non prima di settembre 2024 – è cominciato già il dibattito sulla base del dispositivo, che in realtà ha da una parte smantellato buona parte delle ricostruzioni del promotore di giustizia e dall’altra ha riconosciuto vari reati agli imputati, definito richieste di risarcimento e confische da effettuare solo dopo l’appello (ma ci vorrà una delibazione, un riconoscimento da parte di altri Stati).
Non ci saranno, nel secondo grado, Segreteria di Stato e Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Erano state parti civili nel processo di primo grado, hanno ottenuto parziale soddisfazione con un risarcimento, e hanno deciso che no, non serve appellarsi ulteriormente. Ma ci sarà, oltre al promotore di Giustizia, anche l’Autorità di Supervisione e Informazione Finanziaria e l’Istituto per le Opere di Religione, che nell’annuncio dell’appello non hanno esplicitato ancora in cosa non sono d’accordo con il tribunale. Ça va sans dire, tutti gli imputati hanno presentato appello. Alcune difese, come quella del Cardinale Angelo Becciu, hanno già fornito una prima articolazione dell’appello. Altri hanno semplicemente annunciato l’appello, riservandosi di definirne i termini nel momento in cui ci sarà la sentenza.
Il processo
Per chiarezza di esposizione, definiamo i tre tronconi principali del processo, che riguarda fatti accaduti tra il 2012 e il 2019. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che – inizialmente all’oscuro della Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il pieno controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.
Quindi, parte del processo si concentra sul contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu. L’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) per fini personali.
.Condanne e assoluzioni
Unico completamente assolto da ogni capo di imputazione è monsignor Mauro Carlino, all’epoca dei fatti segretario del sostituto della Segreteria di Stato.
Il Cardinale Becciu ha avuto condanne per tre capi di imputazione, due per peculato e uno per truffa. Uno dei reati di peculato lo vede in concorso con il broker Raffaele Mincione per aver destinato 200 milioni di euro (un terzo della capacità di investimento della Segreteria di Stato) in un fondo altamente speculativo appartenente al broker.
René Bruelhart e Tommaso Di Ruzza, rispettivamente presidente e direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria all’epoca dei fatti contestati, ricevono solo una multa di 1750 euro. Enrico Crasso, il broker che per conto di Credit Suisse prima e poi in altre vesti gestiva i fondi della Segreteria di Stato vaticano, è condannato alle pena di sette anni di reclusione e 10 mila euro di multa con interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Raffaele Mincione, cui era stato affidato il fondo che poi fu destinato all’acquisto di quote dell’immobile di Londra, a cinque anni e sei mesi di reclusione, ottomila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Fabrizio Tirabassi, l’officiale della amministrazione della Segreteria di Stato che fu coinvolto dai superiori nelle trattative, è condannato a sette anni e sei mesi di reclusione, diecimila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Nicola Squillace, avvocato, coinvolto da Gianluigi Torzi nella compravendita, ha una pena sospesa di un anno e sei mesi.
Gianluigi Torzi, il broker che rilevò la gestione delle quote dell’immobile da Mincione per conto della Segreteria di Stato, è condannato a sei anni di reclusione, 6 mila euro di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici e sottoposizione alla vigilanza speciale per un anno.
Cecilia Marogna, la sedicente “agente segreta” che ricevette un compenso di 500 mila euro per una operazione di liberazione di una suora rapita in Mali e che secondo l’accusa avrebbe usato per sé, è condannata a 3 anni e 9 mesi di reclusione con interdizione temporanea dai pubblici uffici per lo stesso periodo.
La società della Marogna, la Logsic Humanitarne Dejavnosti D.O.O. pagherà una multa di 40 mila euro e ha divieto di contrattare con le autorità pubbliche per due anni.
Inoltre, il Tribunale ha ordinato la confisca per equivalente delle somme costituenti corpo dei reati contestati per oltre 166.000.000 di euro complessivi. Gli imputati sono stati infine condannati, in solido tra loro, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, liquidati complessivamente in oltre 200.000.000,00 di euro.
I risarcimenti danni
Tra i danni da conteggiare, anche 80 milioni di danni non patrimoniali per la Segreteria di Stato, mentre la sentenza punta anche a recuperare tutto il denaro destinato da Becciu alla Caritas di Ozieri e quello destinato alla sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna. Le confische saranno esecutive a partire dalla sentenza di secondo grado, ma c’è una norma che prevede la possibilità di confiscare i proventi del reato già con la sentenza di primo grado.
Con le casse sofferenti, e rese ancora più sofferenti dall’inquadramento dei giudici vaticani nei ranghi dirigenziali della Curia con relativo stipendio (decisione arrivata da Papa Francesco a due settimane dalla sentenza), recuperare il denaro è, per la Santa Sede, una necessità. Tanto più che il pool di avvocati messo in campo in questo processo, capeggiato dalla celeberrima Paola Severino in difesa della Segreteria di Stato e dall’altrettanto celebre Gian Maria Flick per l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, non è stato certamente a buon mercato. Tuttavia, per le confische serve innanzitutto che la sentenza vaticana venga riconosciuta efficace da un ordinamento estero. Serve, cioè, la “delibazione”.
L’appello di Diddi
Il dispositivo di sentenza dello scorso 16 dicembre, accompagnato da un comunicato stampa dello stesso tribunale, in qualche modo smantellava i capi di imputazione delineati dal promotore di Giustizia. C’erano molte assoluzioni, mentre in diversi casi i capi di imputazione erano stati assorbiti in nuovi capi di imputazione. Inoltre, nel corso del processo, il Tribunale non aveva ammesso come prove le dichiarazioni fornite dal broker Gianluigi Torzi quando questi era in carcere in Vaticano dove si era recato a deporre.
Diddi, che pure si era detto soddisfatto del dispositivo di sentenza, ha fatto un appello in cui difende le sue 487 pagine di rinvio a giudizio, una tesi accusatoria che non è stata scalfita neppure dal dibattimento – e in effetti la requisitoria di Diddi si sarebbe potuta svolgere allo stesso modo tre anni fa.
In tre pagine, Diddi ha chiesto che la corte di appello vaticana condanni ognuno degli imputati su tutte le ipotesi di accusa originali, contestando il fatto che il Tribunale in molti casi non abbia definito crimini quei comportamenti.
Diddi ha anche contestato la decisione del Tribunale di non usare l’interrogatorio di Torzi mentre era in carcere in Vaticano, dove ha trascorso dieci giorni ed è stato rilasciato dopo che questi aveva prodotto una memoria.
Gli altri appelli
Come detto, Segreteria di Stato e Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica non si sono appellati. Evidentemente, sono soddisfatti con la sentenza, che comunque ha definito un loro diritto ad un risarcimento. Allo stesso modo, ASIF e IOR hanno presentato già istanza di appello. L’ASIF è arrivata a definire, nelle sue richieste, un obbligo dell’intelligence di comunicare delle sue indagini con il promotore di Giustizia, obbligo che non è previsto in nessuno dei protocolli internazionali. Lo IOR è arrivato a definire una differenza tra Santa Sede e Santo Padre, chiedendo persino alla Segreteria di Stato di restituire il contributo volontario che lo IOR destinava alla Santa Sede dai suoi profitti perché sia ridestinato al Santo Padre – e, nel diritto canonico, Santo Padre, Santa Sede, persino Segreteria di Stato sono sostanzialmente sinonimi.
Di fatto, sono posizioni difficilmente sostenibili in punta di diritto, ma che verranno reiterate in sede di appello.
Si certifica, di fatto, un asse tra Promotore di Giustizia e organismi finanziari della Santa Sede, e vale la pena ricordare che il processo è partito da una denuncia dello stesso IOR, che prima aveva accettato di dare un anticipo alla Segreteria di Stato per rilevare il palazzo di Londra sgravandosi di un mutuo oneroso sullo stesso palazzo e poi aveva incredibilmente rifiutato il prestito – che poteva dare secondo regolamento – denunciando la stessa Segreteria di Stato.
Il rischio è che si definisca un potere giudiziario che sovrasta il potere esecutivo, una sorta di ipertrofizzazione del ruolo dei magistrati che va di pari passo con la vaticanizzazione della Santa Sede. Il Papa, infatti, è intervenuto nel processo con quattro rescritti che hanno dato poteri straordinari al promotore di Giustizia vaticano, di fatto stabilendo una sorta di supremazia della gestione dello Stato sulla Santa Sede, considerando che uno degli effetti del processo è stata la spoliazione di molte delle prerogative della Segreteria di Stato vaticana, ormai senza autonomia finanziari e fuori dal governo delle finanze.
