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martedì 27 aprile 2021

Il caso Report, tra mezze verità, mistificazioni, mancanza di contradditorio ed errori di lettura

Mezze verità. Ricostruzioni parziali. Voce data solo ad alcuni protagonisti. Commenti faziosi che tendono ad indirizzare l’opinione dei telespettatori. Ma, soprattutto, una visione distorta del Vaticano, della Santa Sede, persino dei ruoli occupati nella Curia, cosa tra l’altro che si potrebbe verificare facilmente controllando su Wikipedia. Le due (finora) puntate di Report andate in onda per descrivere le finanze del Vaticano (“Il sabotaggio” e “Lo sterco del diavolo”) raccontano una storia vista dal buco della serratura, dando voce solo ad alcuni protagonisti di quella stagione, ma senza davvero nemmeno leggere i documenti. Uno, tra l’altro, è pubblico, online, e, se letto con attenzione, potrebbe già svelare molte cose: il rapporto di MONEYVAL sulla Santa Sede / Stato di Città del Vaticano del 2012, insieme a tutti i successivi rapporti sui progressi.

C’è da andare con ordine, per comprendere il grande scenario dietro la questione. Nel 2009, la Santa Sede firma una Convenzione Monetaria con l’Europa, per poter continuare ad emettere moneta a francobolli. Per applicare questa legge, la Santa Sede deve istituire un ente antiriciclaggio, e lo fa al termine dell’anno successivo, istituendo l’Autorità di Informazione Finanziaria. La Santa Sede decide quindi nel 2011 di aderire al processo di valutazione di MONEYVAL, il Comitato del Consiglio d’Europa che valuta quanto i Paesi aderenti siano in linea con gli standard internazionali in tema di antiriciclaggio e finanziamento al terrorismo. 

Report ha detto che la Santa Sede rischiava di entrare nella black list. Ma non esiste una black list. Quello di MONEYVAL è un processo di valutazione mutuo (anche la Santa Sede partecipa alle valutazione degli altri Stati). Il processo di aderenza agli standard finanziari internazionali è continuo. (Ne ho scritto qui, a suo tempo: http://www.mondayvatican.com/vatican-finances/holy-see-and-financial-transparency-the-path-to-the-white-list).

Perché però Report parla di “black list”? Perché questa è la narrativa che era stata sviluppata in quel tempo da quanti erano stati estromessi dalla stesura della legge antiriciclaggio. La prima legge antiriciclaggio vaticana era stata modellata sulla legge italiana, che pure non era perfetta. E di certo non poteva funzionare in un sistema vaticano, che ha uno Stato peculiare. (Ne avevo scritto qui: http://www.korazym.org/4201/vaticano-e-finanza-lerba-del-vicino-e-sempre-piu-verde/)

La verità è che la prima legge antiriciclaggio era nata sotto la pressione di un sequestro su transazioni finanziarie vaticane da parte delle autorità italiane. Ma queste pressioni erano state superate dalla nuova normativa antiriciclaggio, che metteva in primo piano la sovranità e la peculiarità della Santa Sede. (Ne avevo scritto qui: http://www.korazym.org/3529/chi-non-vuole-la-trasparenza-vaticana/)

Report intervista solo la parte italiana, che è stata superata dagli eventi. Intervista l’ex direttore, e poi presidente, dell’Autorità di Informazione Finanziaria Francesco De Pasquale. Definisce le persone chiamate a far parte dell’Autorità come “la crema” della Banca d’Italia. Ma, nel farlo, non solo dice una parte della storia, ma cerca di orientare un parere. Tra l’altro, un parere tutto da definire. Chi, ad esempio, prima del suo arrivo in Vaticano, conosceva Marcello Condemi, l’estensore della prima legge?

Report sottolinea anche che la nuova legge anti-riciclaggio toglie molta libertà e accentra tutto nella Segreteria di Stato vaticana. A parte il fatto che non dà voce agli estensori della nuova legge, la trasmissione non si fa nemmeno la domanda sul perché la legge sia stata modificata. E la legge è stata modificata su richiesta stessa di MONEYVAL, dopo la prima ispezione.