I problemi del secondo grado
Di fatto, il processo di appello porta con sé varie incognite. Se già il processo di primo grado aveva messo in discussione molta della capacità giudiziaria della Santa Sede, l’appello si presenta con non meno incognite. A partire dal fatto che l’ufficio del promotore di Giustizia non cambia, e resta lo stesso anche nell’appello.
Papa Francesco riformò la Corte di Appello l’8 febbraio 2021, appena tre giorni dopo la nomina di Catia Summaria come promotore di Giustizia della Corte di Appello, con un motu proprio che stabiliva “cambiamenti in termini di giustizia”, in cui si specificava che negli appelli le funzioni del procuratore sono esercitate da un magistrato dell’ufficio del promotore di giustizia.
Significa che il promotore che si è appellato è quello che poi presenterà di nuovo l’accusa, sebbene di fronte a un giudice diverso – presidente della Corte di Appello è l’arcivescovo Alejandro Arellano Cedillo, che è anche decano del Tribunale della Rota Romana.
La Corte di Appello ha anche come giudici monsignor Francesco Viscome e Massimo Massella Ducci Teri. Manca un presidente di garanzia come Giuseppe Pignatone, che ha comunque gestito il primo grado dando spazio a tutte le difese. C’è un giudice canonista, monsignor Viscome, ed è auspicabile che venga coinvolto, perché l’esautorazione dei canonisti significherebbe una ulteriore esautorazione della Santa Sede.
Va notato, infatti, che in primo grado l’ufficio del Promotore di Giustizia, nonché i ranghi del Tribunale, provenivano tutti dalla avvocatura italiana, con vari incarichi in Italia. Diddi affianca alla sua attività in Vaticano, quella di avvocato. Tra i suoi clienti, Salvatore Buzzi, condannato a circa 18 anni di reclusione nel caso “Mondo di mezzo” a Roma, noto alle cronache come “Mafia Capitale”.
E ancora: il giudice Riccardo Turrini Vita è Direttore Generale della formazione, Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Ministero della Giustizia italiano; il giudice Carlo Bonzano è avvocato a Roma, così come il giudice Paolo Papanti Pellettier, che risulta anche essere Presidente del Tribunale Magistrale di prima istanza dell’Ordine di Malta, e che, pur avendo specialità di diritto civile ed ecclesiastico, è stato giudice istruttore delle indagini su Cecilia Marogna.
Lavorano come avvocati a Roma anche i Promotori di Giustizia Roberto Zannotti e Gianluca Perone.
Sono tutti professionisti con esperienza in vari ambiti del diritto italiano. L’ordinamento vaticano, tuttavia, ha come riferimento il diritto canonico, e dunque il legame così forte con l’Italia rischia di essere controproducente. Non solo. Le nuove disposizioni in materia giuridica hanno portato a un ritorno indietro delle norme, permettendo a tutti i giudici in Vaticano di essere part time, andando contro alla richiesta del Consiglio di Europa che voleva che almeno uno dei giudici e dei promotori fosse dedicato a tempo pieno al tribunale.
Insomma, al di là della vaticanizzazione della Santa Sede, il rischio è quello di una italianizzazione, e dunque una provincializzazione, rispetto alla Santa Sede, che ha un ordinamento peculiare e una visione universale. Il Tribunale del Papa rischia, così, di trasformarsi in una procura dell’agro romano, come ebbe a notare anche un editoriale di Giuliano Ferrara per Il Foglio.
L’appello di Becciu
Il cardinale Becciu ha presentato un appello più articolato, in quasi 40 pagine, ribadendo tutte le tesi difensive e mettendo in luce le incongruenze della sentenza. A partire dal peculato per cui il Cardinale è stato condannato, che non ha ragione di essere sia perché non c’è stato alcun passaggio di denaro diretto ad alcun famigliare del cardinale, e perché il denaro destinato dalla Segreteria di Stato al tempo in cui Becciu era sostituto non andava alla cooperativa SPES, di cui il fratello del cardinale era presidente, ma direttamente alla Caritas. Tra l’altro, delle due tranche, quella di 25 mila euro è stata utilizzata per comprare una macchina per la panificazione, dato che l’altra era stata danneggiata da un incendio, e quella di 100 mila era destinata ad un progetto ed è rimasta in pancia alla stessa Caritas.
Inoltre, la difesa Becciu nota che il denaro investito non ha mai riguardato l’Obolo di San Pietro, come era emerso anche in dibattimento.
I difensori hanno notato che “in particolare, è emerso che la sottoscrizione iniziale del fondo Athena, quando ancora era denomitato Athena Capital Commodities Fund era stata decisa dall’Ufficio amministrativo e dai consulenti esterni della Segreteria di Stato in materia di investimenti, durante la due diligence relativa all’investimento Falcon Oil. Anche la prosecuzione dell’investimento nel fondo Athena GOF, poi, era stata istruita dall’Ufficio amministrativo, competente per gli investimenti della Segreteria di Stato, e valorizzata dall’Ufficio con l’appunto dell’8 luglio 2014, già in atti”.
Dunque, si legge ancora nella richiesta di appello, “la condanna del Cardinale Becciu in relazione al peculato per la sottoscrizione nel fondo Athena (istruita e perorata dall’ufficio amministrativo), dunque, contrasta pienamente con l’archiviazione di Monsignor Perlasca, responsabile dell’Ufficio Amministrativo, inizialmente indagato per tale investimento, poiché l’investimento è stato pensato e istruito proprio dall’ufficio da lui diretto ed è stato dallo stesso suggerito”.
Gli avvocati hanno poi ribadito l’illogicità della truffa aggravata con destinazione dei soldi a Cecilia Marogna, che tra l’altro sono stati erogati quando il Cardinale non era più sostituto.
Processo Palazzo di Londra, tre pareri rimettono in discussione il procedimento vaticano
Restano molte domande aperte, dopo la pubblicazione di tre pareri diversi sul processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Dal diritto canonico ai diritti umani, ecco cosa pensano gli esperti
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , sabato, 23. marzo, 2024 11:00 (ACI Stampa).
È stato giusto processo, quello sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato in Vaticano? No, rispondono tre pareri, diversi per fattura, dimensioni e angolazioni, ma concordi nel denunciare le falle di un procedimento penale che si è concluso con un dispositivo di sentenza controverso. La sentenza – attesa per la fine dell’anno, ma non c’è un termine preciso – permetterà di comprendere meglio le motivazioni dei giudici, ma certo i tre pareri pubblicati sono una spada di Damocle sul sistema giudiziario vaticano, il segno che le questioni rimarranno aperte e le domande senza risposta. E allora, alla fine, ci si dovrà chiedere se la Santa Sede sarà in grado di sostenere il peso di una campagna mediatica e internazionale sulla aderenza del suo sistema giudiziario agli standard internazionali.
I tre pareri vengono dal canonista Paolo Cavana; dalla canonista Geraldina Boni, coadiuvata da Manuel Ganarin e Alberto Tomer; e da Rodney Dixon, esperto di diritti umani inglese. Sono stati sollecitati da alcuni imputati del processo, e mettono in luce quelle che si ritengono le falle del sistema giudiziario vaticano, e il modo in cui è stato definito.
Tra limiti del diritto canonico e questioni internazionali
Andiamo con ordine. Il primo a pubblicare il suo parere è stato il professor Paolo Cavana, che insegna diritto canonico ed ecclesiastico alla Libera Università Maria Santissima Assunta di Roma. Allievo di Dalla Torre, ha pubblicato un saggio dal titolo asciutto – “Osservazioni sul processo vaticano contro il cardinale Becciu e altri imputati” – ma di interesse perché usa come metro di paragone la Convenzione Monetaria firmata dalla Santa Sede con l’Unione Europea nel 2009. Una Convenzione, alla fine, che includeva la Santa Sede nel panorama europeo, di fatto ponendo fine, almeno per alcune questioni, al principio di Roma Locuta Causa Finita, perché include un appello ulteriore, quello alla giustizia europea.
Nel suo saggio, Cavana mette in questione l’indipendenza dei giudici vaticani, perché questi, secondo la legislazione dello Stato di Città del Vaticano, “dipendono gerarchicamente dal Sommo Pontefice”, il quale li nomina liberamente e può revocarli ad libitum, e al quale tutti i magistrati vaticani, nell’atto di assumere le loro funzioni, sono tenuti a prestare giuramento.
“Sul piano normativo – nota Cavana – vi sono quindi una serie di elementi che potrebbero far dubitare dell’effettiva indipendenza dei giudici vaticani rispetto al potere sovrano”.
Nel testo, però, si nota che il Papa non era mai intervenuto durante il processo, come invece ha fatto Papa Francesco con quattro rescripta nel corso del procedimento, cioè quattro decisioni avvenute dopo una udienza personale del Papa.
Il primo rescritto è datato 2 luglio 2019, e permette all’Istituto delle Opere di Religione, da cui è partito la prima denuncia che ha dato il via alle indagini, “di agire in deroga agli obblighi di segnalazione alle autorità dello Stato” e che “dia dettagliata notizia al promotore di Giustizia e che il promotore di giustizia agisca con rito sommario”. In pratica, lo IOR era autorizzato a non segnalare una eventuale transazione sospetta all’Autorità di Informazione Finanziaria, ente vigilante dello stesso istituto, ma gli era richiesto di riportare al Promotore di Giustizia vaticano. Promotore di Giustizia che, tra l’altro, dovrebbe agire solo dopo l’attività di intelligence dell’Autorità di Informazione Finanziaria, quando questa ha disseminato all’ufficio il Rapporto di Segnalazione Sospetta.
Era il primo vulnus al sistema vaticano e a come si era delineato aderendo alle norme internazionali. Il 5 luglio, tre giorni dopo, Papa Francesco aumenta i poteri di indagine del Promotore di Giustizia, autorizzando anche le intercettazioni audio.
Il 9 ottobre 2019, Papa Francesco con un terzo rescritto autorizza il promotore di Giustizia a vedere tutte le carte sequestrate alla Autorità di Informazione Finanziaria e Segreteria di Stato vaticana. È il momento in cui la Santa Sede viene definitivamente “vaticanizzata”, perché i magistrati diventano più importanti dell’organo di governo e della autorità di intelligence. Ma è anche il momento che porta ad una crisi di credibilità internazionale, tanto che la Santa Sede viene sganciata dal circuito di comunicazioni sicure Egmont – che unisce in un network le autorità di intelligence finanziaria di tutto il mondo – proprio perché le carte sequestrate riguardano documenti confidenziali, e che da tali dovrebbero essere trattati. Ci volle un protocollo di intesa tra AIF e Tribunale Vaticano per regolamentare l’uso delle informazioni per far rientrare la crisi.
Infine, il 13 febbraio 2020 Papa Francesco ha confermato per altri 60 giorni tutte le prerogative concesse.
Sono provvedimenti – nota il professor Cavana – “adottati senza essere mai stati pubblicati, in contrasto con il principio di legalità, che impone la previa pubblicazione degli atti aventi forza di legge prima della loro entrata in vigore sia nell’ordinamento vaticano che in quello canonico”. Gli stessi rescripta non sono nemmeno stati comunicati alle parti e sono “rimasti segreti fino alla loro produzione in giudizio da parte del promotore di Giustizia, avvenuta – su esplicita richiesta del Tribunale – solo molto tempo dopo la loro emanazione e il loro utilizzo”.
Questi rescripta - continua Cavana - mettono in crisi l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici, e sono stati tra l’altro giustificati dai giudici del Tribunale Vaticano con la teorizzazione di “una concezione assolutista del potere sovrano che non trova più alcun riscontro negli ordinamenti giuridici moderni e contemporanei”.
Una situazione che va ad “incrinare la sostanziale affidabilità di cui ha goduto fino ad oggi la giurisdizione dello Stato della Città del Vaticano a livello internazionale”, e questo potrebbe mettere a rischio il riconoscimento della validità della sentenza in Italia, per non parlare del campo internazionale.
Insomma, la posta in gioco “non riguarda più soltanto la sorte degli imputati, la loro onorabilità e libertà, che meritano peraltro la massima attenzione e tutela, ma la stessa credibilità e coerenza della Santa Sede”, la cui stessa missione di pace “rischierebbe di risultare indebolita e meno efficace se principi fondamentali come quello dello stato di diritto o rule of law risultassero disattesi o contraddetti nella pratica giudiziaria e di governo dello Stato vaticano”.
Il parere di Geraldina Boni
Il parere pro veritate di Geraldina Boni, professoressa ordinaria di Diritto Canonico e di Diritto Ecclesiastico all’Alma Mater Studiorum di Bologna, ha invece come titolo “Il Processo del Secolo e le violazioni del diritto”. Il parere è stato sollecitato dal Cardinale Angelo Becciu, tra gli imputati del processo. In una lunga disamina che comincia proprio con i principi del diritto canonico, il testo mette in luce.
Secondo Boni, il cosiddetto “processo del secolo” presenta un “plateale scollamento” della legge dello Stato della Città del Vaticano dai principi iscritti nel diritto canonico; mette in luce i limiti delle recenti riforme giudiziarie volute da Papa Francesco ed ipso facto di tutto il sistema giudiziario vaticano così come si è delineato; pone seri interrogativi sulla presenza di un giusto processo nel sistema vaticano; pone lo stesso Stato di Città del Vaticano in una posizione critica riguardo i suoi impegni internazionale, mettendo a rischio anche possibili contratti di appalto che, in presenza di dubbi sulla trasparenza del sistema giudiziario, potrebbero essere negati dai contraenti.
Anche in questo caso, viene fatto notare l’impatto dei rescripta del Papa, rimasti riservati, che hanno ampliato i poteri dell’accusa e danneggiato i principi dell’equo processo. E questo va contro anche ai principi del diritto canonico, prima fonte normativa.
Il parere nota che la divaricazione tra Stato della Città del Vaticano e interessi della Santa Sede, diritto canonico e diritto dello Stato sono il cuore pulsante delle problematiche del processo. Da qui, tuttavia, si diramano una serie di altre criticità, specialmente riguardo quei legami che giocoforza lo Stato vaticano è venuto intessendo negli anni nella comunità internazionale, in conseguenza dei quali - in via diretta o in via mediata - si trova a dover rendere conto della propria aderenza ai medesimi principi.
Il testo mette in luce il rischio che ora si possano aprire procedimenti di verifica sul giusto processo vaticano in ambito internazionale, e se pure questi criteri dovessero essere superati, questo consentirebbe alla Corte europea dei diritti dell’uomo di esprimersi sulla delibazione e, per suo tramite, sul procedimento originario, e i precedenti mostrano che l’approccio dei giudici di Strasburgo sulla vicenda non sarebbe accomodante.
Non solo. Il documento ricorda anche che il 4 dicembre 2023, a pochi giorni dalla sentenza, è arrivato l’ennesimo motu proprio di papa Francesco che ha parificato i giudici vaticani a degli officiali di alto livello del Vaticano, come se lavorassero a tempo pieno, con un sincronismo – scrive Boni – che “potrebbe indurre a percepire l’intervento normativo come una generosa ‘ricompensa’ ai giudici per il lavoro compiuto”.
Il parere di Dixon
Più asciutto, in Perfetto stile anglosassone, il parere di Rodney Dixon, un esperto avvocato internazionale sui diritti umani. In 19 pagine, punti molto precisi, ha preparato il suo parere su richiesta di Raffaele Mincione, uno degli imputati del processo, che fu il primo gestore dell’investimento della Segreteria di Stato nell’immobile di Londra.
Dixon ha sottolineato che gli Stati dovrebbero rifiutare di cooperare con il Tribunale Vaticano, e anche rifiutare di rispettarne le sentenze, considerando che il processo è stato “rovinato da sostanziali violazioni di obblighi legali ben stabiliti applicabili a tutti i procedimenti penali”.
Anche Dixon ha messo in luce le anomalie create dai rescritti papali, ma anche il rifiuto del tribunale di permettere a Mincione di chiamare sette testimoni e il rifiuto del Promotore di Giustizia di fornire tutte le prove al difensore.
Dixon ha lamentato che Giuseppe Pignatone, presidente del Tribunale vaticano, ha continuamente respinto al mittente le accuse di non star presiedendo un giusto processo, arrivando a dire, in una ordinanza dell’1 marzo 2022, che la Santa Sede non ha, è vero, aderito ad alcune convenzioni dei diritti umani, ma che comunque le sue leggi incorporavano pienamente quei principi, notando come sia il tribunale italiano che quello svizzero avevano precedentemente riconosciuto l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici vaticani, e che i giudici sono soggetti “solo alla legge.
Certo, non veniva notato – ma è una nota a margine – che una sentenza a Londra, del giudice Tony Baumgartner, metteva in luce le anomalie del processo, arrivando a definire una mischaracterization dei fatti per come erano stati delineati dal promotore di Giustizia vaticano.
Le domande che restano aperte
Il lavoro dei canonisti e degli esperti dei diritti umani è solo l’inizio di quello che sarà probabilmente un grande dibattito nel campo del diritto internazionale. Ma come si calano nella realtà queste note critiche? Quali sono i fatti che sono all’origine di questo vulnus nel sistema vaticano?