Basta leggere il rapporto, disponibile online, per comprenderlo (lo potete scaricare qui: https://rm.coe.int/mutual-evaluation-report-anti-money-laundering-and-combating-the-finan/16807160fa). Al punto 11 del rapporto si legge chiaramente: “La legge antiriciclaggio originale è stata rapidamente rivista dopo la prima ispezione di MONEYVAL, in gran parte per prendere in considerazione i nodi messi in luce dagli ispettori”.

Se, dunque, MONEYVAL ha chiesto la revisione della legge, in che modo questa poteva non fare gli interessi della Santa Sede? Ovviamente, c’era la necessità di coinvolgere la Segreteria di Stato, perché in un sistema di trasparenza finanziaria, deve essere coinvolto lo Stato. Anche il Comitato di Sicurezza Finanziaria stabilito con una ulteriore legge antiriciclaggio nel 2013 prevede la presenza della Segreteria di Stato. Ed è stata una novità valutata positivamente da MONEYVAL, perché rispondeva ad una sua raccomandazione specifica, come si legge nel rapporto sui progressi del 2013 (che si può scaricare qui: https://rm.coe.int/the-holy-see-including-vatican-city-state-progress-report-and-written-/1680716107).

Addirittura, dopo aver dato parola a De Pasquale che parla di “divergenza di vedute nel modo di andare avanti”, Report sottolinea che capo della delegazione vaticana a Strasburgo fu l’allora monsignor Ettore Balestrero, che era sottosegretario per i Rapporti con gli Stati, aggiungendo poi en passant (e ribadendolo in commento) che Balestrero ha patteggiato recentemente per una vicenda finanziaria che riguardava l’azienda di suo padre.

Qui, la lettura diventa meschina, oltre che imprecisa. Prima di tutto perché la vicenda famigliare di Balestrero non c’entra niente con la valutazione della Santa Sede presso MONEYVAL. E, secondo, perché il patteggiamento non equivale ad una ammissione di colpa. Spesso rivela anche la non volontà di imbarcarsi in processi lunghissimi, e tra l’altro faziosi. Anche in questo caso, della storia non viene data la versione di Balestrero (che potete leggere qui: https://www.ncregister.com/cna/apostolic-nuncio-accused-of-money-laundering-to-enter-plea-bargain).

Quindi, c’è la questione del Revisore vaticano Libero Milone, che è entrato in carica nel 2015, ed ha dovuto lasciare nel 2017, accusato di dossieraggio e peculato (accuse poi tutte ritirate nel 2018). Milone ha affermato di aver trovato microscopie e un trojan nel suo computer.

Nella pubblicità di Report, veniva sottolineato che “nuove testimonianze inedite rivelano che il Vaticano avrebbe potuto evitare la presunta truffa del palazzo di Londra, costato 400 milioni di euro. L'ufficio del revisore generale della Santa Sede aveva infatti scoperto l'investimento nella primavera del 2016, ma la Segreteria di Stato vaticana non ha mai fornito la documentazione richiesta. In Vaticano la maggior parte dei professionisti scelti dai due pontefici Benedetto XVI e Francesco per vigilare sulla trasparenza e la correttezza delle transazioni finanziaria è stata negli ultimi anni sistematicamente boicottata o addirittura sabotata. I protagonisti dell'antiriciclaggio e della revisione contabile della Santa Sede tra il 2011 e il 2017 raccontano a Report la guerra subita all'interno delle mura vaticane, combattuta a colpi di dossieraggi, computer infettati, microspie e minacce di arresto”.

Ma stiamo davvero parlando di protagonisti dell’antiriciclaggio? L’ufficio del Revisore non ha competenze anti-riciclaggio, e non è il “Cantone del Vaticano” come viene raccontato. Visione suggestiva, ma non corrispondente alla realtà.