Si è detto delle perquisizioni all’Autorità di Informazione Finanziaria e alla Segreteria di Stato che hanno portato alla sospensione della Santa Sede dal circuito delle comunicazioni sicure del Gruppo Egmont. È un dato che non va sottovalutato, perché le perquisizioni hanno riguardato documenti dell’organismo di governo e documenti di intelligence, i primi soggetti ad una naturale riservatezza, i secondi frutto dello scambio di informazione con Paesi terzi, che non possono essere soggette al vaglio dei magistrati vaticani. In che modo, dunque, la Santa Sede sarà credibile a livello internazionale? Come MONEYVAL, il comitato del Consiglio d’Europa alla cui valutazione la Santa Sede si sottopone per quanto riguarda gli standard di trasparenza finanziaria internazionale, valuterà gli sviluppi?
Tra l’altro, MONEYVAL aveva raccomandato che almeno uno dei giudici vaticani e dei promotori di giustizia fosse impiegato full time nello Stato. Questa disposizione era stata recepita nella riforma penale vaticana, ma poi cancellata da Papa Francesco con un colpo di penna nell’ultimo cambiamento all’ordinamento giudiziario il 12 aprile 2023. Se l'impiego part time di giudici e promotori di giustizia poteva essere giustificato con il fatto che il Vaticano fosse un micro-Stato e che la mole dei processi non fosse significativa, ora questa giustificazione non è più possibile. Ci sono processi ampi, che riguardano il diritto dello Stato di Città del Vaticano, e con indagini portate avanti in maniera massiva. Ci vogliono giudici e promotori di giustizia full time e completamente a proprio agio nell’ordinamento vaticano.
Tanto più che, a parte il presidente del Tribunale Giuseppe Pignatone, tutti i magistrati vaticani hanno incarichi in Italia o presso altre istituzioni sovrane come l’Ordine di Malta. A volte, sono avvocati in Italia e pubblica accusa di Vaticano, e così si trovano incredibilmente a difendere il giusto processo in Italia ma poi a favorire la procedura sommaria in Vaticano.
La terza questione, infatti, riguarda proprio il modo in cui sono state sia svolte le indagini che definiti i primi provvedimenti. Ci troviamo di fronte a officiali vaticani sospesi dal servizio con documenti senza firma dei superiori né alcun giudizio di condanna, come invece prevede la normativa della Santa Sede. Ci sono state perquisizioni in zone extraterritoriali della Santa Sede che, secondo l’articolo 15 del Trattato Lateranense, sono considerate territorio italiano e sul quale la Gendarmeria vaticana non avrebbe giurisdizione, perché vi si applica la legge italiana e ne sono competenti le autorità italiane. Ci sono state – lo hanno denunciato più volte gli avvocati in aula durante il processo – perquisizioni e sequestri senza fornire copia del verbale né la presenza dell’avvocato.
I rescripta di Papa Francesco, oltre al processo sommario e all’autorizzazione a compiere le indagini con ogni mezzo, prevedevano, come detto, anche l’ausilio di mezzi di intercettazione. Ma allora ci sono altre domande: le registrazioni sono state fatte solo in Vaticano o anche in Italia e in altri Paesi? In caso, in che modo ci si è interfacciati con le legislazioni degli altri Paesi?
E ancora: dove sono custoditi i file delle intercettazioni? Sono stati distrutti? Se sono stati distrutti, chi garantisce che questo sia avvenuto in coerenza al diritto alla privacy e all’oblio come previsti dal regolamento europeo?
Sono domande che bruciano, e che sono emerse tutte durante il processo. Tra l’altro, non avendo la Santa Sede firmato la Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, non è possibile il vaglio delle sentenze, e questo non garantisce lo standard dell’articolo 6 della CEDU, in cui si legge che “ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta”.
Già se il Promotore di Giustizia avesse seguito l’istruzione formale, invece di quella sommaria, avrebbe garantito un effettivo diritto alla difesa. Ma questo non è avvenuto.
Altre questioni riguardano l’intervento diretto di Papa Francesco su una specifica indagine condotta dal Promotore di Giustizia. In altre parole, è il sovrano che interviene sul pubblico ministero. Ma questo è coerente con il ruolo istituzionale del Santo Padre come Capo della Chiesa cattolica universale? E, soprattutto, garantisce la piena auto-nomia e indipendenza del Promotore di Giustizia?
Sono questioni che dovrebbero essere poste a livello internazionale, nelle sedi competenti, anche perché la Santa Sede non ha firmato molti strumenti internazionali che consentirebbero un monitoraggio della questione. Sarà un dibattito che potrebbe estendersi a Strasburgo, Bruxelles, Ginevra e New York.
La questione dei dossier
C’è poi un aspetto del processo vaticano che si collega con la recente indagine riguardo gli accessi illeciti nel sistema informatico della Direzione Nazionale Antimafia, che coinvolge il finanziere Pasquale Striano. Sulla questione si è soffermato l’ex magistrato Otello Lupacchini in un incontro su “La Giustizia nello Stato di Città del Vaticano e il caso Becciu” organizzato da Quaderni Radicali lo scorso 14 marzo.
Lupacchini si è chiesto come non considerare il fatto che i magistrati vaticani "provengono dall'Italia o assai spesso sono legati alla Guardia di Finanza, alla quale appartiene anche il luogotenente Striano”, specialmente alla luce del fatto che gli accessi abusivi riguardano anche personaggi coinvolti a vario titolo nel processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato – in particolare gli imputati Raffaele Mincione, Gianluigi Torzi, Fabrizio Tirabassi, Cecilia Marogna e anche il deputato Giancarlo Innocenzi Botti, il quale aveva portato sul tavolo una offerta per il palazzo di Londra riferita da Becciu al Papa e anche oggetto di uno scambio epistolare tra lo stesso Cardinale e Papa Francesco.
Lupacchini ha notato che gli accessi illeciti non sono “cose accadute quando ormai l’indagine era avviata e il processo in corso”, ma di cose “che hanno determinato l’insorgenza dell’indagine stessa perché queste introiezioni nel sistema avvengono a partire da una epoca antecedente al procedimento penale dell’inchiesta”.
Infatti, l’acquisizione delle informazioni abusive sui personaggi coinvolti nel processo vaticano iniziano il 22 luglio 2019 “ben quattro mesi prima della perquisizione negli uffici della Segreteria di Stato” – nota Lupacchini – e proseguono per il tempo successivo”.
La fuga di notizie sulle indagini vaticane porta alle dimissioni del comandante della Gendarmeria vaticana Domenico Giani il 15 ottobre 2019, e il Papa lamenta la sofferenza causata alle persone coinvolte. Lupacchini si chiede: “Cosa c'è dietro a quello che viene definito da Cantone un verminaio per gli accessi abusivi e l'estrazione di file su materie delicate sottratte alle banche dati a cui aveva accesso il luogotenente Striano presso la DNA? Noi non lo sappiamo, tuttavia sappiamo chi ne ha beneficiato e sappiamo quale uso sia stato fatto dai documenti: le denunce di operazioni sospette relative alla vicenda Becciu”.
Sulla vicenda è stato aperto un fascicolo dal Promotore di Giustizia vaticano.
Quello dell’asse Italia – Vaticano è una questione tutta da esplorare. Anche perché la Santa Sede aveva lavorato per anni per spostare i suoi interessi e il suo polo di interesse su un piano più internazionale di quello che si basava su un rapporto privilegiato con l’ingombrante vicino italiano. Uno sforzo che, oggi, sembra essere stato vanificato. Ci si trova di fronte a un sistema giudiziario profondamente dibattuto e ad una credibilità internazionale sempre più messa a rischio. Un passo indietro, in fondo, che potrebbe avere pesanti conseguenze.
Processo Palazzo di Londra, Pena Parra testimone a Londra
Raffaele Mincione, uno degli imputati del processo vaticano, ha chiamato la Santa Sede come testimone in un procedimento a Londra collegato. E così, il sostituto della Segreteria di Stato è stato ascoltato sul banco dei testimoni
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Di Andrea Gagliarducci
Londra , giovedì, 11. luglio, 2024 12:30 (ACI Stampa).
Da una parte, c’è un broker che è stato imputato in Vaticano (e condannato su alcuni capi di accusa) e che è deciso a difendere la sua reputazione. Dall’altra, la Santa Sede, che aveva dato a quello stesso broker in gestione delle quote immobiliari, e che poi ha deciso di darla ad un altro broker che però considera oggi in una combutta fraudolente per prendere dal Vaticano il massimo profitto possibile. Uno scenario a volte surreale, quello che ha portato l’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto della Segreteria di Stato, sul banco dei testimoni presso l’Alta Corte di Giustizia del Regno Unito.
II processo all’Alta Corte di Giustizia è stato avviato lo scorso 24 giugno a seguito di una denuncia civile presentata nel 202 in Inghilterra da Raffaele Mincione, il broker che aveva avuto in gestione le quote dell’ormai famoso (o famigerato) immobile di Londra. Mincione è stato condannato in Vaticano a 5 anni e 6 mesi, più 8 mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per riciclaggio, appropriazione indebita e corruzione.
Il processo vaticano, conclusosi più di otto mesi fa e in attesa dell’appello, si divide in tre tronconi principali. Il primo, che è poi quello in gioco in questo momento, riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifere in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. Poi, diede le stesse quote in gestione al broker Gianluigi Torzi, che – inizialmente all’oscuro della Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto, e di conseguenza il pieno controllo del palazzo. Infine, rilevò l’intero palazzo, che è stato recentemente rivenduto.
Secondo la Segreteria di Stato, il prezzo dell’immobile era stato sovrastimato, e tra l’altro il passaggio delle quote dalla gestione di Mincione a quella di Torzi nascondeva un intento fraudolento, perché Mincione e Torzi sarebbero stati in combutta per ottenere il massimo possibile dalla gestione dell’immobile e dalla Santa Sede.
Fu l’arcivescovo Edgar Pena Parra a prendere in mano la situazione come sostituto, già a partire dal 2018, superando quello che nel suo memoriale ha definito “metodo Perlasca”, cioè un modus operandi nella sezione amministrativa della Segreteria di Stato che portava ai superiori solo i fatti compiuti. Alberto Perlasca è stato capo dell’amministrazione della Segreteria di Stato per 13 anni. Testimone al processo, è stato ora reintegrato in Vaticano.
Fu Pena Parra a decidere di rilevare l’intero immobile, di uscire dall’affare con Torzi e di superare la questione in maniera definitiva.
Mincione vuole che le testimonianze dimostrino la sua buona fede nel gestire l’investimento di Londra, la Segreteria di Stato insiste nella condotta fraudolente, ricorda che la denuncia a Londra è stata fatta solo due giorni dopo l’arresto in Vaticano di Gianluigi Torzi, che Mincione non si è mai presentato all’interrogatorio, e che le indagini del Promotore di Giustizia hanno portato al congelamento in Svizzera di alcuni beni di Mincione”.
Pena Parra ha reso testimonianza il 4,5 e 8 luglio. Le sue parole sono state coerenti sia con la testimonianza resa in Tribunale sia con il suo memoriale, una “nota ampia”, richiesta direttamente dal Papa, come ha spiegato agli avvocati di Mincione, che pure insistevano sulla parzialità del documento, cui aveva collaborato anche il consulente Luciano Capaldo per alcuni passaggi relativi al palazzo.
Cosa ha detto Pena Parra in Tribunale? Che la Segreteria di Stato si è trovata vittima di “bugie e cose ingannevoli” e che era “in trappola”, obbligati ad accettare le richieste di Torzi, che aveva tenuto per sé le uniche mille azioni con diritto di voto del fondo sull’immobile di Londra e che per uscire dal controllo delle quote aveva chiesto un compenso in denaro, quantificato poi in 15 milioni. Torzi è stato condannato in Vaticano per estorsione.
Pena Parra ha sottolineato che, a un certo momento, la decisione della Segreteria di Stato era quella di “uscire da questa situazione”, e che si era stati costretti a farlo “per essere finalmente liberi. Non avevamo altra scelta. Anche il Santo Padre mi ha detto di provare a perdere il minimo e girare pagina”.
Il sostituto, nell’udienza del 5 luglio, ha parlato di “lupi travestiti da agnelli” per descrivere i personaggi che giravano intorno al Vaticano. E anche il 5 luglio non si è mai parlato delle transazioni con Mincione.
Il passaggio della gestione delle quote dell’immobile di Londra al fondo GUTT di Torzi, che aveva detenuto il controllo dell’investimento con le sole 1000 azioni con diritto di voto, è stato definito da Pena Parra “una truffa”.
E no, il sostituto non avrebbe mai pagato i 15 milioni (fatturati come consulenza, in maniera se non falsa, perlomeno imprecisa), come non avrebbe mai pagato i 40 milioni dati a Mincione perché questi lasciasse il controllo delle quote del palazzo di Londra, mentre c’era un mutuo accesso sull’immobile di sei milioni l’anno. Tra l’altro, proprio per chiudere questo prestito e aprire una nuova più vantaggiosa linea di credito, la Segreteria di Stato si era rivolta allo IOR, che dapprima aveva accettato l’anticipo, poi lo aveva negato, denunciando la Segreteria di Stato e dando il via al corto circuito che ha portato al processo.
La trattativa per la “buonuscita” di Torzi è stata lunga e laboriosa, si è passati da una ipotesi di liquidazione a 1 o 2 milioni di euro, ad una di 9 milioni, fino alla richiesta di 25 milioni da parte di Torzi mediata da monsignor Mauro Carlino, al tempo segretario del Sostituto, che ottenne che al finanziere fossero pagati 15 milioni.
Pena Parra ha anche detto di aver sempre informato sia Papa Francesco che il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, delle sue azioni, anche di quando, con una iniziativa fuori da ogni “protocollo” decise di contattare il revisore generale, Alessandro Cassinis Righini, il sabato 24 novembre 2018 per un parere sui contratti stipulati per la proprietà londinese e in particolare il framework agreement che definiva il passaggio dal fondo Gof (di Mincione) al Gutt (di Torzi).
Cassinis Righini rispose al sostituto lunedì 26 novembre con una lettera. Il Papa e Parolin erano informati di questa decisione di interpellare “persone competenti”, ma non è stata poi inviata loro la risposta di Cassinis: “No – ha spiegato monsignor Peña Parra - perché era qualcosa indirizzata a me, non a loro. Ero l’unico coinvolto, io sono il sostituto. Ed ero solo in questa operazione…”
Pena Parra ha anche detto di non aver mai ricevuto il secondo documento del Revisore Generale, i cui si sconsigliava di andare avanti con l’operazione.
Pena Parra chiese anche consulenza a Nicola Squillace, che gli era stato presentato come avvocato della Segreteria di Stato, e ci volle almeno un mese prima che ci si rendesse conto che Torzi aveva tenuto per sé le uniche mille azioni con diritto di voto, mentre Squillace aveva affermato che “le mille azioni servivano solo a dare a Gutt la possibilità di entrare nell’amministrazione del palazzo”.
Solo a quel punto, Pena Parra ratificò la firma di Perlasca, che – come capo dell’amministrazione – andò a Londra a firmare l’accordo del passaggio della gestione tra Mincione e Torzi e che firmò di fatto, senza autorizzazione del superiore.
Per quanto riguarda la richiesta di finanziamento allo IOR, Pena Parra ha ribadito che serviva ad evitare alla Santa Sede di continuare a perdere un milione al mese.
Pena Parra ha ricordato la sorpresa del ritardo nella concessione del prestito che era stato deliberato, e poi l’arrivo della denuncia dello IOR.
A Peña Parra è stato domandato se fosse vero che, dopo il rifiuto, si fosse rivolto a gente vicina ai Servizi Segreti italiani per mettere sotto controllo il direttore dello IOR, anche con intercettazioni telefoniche. Il telefono non c’entrava niente, ha chiarito il teste: “Ho chiesto al capo della Gendarmeria di avere una mappa chiara di tutte le società e compagnie impegnate con noi durante quel periodo. Volevo prevenire in futuro di avere a che fare con gente simile”.
L’8 luglio, l’interrogatorio è stato più teso. Pena Parra, ha ribadito che la Santa Sede è stata vittima di “grave frode”, mentre l’avvocato di Mincione ha elencato 20 proposizioni contrarie alle posizioni della Santa Sede, che Peña Parra ha negato con decisione. Tra queste, quella che il sostituto avrebbe dato informazioni parziali e incoerenti al Papa in una nota informativa in cui si accennava, tra l’atro, all’affaire Londra.
Pena Parra ha sottolineato che Torzi “minacciava di rivendere il Palazzo”, forte delle 100 azioni con diritto di voto acquisite con lo share purchase agreement. Secondo la Santa Sede, Mincione e Torzi erano d’accordo, e il sostituto ha ricordato che la moglie di Mincione continuava ad usufruire di un ufficio nel palazzo, già passato in gestione a Torzi, per una sua attività (“o qualcun altro lo utilizzava per lei”), senza pagare alcun affitto.
Sono state anche lette anche tutte le chat tra il broker e Monsignor Carlino, unico assolto, che dimostrerebbero che lo stesso Carlino “era in contatto con Torzi per la formulazione di una fattura falsa”.