Ci sarebbero altre domande da fare. La Gendarmeria Vaticana ha perquisito l’ufficio di Milone il 18 giugno 2017. Milone ha sempre detto di aver ricevuto l’incoraggiamento di Papa Francesco. Ma se il Papa incoraggiava Milone, perché avrebbe autorizzato il raid dei Gendarmi?

Ci sono, insomma, più domande che risposte, ma nessuna di queste domande è stata fatta nel servizio, né sono state sentite persone che potessero dare una versione alternativa dei fatti.

Tra l’altro, Milone lamenta due situazioni: che le donazioni alla Congregazione della Dottrina della Fede non finivano sul conto corrente della Congregazione, ma su quello del responsabile. Ma poi aggiunge che i soldi sono stati restituiti, che era un errore nell’IBAN. Se i soldi sono stati restituiti, dove era l’illecito? Non era più probabile fosse davvero un errore?

Milone sottolinea anche di aver scoperto una partecipazione APSA nella azienda farmaceutica Sandoz, che produce la pillola del giorno dopo e che appartiene alla galassia Novartis. Investimento non in linea con la dottrina sociale della Chiesa. Ma poi dice anche che le quote vengono subito vendute dopo la segnalazione. Il che dimostra solo una cosa: che spesso gli investimenti vengono fatti con leggerezza, non che ci sia un complotto o una mala gestione.

Tutta la puntata di Report è densa di imprecisioni e di letture faziose. Come quando,  descrivendo René Brulehart (prima direttore e poi presidente dell’Autorità di Informazione Finanziaria), viene detto solo che è “vicepresidente di TDI International, legato al dipartimento di Stato USA”. Ma Brulehart è stato prima di tutto il capo della Unità di Informazione Finanziaria del Liechtenstein dal 2004 al 2012, e vicepresidente del Gruppo Egmont (che raggruppa le UIF di tutto il mondo) dal 2010 al 2012. Si tratta di una personalità riconosciuta come un vero esperto dell’antiriciclaggio, non di un affarista al servizio di altri governi.

E poi si tratteggia la figura di Tommaso Di Ruzza, che è stato direttore dell’AIF per un quinquennio. Di Ruzza è uno dei cinque officiali sospesi nell’inchiesta di Sloane Avenue, nonostante il suo nome non compaia mai nei documenti delle indagini (ne ho scritto qui: https://www.acistampa.com/story/autorita-di-informazione-finanziaria-piena-fiducia-al-direttore-di-ruzza-12536) . Aveva fatto parte dell’autorità sin dall’inizio, provenendo tra l’altro dai ranghi del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, ed è uno dei principali artefici della legge antiriciclaggio vaticano. Non solo: sotto la sua gestione, l'AIF ha siglato decine di protocolli di intesa con controparti estere: l'ultimo rapporto annuale sulle attività operative dell'Autorità elencava ben 56 protocolli di intesa siglati dall'AIF con le sue controparti in materia di informazione e 8 protocolli di intesa nella sua funzione di vigilanza (da ricordare, in particolare, quello con l'Unità di Informazione finanziaria della Banca d'Italia). Il lavoro di cooperazone internazionale è stato anche decisivo per l'ingresso del Vaticano nell'area SEPA.  Eppure, Di Ruzza viene  descritto in Report solo come un direttore che aveva provocato ostilità e che era stato accusato di aver goduto di benefit non goduti.

L’ultima affermazione, tra l’altro, è messa lì senza fonte, quasi a voler tratteggiare un profilo negativo di Di Ruzza. A cui poi il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, aggiunge un altro comento: “Se avesse creduto di più nella forza dell’indipendenza, si sarebbe trovato in cassa centinaia di milioni di euro in più. Ma l’indipendenza è spesso scomoda”.