Ma Pena Parra ha ribadito che la Santa Sede ha “rifiutato quella fattura e le attività che Torzi ha detto di aver fatto per noi, ed è per questo che ho detto chiaramente al mio team che la mia lettera non era una fattura. Non ho detto una bugia”. Il sostituto ha anche sottolineato che la sua indicazione alla Credit Suisse per l’erogazione del bonifico di 5 milioni era “full and final settlement of all our contractual obligation (saldo finale e definitivo di tutti i nostri obblighi contrattuali)”. Gli allegati di questa email a Credit Suisse riportavano però altre motivazioni, tra cui servizi resi da Torzi per immobili di altre città.
È una testimonianza di cui tener conto. Ma rappresenta anche un pericoloso precedente. Perché la Santa Sede ora non ha più un sistema chiuso ed indipendente. Si è aperta al mondo e agli attacchi del mondo.
https://www.acistampa.com/story/25464/processo-palazzo-di-londra-pena-parra-testimone-a-londra
Processo Palazzo di Londra, la sentenza apre il dibattito sul futuro della Santa Sede
Oltre ottocento pagine di motivazioni per la sentenza del processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Cosa sarà della giustizia vaticana?
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Di Andrea Gagliarducci
Città del Vaticano , martedì, 5. novembre, 2024 9:00 (ACI Stampa).
In più di 800 pagine di sentenza, il Tribunale Vaticano non solo non è riuscito a chiudere oltre ogni ragionevole dubbio una vicenda spinosa che riguarda la gestione dei fondi della Segreteria di Stato. Ha, piuttosto, aperto un altro dibattito, che riguarda l’efficacia stessa di un Tribunale Vaticano in cui il Papa interviene con quattro rescritti ad un processo in corso per – è la spiegazione del promotore di Giustizia Alessandro Diddi – “riempire i vuoti normativi”. la sentenza ha anche creato nuove comprensioni giuridiche, che a volte sembrano confondere o mescolare diritto canonico, legge dello Stato della Città del Vaticano e giurisprudenza italiana, fino ad arrivare alla teorizzazione che ci possa essere peculato solo per il fatto di aver usato male i fondi, senza che ci sia un vantaggio personale ed ha, soprattutto, aperto la strada a chi, in realtà, vuole colpire l’indipendenza stessa della Santa Sede. Perché di fronte a questo processo e al modo in cui è stato svolto, a partire dalle indagini, il parere che colpisce di più è forse quello di un vaticanista esperto come John Allen, che arriva a sostenere che eventualmente il Papa dovrebbe rinunciare al Tribunale vaticano ed alle proprie prerogative di giudice supremo.
La sentenza del processo della gestione dei fondi della Segreteria di Stato, terminato il 18 dicembre 2023, è stata pubblicata il 30 ottobre 2024. Si tratta di 819 pagine, delle quali la parte concernente le motivazioni, suddivisa a sua volta in sei parti, ne copre più o meno 700, laddove in realtà le motivazioni vere e proprie contano circa 600 pagine, considerando che per un centinaio di pagine il Tribunale ci tiene a spiegare le procedure, le linee guida e le modalità che hanno condotto a quello che viene definito un processo giusto, rigettando ogni tipo di lettura opposta. La sentenza conclude un percorso di due anni di dibattimento, dipanatisi in 86 udienze, di cui 25 per la discussione delle parti.
A qualche giorno dalla pubblicazione della sentenza, è possibile acquisire una visione di prospettiva per comprendere meglio il quadro, più che nei dettaglio, di quello che è stato il cosiddetto “maxi processo vaticano”, da alcuni descritto anche, con dubbio gusto, “il processo del secolo”.
Il processo
Per chiarezza di esposizione, definiamo i tre tronconi principali del processo, che riguarda fatti accaduti tra il 2012 e il 2019. Il primo riguarda l’investimento, da parte della Segreteria di Stato, nelle quote di un palazzo di lusso a Londra. Dopo aver deciso di non dare seguito alla possibilità di partecipare ad una piattaforma petrolifera in Angola, la Segreteria di Stato diede in gestione al broker Raffaele Mincione un fondo utilizzato per comprare le quote di un palazzo da sviluppare. In seguito le quote furono date in gestione al broker Gianluigi Torzi, il quale senza darne conto alla –Segreteria di Stato – mantenne per sé le uniche azioni con diritto di voto e di conseguenza il pieno controllo del palazzo, rilevando infine il palazzo per intero. Quest’ultimo è stato recentemente rivenduto.
Una seconda parte del processo si concentra sul contributo dato dalla Segreteria di Stato alla Caritas di Ozieri per lo sviluppo di un progetto della cooperativa SPES, presieduta dal fratello del Cardinale Becciu: l’accusa, nei confronti di Becciu, è quella di peculato.
Il terzo filone riguarda la sedicente esperta di geopolitica Cecilia Marogna, ingaggiata dalla Segreteria di Stato, che avrebbe utilizzato denaro a lei erogato per delle presunte operazioni di salvataggio di ostaggi (come quello della suora colombiana Cecilia Narvaez rapita in Mali) a fini personali.
Condanne e assoluzioni
Unico assolto completamente da ogni capo di imputazione è monsignor Mauro Carlino, all’epoca dei fatti segretario del sostituto della Segreteria di Stato.
Il Cardinale Becciu ha avuto condanne per tre capi di imputazione, due per peculato e uno per truffa. Uno dei reati di peculato lo vede in concorso con il broker Raffaele Mincione per aver destinato 200 milioni di euro (un terzo della capacità di investimento della Segreteria di Stato) in un fondo altamente speculativo appartenente al broker medesimo
René Bruelhart e Tommaso Di Ruzza, rispettivamente presidente e direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria all’epoca dei fatti contestati, hanno ricevuto solo una multa di 1750 euro. Enrico Crasso, il broker che per conto di Credit Suisse prima e poi in altre vesti aveva gestito i fondi della Segreteria di Stato vaticano, è stato condannato alla pena di sette anni di reclusione e 10 mila euro di multa con interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Fabrizio Tirabassi, l’officiale dell`mministrazione della Segreteria di Stato che fu coinvolto dai superiori nelle trattative, è stato condannato a sette anni e sei mesi di reclusione, diecimila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Su Nicola Squillace, avvocato, coinvolto da Gianluigi Torzi nella compravendita, pesa una pena con sospensione di un anno e sei mesi.
Gianluigi Torzi, il broker che rilevò la gestione delle quote dell’immobile da Mincione per conto della Segreteria di Stato, è stato condannato a sei anni di reclusione, 6 mila euro di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici e sottoposto per un anno.a vigilanza speciale.
Cecilia Marogna, la sedicente “agente segreta” che ricevette un compenso di 500 mila euro per una operazione di liberazione di una suora rapita in Mali e che secondo l’accusa avrebbe usato per sé, ha ricevuto una condanna a 3 anni e 9 mesi di reclusione con interdizione temporanea dai pubblici uffici per lo stesso periodo.
La società della Marogna, la Logsic Humanitarne Dejavnosti D.O.O. pagherà una multa di 40 mila euro e ha ricevuto divieto di intraprendere contratti con le pubbliche autorità per due anni.
Inoltre, il Tribunale, ha ordinato la confisca per equivalente delle somme costituenti corpo dei reati contestati, per oltre 166.000.000 di euro complessivi. Gli imputati sono stati infine condannati, in solido tra loro, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, liquidati complessivamente in oltre 200.000.000,00 di euro.
Tutte queste condanne possono essere impugnate in appello. Niente, per ora, è definitivo, e ancora non c’è una definitiva verità processuale di colpevolezza.
I risarcimenti danni
Tra i danni da conteggiare, anche 80 milioni di danni non patrimoniali per la Segreteria di Stato, mentre la sentenza punta anche a recuperare tutto il denaro destinato da Becciu alla Caritas di Ozieri e quello destinato alla sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna. Le confische saranno esecutive a partire dalla sentenza di secondo grado, sebbene vi sia una norma che prevede la possibilità di confiscare i proventi del reato già dopo la sentenza di primo grado.
Con le casse vaticane sofferenti, rese ancora più sofferenti dal provvedimento di inquadramento dei giudici vaticani nei ranghi dirigenziali della Curia, con relativo stipendio (decisione arrivata da Papa Francesco a due settimane dalla sentenza), recuperare il denaro è, per la Santa Sede, una necessità.
Tanto più che il pool di avvocati messo in campo in questo processo, capeggiato dalla celeberrima Paola Severino in difesa della Segreteria di Stato e dall’altrettanto celebre Gian Maria Flick per l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, non è stato certamente a buon mercato. Tuttavia, per le confische serve innanzitutto che la sentenza vaticana venga riconosciuta efficace da un ordinamento estero. Serve, cioè, la “delibazione”.