Si tratta di una affermazione non giornalistica, un commento gratuito, un attacco personale che non solo è fazioso, ma non può essere provato. E, tra l’altro, in quale modo l’Autorità di Informazione Finanziaria avrebbe avuto potere nel far guadagnare soldi alla Santa Sede? Il suo compito è di vigilare sulle transazioni finanziarie, riportare quelle sospette agli organi di indagine, scambiare informazioni di intelligence con le autorità analoghe.

Sono tutte imprecisioni, dati, errori che dimostrano la faziosità della ricostruzione. Non che si vogliano negare i problemi. Se l’operazione di Sloane Avenue a Londra era stata soggetta a una “ristrutturazione”, è perché qualcosa non aveva funzionato. Ma poi ci sarebbero altre domande da farsi.

Perché lo IOR, dopo aver accettato di anticipare il denaro alla Segreteria di Stato per completare l’acquisto del palazzo di Londra, cambia improvvisamente idea? (https://www.acistampa.com/story/finanze-vaticane-il-punto-16831)

Perché, se l’operazione era così dannosa, si è poi cercato un secondo prestito per portare a termine l’investimento? (https://www.catholicnewsagency.com/column/54173/vatican-finances-what-is-going-on-sloane-avenue-and-more)

Perché le diverse versioni sul coinvolgimento del Papa nella negoziazione per l’uscita di uno dei broker dell’operazione, Gianluigi Torzi, accusato nientemeno di estorsione, non creano domande?

Inizialmente, è stato detto che il Papa non sapeva dell’investimento di Londra, e nemmeno aveva incontrato i protagonisti dell’operazione. Quindi, era venuta fuori una foto del Papa con Torzi, scattata un Santo Stefano a Santa Marta. La versione ufficiale era che il Papa aveva incontrato Torzi, ma non sapeva dell’operazione. Infine, rispondendo all’Associated Press, il Tribunale Vaticano ha affermato che il Papa era entrato nella stanza dove c’erano i negoziati per la liquidazione delle quote di Torzi, e che il Papa era entrato invitando tutti a trovare una soluzione. Giuseppe Milanese, amico personale di Papa Francesco, stava conducendo la transazione. E, parlando con Report, aggiunge un dettaglio: che il Papa aveva chiesto di concludere con “il giusto salario”. Dunque, il Papa sapeva, e sapeva anche della necessità di liquidare, secondo contratto. In che cosa si configura l’eventuale estorsione effettuata da Torzi?

Sono domande che bruciano, che lasciano capire che la storia è molto diversa da come viene raccontata. E mostrano, prima di tutto, che Report ha una tesi, ed è una tesi che punta prima di tutto a distruggere la Santa Sede. La prima tesi è che la Santa Sede non dovrebbe investire né avere soldi, e, se lo fa, lo deve fare attraverso organizzazioni da loro apprezzate. La seconda è che l’Italia deve essere centrale. In fondo,  la prima parte dell’inchiesta di Report si concentrava, alla fine, su una certa collusione con i servizi italiani, come se la Santa Sede fosse un collaterale a giochi di potere più grandi. Terzo, che la svolta internazionale della Santa Sede, avvenuta proprio con Benedetto XVI e con la nuova legge antiriciclaggio, non funzionava, e non poteva funzionare.

In fondo, a ben vedere, i protagonisti della riforma dell’antiriciclaggio sono fuori dal Vaticano ora, e sono i precedenti vertici dell’Autorità di Informazione Finanziaria: Ora, l’autorità ha un nuovo corso che sa di vecchio, con uomini di Bankitalia ai vertici, e un nome nuovo, ASIF, quasi a dare un colpo di spugna al passato.

Solo che poi, se si guardano i rapporti di MONEYVAL, si va a vedere che nel passato le cose stavano funzionando abbastanza bene. I rapporti sono tutti generalmente positivi. Presentano richieste di migliorie, come succede per ogni ato.

Tutta questa faziosa ricostruzione viene fuori quasi a preparare la Quinta valutazione sui progressi di MONEYVAL, che si tiene in questa plenaria. Quasi a nascondere tutte queste criticità di cui non si è fatta menzione. Quasi a giustificare qualunque cosa accadrà, auspicando il ritorno di vecchi tempi che però, dati alla mano, non sono stati floridi.