Cardinale Becciu, è davvero un peculato?
Primo cardinale, per decisione del Papa, ad essere giudicato da un tribunale di primo grado vaticano, Becciu è stato giudicato colpevole di peculato. Le accuse riguardano una erogazione di fondi della Segreteria di Stato, che erano nella disponibilità decisionale del Cardinale quando questi era sostituto della Segreteria di Stato, alla società SPES della Caritas di Ozieri. È stato accertato che, in realtà, nessuno dei fondi destinati alla Caritas sia andato a vantaggio della famiglia del Cardinale o del Cardinale stesso.
Eppure, la sentenza arriva a parlare di “un uso illecito dei fondi” anche se non c’era finalità di lucro”, perché – secondo il tribunale – il fatto che non ci sia stato un vantaggio è un “argomento che può forse avere una sua rilevanza in una dimensione metaprocessuale (tanto da aver trovato risalto anche sotto il profilo mediatico), ma sotto il profilo squisitamente giuridico perde del tutto significato, perché la finalità di lucro è del tutto estranea alla fattispecie di peculato prevista dall’ordinamento vaticano”.
Insomma, c’è delitto, secondo il Tribunale, quando “emerge la volontà di usare i beni in contrasto con gli interessi delle pubblica amministrazione di cui egli appartiene”.
Quindi, per quanto riguarda Becciu, il collegio parla di “uso illecito”, perché “l’allora sostituto ha disposto del denaro della Segreteria di Stato, facendone - in concreto - oggetto di una donazione in favore della cooperativa SPES amministrata dai suoi familiari, e in particolare del fratello Becciu Antonino”. Per i giudici “non è in dubbio l’interesse privato di Becciu nella elargizione di denaro della Segreteria di Stato”, mentre, al di là del conflitto di interessi, si rivendica la prudenza richiesta dal canone 1298.
La questione del diritto canonico usato nel processo penale
Insomma, il tema di fondo resta quello dell’amministrazione del buon padre di famiglia. Posto che il diritto canonico è fonte di diritto nello Stato di Città del Vaticano, è anche vero che l’integrazione del diritto canonico in un processo penale, specialmente per qualificazioni come quella del buon padre di famiglia, rischiano di far perdere di vista lo scopo principale del processo, che è quello di raccogliere prove e individuare possibili crimini. La mancanza di prudenza, insomma, è da considerarsi reato secondo il codice penale vaticano?
La questione della prudenza del “buon padre di famiglia” è il grande tema che tocca anche il dibattito sull’investimento sull’immobile di Londra, considerato anche questo dai giudici un uso illecito perché, in fondo, investimento in qualche modo avventato. Ma è davvero così?
Lasciando da parte il fatto che la Santa Sede ha condotto in varie occasioni operazioni simili a quelle dell’investimento di Londra (basta scorrere i rapporti annuali dell’APSA degli ultimi anni, con in particolare il riferimento a un affare immobiliare a Parigi gestito dalla Sopridex che fa capo alla Santa Sede), l’acquisto di un immobile a Londra, la sua ri-destinazione di uso, la sua possibile rivendita in un mercato tendente al rialzo come quello del Regno Unito era da considerarsi una operazione potenzialmente vantaggiosa e remunerativa.
E qui c’è da notare un altro tema.Tutto nasce dal fatto che, l’allora sostituto Becciu, avesse proposto un investimento in Falcon Oil, compagnia petrolifera in Angola, di un suo amico. Da subito, Becciu sottolinea che va valutata la fattibilità dell’affare e che in caso negativo, non ci si debba fare scrupolo a dire di no. Ma, ed è un dato che colpisce, il Cardinale rende anche noto durante il processo che era la prima volta che si occupava personalmente di qualcosa e che si era cercato in qualche modo di avere un guadagno superiore, più speculativo.
Il periodo in cui l’affare nasce è il 2012, ma le valutazioni, le riunioni risalgono tutte al 2013, periodo questo nel quale Papa Francesco diventa pontefice, avvia un processo di verifica e risanamento delle finanze (qualora ci fosse da risanare) a completamento del quale avanza a tutti la richiesta di aumentare il margine dei guadagni.,. È il periodo in cui lo IOR avvia una campagna di investimenti più aggressiva (ne parlò l’ex funzionario Paolo Tosi), è il periodo in cui ci si rivolge alla nuova architettura finanziaria vaticana che punta alla creazione di un Vatican Asset Management, è il periodo in cui si comincia a parlare dei problemi finanziari facendoli risalire alla eccessiva autonomia degli enti vaticani, tanto che il Cardinale George Pell arriverà a parlare di milioni di euro occultati.
Ovviamente, la campagna speculativa porta con sé le inevitabili controindicazioni. Lo IOR apre una nuova gestione, in netta discontinuità con quella precedente e arriva addirittura a processare i propri vecchi dirigenti, senza però mai raggiungere i loro positivi risultati economici. La Segreteria di Stato si trova a dover difendere la propria autonomia, fino a perderla del tutto proprio a motivo di questo processo, in cui dapprima il Papa mostra di voler difendere l’investimento, e poi alla fine decide di agire in maniera opposta.
Conseguenza del tutto è il fatto che in questo momento le finanze della Santa Sede soffrono al punto che si attua una generale campagna di speculazione e privatizzazione degli investimenti, con provvedimenti che includono anche il taglio del piatto cardinalizio e la richiesta volta ai cardinali a coprire in autonomia le spese degli stessi immobili a loro affidati virtù del proprio ufficio.
L’indipendenza della Segreteria di Stato
Ecco allora che si arriva al processo, che nasce da una denuncia dell’Istituto per le Opere di Religione. La sentenza richiama tutti i passaggi proprio a partire dalla segnalazione del Direttore Generale Gianfranco Mammì, del 2 luglio 2019. Quello che è emerso dal processo è che la Segreteria di Stato aveva chiesto allo IOR un anticipo – che sarebbe stato restituito ad interesse – per superare una sofferenza finanziaria riguardo l’immobile di Londra. Lo IOR si prende tempo, per dire di prima dice sì e poi i improvvisamente ritrattare, decidendo infine di denunciare e sottolineando come l’operazione avessse punti oscuri arrivando ad attaccare addirittura l’Autorità di Informazione Finanziaria per la clearance.
È un po’ come se la Banca d’Italia denunciasse il governo che le chiede aiuto per poi andare a contrastare l’autorità di intelligence giunta in aiuto del governo.
La denuncia dello IOR ha dunque l’effetto di scardinare un intero sistema vaticano. Lo IOR è controllato dall’AIF, che viene bloccato di fatto nella sua attività di intelligence dalle perquisizioni scaturite dalla denuncia. La Segreteria di Stato si trova a dover ristrutturare il prestito, dopo aver già dovuto ridefinire una situazione difficile al fine di non perdere i capitali di investimento. Il promotore di Giustizia diventa una sorta di deus ex machina, dotato di poteri speciali e autorizzato dal Papa ad agire in maniera sommaria.
Nella sentenza, si legge che “il Promotore di giustizia precedeva poi all' assunzione di numerosi testimoni, all'interrogatorio di alcuni degli imputati, che presentavano peraltro anche memorie difensive e all'inoltro di commissioni rogatorie alle Autorità giudiziarie di alcuni Stati esteri (Italia, Svizzera, Gran Bretagna, Emirati Arabi Uniti, Lussemburgo, Repubblica Dominicana, Baliato di Jersey), che trasmettevano - nel corso del tempo - la documentazione richiesta, o almeno parte consistente di essa, tra cui anche i cellulari e gli apparati informatici di alcuni degli imputati. Altre informazioni venivano acquisite tramite l 'A.I.F. e i canali di collaborazione fra le autorità di polizia”.
Alla fine, i dirigenti dell’AIF risultano condannati per abuso di ufficio per non aver inoltrato una denuncia al promotore di Giustizia. Tutte le informazioni, però, provenivano da canali attivati dall’AIF, che aveva svolto una grande attività di intelligence in un tempo e con mezzi limitati. Se davvero si fosse voluto occultare, perché dunque si sarebbe dovuto aprire un fascicolo? E, alla fine, se davvero si fosse voluto favorire qualcuno, perché in entrambe le possibilità di ristrutturazione proposte alla Segreteria di Stato dall’AIF si parla comunque di un prosieguo delle indagini che non escludono un inoltro della denuncia al promotore di Giustizia?