Non solo non è un servizio alla Santa Sede. Non è un servizio alla verità. Ma, in fondo, tutti hanno guadagnato qualcosa. Basti pensare alle grandi società di consulenza come Promontory, finite poi sotto inchiesta negli Stati Uniti, chiamate a revisionare i conti dell’Istituto per le Opere di Religione, vale a dire a fare un lavoro già in corso. Perché che lo IOR non si stesse adeguando, era anche questo un mito (ne ho scritto qui: (http://www.korazym.org/11083/miti-doggi-allo-ior-la-trasparenza-era-una-cosa-lontana-fino-ad-oggi/)

Il paragrafo 471 del Rapporto MONEYVAL 2012 sottolineava, infatti, che “le procedure parzialmente contengono i requisiti che mancavano o non erano chiari nella versione originale della legge antiriciclaggio. Questo mitiga in qualche modo l’impatto negativo sull’efficacia dovuta al fatto che un significativo numero di elementi nel quadro legale sono stati introdotti solo dopo la prima on site visit di MONEYVAL”.

Eppure, lo IOR è stato sotto torchio della stampa, sempre messo sotto accusa. Il sequestro con cui si era fatta pressione alla Santa Sede per delineare una legge antiriciclaggio ad immagine e somiglianza dell’Italia è stato scongelato, e i fondi sono tornati in Vaticano (ne ho scritto qui: http://www.korazym.org/18478/ior-nessuna-attivita-riciclaggio-i-fondi-tornano-in-vaticano/). Direttore e vicedirettore dell’Istituto delle Opere di Religione sono stati assolti (ne ho scritto qui: https://www.acistampa.com/story/finanze-vaticane-cosa-significa-lassoluzione-di-cipriani-e-tulli-in-italia-13253) con una sentenza che certifica anche la bontà del loro operato e, in pratica, sottolinea che le riforme messe in atto funzionavano.

Cipriani e Tulli sono stati anche giudicati colpevoli di mala gestione dal Tribunale vaticano, ma si tratta di una sentenza di primo grado e tutta da capire, considerando che lo IOR da loro lasciato aveva utili per 86,6 milioni di euro, cifra mai più raggiunta (solo l’ultimo rapporto ha avuto una piccola impennata, ne ho scritto qui: https://www.acistampa.com/story/finanze-vaticane-il-mercato-aiuta-lo-ior-utili-in-crescita-per-la-prima-volta-dal-2012-14389).

Anche in questi casi, le domande da farsi sarebbero molte. Nell’inchiesta di Report, si parla solo dell’autorizzazione di Becciu alla ambasciata dell’Iran presso la Santa Sede di depositare una somma in contanti allo IOR e redistribuirla attraverso bonifici. Il punto è che le Ambasciate presso la Santa Sede sono tra gli enti che da sempre hanno la possibilità di avere un conto allo IOR. È da vedere il perché dell’autorizzazione, ma allo stesso tempo va dato al caso l’importanza che merita.

In generale, piuttosto, si tende a parlare in termini molto positivi dell’operato dell’Istituto delle Opere di Religione, e del suo direttore generale Mammì,  e a creare una narrativa ostile a tutto il resto. Si parla dello IOR come il centro delle riforme finanziarie, quando in realtà è solo una parte del sistema, che tra l’altro non funziona nemmeno sempre in maniera impeccabile (dopo che la Santa Sede ha ottenuto l’IBAN vaticano, lo IOR ha impiegato mesi a mettere in campo la necessaria operatività. Ne ho scritto qui: https://www.acistampa.com/story/finanze-vaticane-bonifici-con-liban-vaticano-a-partire-da-ottobre-12354).

Se le storie che si intrecciano sono molte, perché si è deciso di prendere solo una parte della storia, e la più marginale? Perché, nei servizi di Report, non si certificano i dubbi del giudice inglese Baumgartner sull’efficacia delle investigazioni vaticane nel caso di Sloane Avenue? (ne ho scritto qui: https://www.catholicnewsagency.com/news/247146/is-vatican-citys-judicial-system-in-peril)

E ancora, se si deve parlare di questioni finanziarie, perché non si parla mai del caso di Malta, che coinvolge lo IOR e una società maltese nell’acquisto dell’ex Palazzo della Borsa di Budapest – caso che ha portato gli avvocati della controparte persino ad accusare lo IOR di non avere interesse a fare buoni affari, ma solo a creare danni reputazionali alla precedente gestione (ne ho scritto qui: https://www.catholicnewsagency.com/column/54172/vatican-finances-what-is-going-on-the-malta-case).

Ci si può giustificare con la necessaria sintesi giornalistica. Ma è un gioco che non regge. Report ha deciso di prendere un lato della storia, di chiamare solo un punto di vista, e di farne una narrazione che raramente è oggettiva. La regola delle tre fonti che confermano una notizia è fallace se le tre fonti sono tutte d’accordo nel dire la stessa cosa, o tutte frustrate, o tutte con lo stesso punto di vista. E se la controparte non ha intenzioni di fare dichiarazioni, non significa che comunque l’altro punto di vista non vada esplorato.

È che alla fine è facile parlare della corruzione del Vaticano, degli errori di gestione, e puntare il dito contro tutto questo, facendosi leva magari sulla idea di una “Chiesa povera per i poveri” che però ha comunque bisogno di denaro per poter fare la carità. La verità è che tutti cercano di fare affari con il Vaticano per due motivi: il primo è che è una autorità morale che fa comodo avere dalla propria parte; il secondo è che spesso ha peccato di ingenuità.

Non significa che non ci sia corruzione, in Vaticano. È umana, e non ne sono esenti nemmeno i preti. Significa, però, che c’è un interesse politico ad attaccare il Vaticano. Un po’ come successe nel caso IOR – Ambrosiano, descritto poi nel libro “Ambrosiano: il contro processo”. L’autore, Mario Tedeschi, che non era cattolico, arrivò alla conclusione carte alla mano, che l’Istituto era stato solo un capro espiatorio, lo specchietto per le allodole usato dagli uomini del governo italiano e della Banca d’Italia per nascondere le proprie responsabilità – e relazioni pericolose – intrattenute con Roberto Calvi, presidente e dominus dell’Ambrosiano, che veniva chiamato il “banchiere di Dio” e in realtà finanziava i partiti della sinistra comunista e i ribelli sandinisti in Sudamerica (ne ho scritto qui: https://www.acistampa.com/story/il-cardinal-pell-la-via-della-trasparenza-un-cambio-culturale-3022 e qui http://www.mondayvatican.com/vatican/ior-pope-francis-abstains-from-revolutionary-changes-and-ends-speculations).

È che il giornalismo è inchiesta solo se questa si basa su documenti, non se si basa su ricostruzioni e narrative. E forse un problema ce lo ha anche la comunicazione vaticana, che negli ultimi anni è stata così impegnata dalla necessità di dare una immagine positiva del lavoro svolto fino ad ora che non ha invece considerato la via opposta: agire per via istituzionale, difendere il sistema messo su e migliorarlo, inserirsi in un paradigma internazionale che prescinde dalle stagioni.

Report ha dimostrato, in fondo, che il giornalismo sulla finanza vaticana è un giornalismo a tesi. Non cerca i fatti. Cerca solo di distruggere l’istituzione. È così dai tempi del primo Vatileaks. E sarà probabilmente sempre così, finché non ci sarà un cambio culturale nel raccontare le cose.

 

1 commento:

  1. Gentilissimi,
    grazie; ho provato a leggere questo contrappunto fino alla fine, cogliendo quanto mi è stato possibile...

    Immagino questo feedback abbia raggiunto Ranucci e Redazione di Report. E in tal caso, che vi è stato risposto??

    Grazie,
    Marco

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