La posizione dei vari imputati
Sono tutte domande che restano sullo sfondo di una sentenza necessariamente complessa, che delinea anche dei rapporti di forza all’interno dell’affare. Per il Tribunale, è pacifico che Raffaele Mincione, primo gestore del fondo che avrebbe dovuto investire in Falcon Oil e che aveva poi poi investito nel palazzo di Londra, facesse i propri interessi, nella misura in cui il proprio contratto di fatto gli consentiva, ma il Tribunale considera anche evidente il rapporto personale con Gianluigi Torzi, il broker che poi lo sostituirà nella gestione dell’immobile.
Per cedere le proprie quote e la propria gestione, Mincione otterrà 40 milioni di euro, tramite un accordo che secondo il Tribunale l’accordo era stato in qualche modo orchestrato insieme a Torzi. Quest’ultimo, da parte sua, avrebbe raggirato la Segreteria di Stato prendendo le uniche mille azioni con diritto di voto che controllavano l’immobile, estromettendo di fatto la Santa Sede dal controllo, motivo questo per cui è stato condannato insieme all’avvocato Squillace.
La sentenza parla anche di una connivenza di interessi tra Enrico Crasso, il broker che per conto di Credit Suisse ha gestito per anni il patrimonio della Segreteria di Stato e di Mincione sin dall’inizio dell’affare, quando si cerca, secondo il tribunale, di portare avanti l’investimento in Falcon Oil sebbene presentasse dei profili di rischio.
E poi c’è la posizione di Fabrizio Tirabassi, officiale della Segreteria di Stato parte dell’amministrazione, che viene messo sulla graticola per un suo patrimonio personale ingente, ma di cui non si definisce l’illiceità. Lo stesso Tirabassi riceveva delle retrocessioni da un contratto che aveva con la banca svizzera UBS, autorizzato dalla Segreteria di Stato, ma questo non costituisce in sé un reato.
Tirabassi tuttavia viene condannato sia per il riciclaggio di due milioni in Svizzera pagati nel 2011 come fees autorizzate dalla Segreteria di Stato che, insieme a Becciu e Crasso per aver investito 200 milioni in un fondo speculativo.
Secondo la sentenza, tuttavia, “non può certo negarsi che l'uso in modo illecito dei beni della Chiesa si sia risolto in un tanto evidente guanto significativo vantaggio per Mincione ed i suoi sodali quale diretta conseguenza della condotta illecita posta in essere da S.E.R. Becciu, sicché a nulla rileva che egli non abbia inteso agire con finalità di lucro, né che non abbia conseguito alcun vantaggio. L'uso illecito che integra il reato di peculato è quindi quello che viola la normativa di diritto canonico che regola l'amministrazione dei beni ecclesiastici, tra cui viene in rilievo, in particolare, il canone 1284 la cui applicabilità all'amministrazione dei beni della Segreteria di Stato è stata riconosciuta dallo stesso Cardinale Becciu all'udienza del 5 maggio 2022”,
La questione Obolo
Si è detto, a più riprese, che il denaro impiegato per l’investimento speculativo venisse dal Fondo dell’Obolo di San Pietro, destinato però alle opere di carità del Papa. Ci sono tuttavia due imprecisioni, però. La prima è che c’è un “Conto Obolo” intestato alla Segreteria di Stato, che però non riceve più i proventi dell’Obolo di San Pietro, ma in cui sono inserite diverse contabilità, ed è il residuo di un conto utilizzato appunto per i fondi dell’Obolo. E c’è poi l’Obolo di San Pietro, che però da sempre è destinato al Papa, cioè alla Santa Sede, cioè alle attività della Santa Sede, e che nasce proprio per aiutare le spese del pontefice. Spese che riguardano anche la gestione della Curia.
I 200 milioni investiti dalla Segreteria di Stato rappresentano un terzo del patrimonio che la Segreteria di Stato gestiva al tempo, pari a circa 600 milioni. Ma, si legge nella sentenza, “il problema di fondo, in sostanza, è che non è stato possibile accertare, né alcuna delle parti ha prospettato strade istruttorie per farlo, quale origine avessero le somme (che, si ripete, costituivano solo una parte del totale complessivo nella disponibilità della Segreteria di Stato) investite nelle specifiche operazioni oggetto delle imputazioni di peculato”.
L’Autorità di Informazione Finanziaria
Coinvolta dalla Segreteria di Stato, l’Autorità di Informazione Finanziaria chiede al sostituto Edgar Pena Parra, che nel 2018 ha sostituito il cardinale Angelo Becciu come numero due, di inviare una segnalazione di transazione sospetta per avviare le indagini. A quel punto, la Segreteria di Stato vuole prendere il controllo dell’immobile, rilevandolo da Torzi. Resta sempre sullo sfondo la possibilità di una denuncia, ma l’obiettivo primario è quello di salvare l’investimento, evitando sia il danno reputazionale, sia che Torzi, esercitando il controllo completo delle azioni, possa vendere l’immobile e far realizzare una perdita alla Segreteria di Stato.
Una prima ristrutturazione viene sconsigliata, una seconda viene approvata, fermo restando che si sarebbero continuate le indagini. Ma approvato è una parola sbagliata. L’AIF non può sostituirsi, nelle decisioni, alla Segreteria di Stato. Ma collabora, perché c’è un profilo di aiuto alle istituzioni che viene sempre rispettato.
Scrive il Tribunale: “Non è invece condivisibile, come si è detto, la conclusione della Difesa secondo cui l'A.I.F. non è né libera né indipendente, ma vincolata all'obbligo di collaborazione nei rapporti con gli altri Enti della Santa Sede e dello Stato non sottoposti a Vigilanza (cioè diversi dallo 1.O.R.), mentre invece sarebbe totalmente libera di gestire a suo arbitrio ‘la disseminazione delle informazioni’ cioè, nel caso che qui interessa, le comunicazioni al Promotore di giustizia. Si tratta di una posizione paradossale e insostenibile”.
Secondo il Tribunale, insomma, se l’AIF è indipendente non può essere anche dipendente allo stesso modo, non considerando che questa collaborazione istituzionale non intacca il profilo di indipendenza.
Anzi, l’indipendenza viene mantenuta proprio nel lavoro di intelligence, che include anche la decisione di segnalare o meno, e quando, al promotore di giustizia una eventuale ipotesi di reato. Ma questo non viene accettato dal Tribunale, secondo cui l’AIF manca proprio nel momento in cui non segnala subito al promotore di Giustizia, sebbene poi non ci sia dolo in nessuna delle azioni. Addirittura, si arriva a dire che l’AIF aveva agito in malafede. Eppure, è provato che l’AIF avesse interlocuzioni costanti con l’autorità superiore.
È un principio che mette l’apparato giuridico dello Stato al primo posto, come se i giudici dovessero essere informati sempre anche di attività di intelligence e di governo, e come se poi dovessero punire se questa attività viene svolta autonomamente.
Verso gli appelli
Restano le questioni minori, come l’erogazione di soldi alla sedicente esperta di intelligence Cecilia Marogna, decisi dal Cardinale Becciu e che hanno continuato ad essere erogati ad anche dopo che quest’ultimo non era più sostituto, che rientrano appunto nell’uso illecito dei fondi della Segreteria di Stato.
Gli appelli, tuttavia, saranno interessanti.
Possiamo fare delle ipotesi riguardo a come ci si muoverà, basandoci proprio sul processo. Mincione ribadirà la sua totale sovranità sul fondo di bene comune e la sua totale buona fede, e così farà Torzi, che reclamerà la legittimità del compenso erogatogli di 15 milioni di euro per uscire dal controllo dell’immobile di Londra. Un compenso, in fondo, derivato da eventuali obblighi contrattuali e liquidato nella volontà di chiudere una questione che per la Santa Sede poteva essere spinosa. Tirabassi ribadirà la sua totale fedeltà alla Segreteria di Stato e lo stesso farà Crasso, che rimpiange solo di aver agito da “ufficiale” della Segreteria di Stato senza averne le competenze in una sola circostanza.
Il Cardinale Becciu, da parte sua, sottolineerà che non ci sono profili di reato per quello che ha fatto, né profili di interesse privato, per quanto una erogazione sia andata poi ad una coop gestita da suo fratello.
Gli appelli, però, non andranno a risolvere il grande tema: la credibilità della Santa Sede, in un processo così controverso, è rimasta intatta? L’attività del Papa nelle attività processuali ha garantito il profilo di indipendenza o ha messo a rischio il senso stesso dello Stato di Città del Vaticano – considerando che Giovanni Paolo II delegò le sue funzioni di sovrano ad una commissione cardinalizia proprio per preservare l’indipendenza dello Stato e la sua da Papa? E, soprattutto, abbiamo assistito ad una “vaticanizzazione” della Santa Sede, dove le leggi dello Stato hanno sovrastato l’importanza di mantenere un profilo internazionale e istituzionale, aderente alle convenzioni internazionali ma fermo nella sua specificità?
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