Mezze verità. Ricostruzioni parziali. Voce data solo ad alcuni protagonisti. Commenti faziosi che tendono ad indirizzare l’opinione dei telespettatori. Ma, soprattutto, una visione distorta del Vaticano, della Santa Sede, persino dei ruoli occupati nella Curia, cosa tra l’altro che si potrebbe verificare facilmente controllando su Wikipedia. Le due (finora) puntate di Report andate in onda per descrivere le finanze del Vaticano (“Il sabotaggio” e “Lo sterco del diavolo”) raccontano una storia vista dal buco della serratura, dando voce solo ad alcuni protagonisti di quella stagione, ma senza davvero nemmeno leggere i documenti. Uno, tra l’altro, è pubblico, online, e, se letto con attenzione, potrebbe già svelare molte cose: il rapporto di MONEYVAL sulla Santa Sede / Stato di Città del Vaticano del 2012, insieme a tutti i successivi rapporti sui progressi.
C’è da
andare con ordine, per comprendere il grande scenario dietro la questione. Nel
2009, la Santa
Sede firma una Convenzione Monetaria con l’Europa, per poter continuare ad
emettere moneta a francobolli. Per applicare questa legge, la Santa
Sede deve istituire un ente antiriciclaggio, e lo fa al termine dell’anno
successivo, istituendo l’Autorità di
Informazione Finanziaria. La Santa Sede decide quindi nel 2011 di aderire al
processo di valutazione di MONEYVAL, il Comitato del Consiglio d’Europa che
valuta quanto i Paesi aderenti siano in linea con gli standard internazionali
in tema di antiriciclaggio e finanziamento al terrorismo.
Report ha detto che la Santa Sede
rischiava di entrare nella black list. Ma non esiste una black list. Quello di MONEYVAL è un processo di
valutazione mutuo (anche la Santa Sede partecipa alle valutazione degli altri
Stati). Il processo di aderenza agli standard finanziari internazionali è
continuo. (Ne ho scritto qui, a suo tempo: http://www.mondayvatican.com/vatican-finances/holy-see-and-financial-transparency-the-path-to-the-white-list).
Perché
però Report parla di “black list”? Perché questa è la narrativa che era stata
sviluppata in quel tempo da quanti erano stati estromessi dalla stesura della
legge antiriciclaggio. La prima legge antiriciclaggio vaticana era stata
modellata sulla legge italiana, che pure non era perfetta. E di certo non poteva
funzionare in un sistema vaticano, che ha uno Stato peculiare. (Ne avevo
scritto qui: http://www.korazym.org/4201/vaticano-e-finanza-lerba-del-vicino-e-sempre-piu-verde/)
La verità è che la prima legge
antiriciclaggio era nata sotto la pressione di un sequestro su transazioni
finanziarie vaticane da parte delle autorità italiane. Ma queste pressioni erano
state superate dalla nuova normativa antiriciclaggio, che metteva in primo
piano la sovranità e la peculiarità
della Santa Sede. (Ne avevo scritto qui: http://www.korazym.org/3529/chi-non-vuole-la-trasparenza-vaticana/)
Report intervista
solo la parte italiana,
che è stata superata dagli eventi. Intervista l’ex direttore, e poi presidente,
dell’Autorità di Informazione Finanziaria Francesco
De Pasquale. Definisce le persone chiamate a far parte dell’Autorità come
“la crema” della Banca d’Italia. Ma, nel farlo, non solo dice una parte della
storia, ma cerca di orientare un parere. Tra l’altro, un parere tutto da
definire. Chi, ad esempio, prima del suo
arrivo in Vaticano, conosceva Marcello Condemi, l’estensore della prima legge?
Report
sottolinea anche che la nuova legge anti-riciclaggio toglie molta libertà e
accentra tutto nella Segreteria di Stato vaticana. A parte il fatto che non dà
voce agli estensori della nuova legge, la trasmissione non si fa nemmeno la
domanda sul perché la legge sia stata modificata. E la legge è stata modificata su richiesta stessa di MONEYVAL, dopo la
prima ispezione.
Basta
leggere il rapporto, disponibile online, per comprenderlo (lo potete scaricare
qui: https://rm.coe.int/mutual-evaluation-report-anti-money-laundering-and-combating-the-finan/16807160fa).
Al punto 11 del rapporto si legge
chiaramente: “La legge antiriciclaggio originale è stata rapidamente
rivista dopo la prima ispezione di MONEYVAL, in gran parte per prendere in
considerazione i nodi messi in luce dagli ispettori”.
Se,
dunque, MONEYVAL ha chiesto la revisione
della legge, in che modo questa poteva non fare gli interessi della Santa Sede?
Ovviamente, c’era la necessità di coinvolgere la Segreteria di Stato, perché in
un sistema di trasparenza finanziaria, deve essere coinvolto lo Stato. Anche il Comitato di Sicurezza Finanziaria
stabilito con una ulteriore legge antiriciclaggio nel 2013 prevede la
presenza della Segreteria di Stato. Ed è stata una novità valutata
positivamente da MONEYVAL, perché rispondeva ad una sua raccomandazione
specifica, come si legge nel rapporto sui progressi del 2013 (che si può scaricare
qui: https://rm.coe.int/the-holy-see-including-vatican-city-state-progress-report-and-written-/1680716107).
Addirittura,
dopo aver dato parola a De Pasquale che
parla di “divergenza di vedute nel modo di andare avanti”, Report sottolinea che capo della
delegazione vaticana a Strasburgo fu l’allora monsignor Ettore Balestrero, che era sottosegretario per i Rapporti con gli
Stati, aggiungendo poi en passant (e
ribadendolo in commento) che Balestrero ha patteggiato recentemente per una
vicenda finanziaria che riguardava l’azienda di suo padre.
Qui, la
lettura diventa meschina, oltre che imprecisa. Prima di tutto perché la vicenda famigliare di Balestrero non
c’entra niente con la valutazione della Santa Sede presso MONEYVAL. E, secondo,
perché il patteggiamento non equivale ad
una ammissione di colpa. Spesso rivela anche la non volontà di imbarcarsi
in processi lunghissimi, e tra l’altro faziosi. Anche in questo caso, della
storia non viene data la versione di Balestrero (che potete leggere qui: https://www.ncregister.com/cna/apostolic-nuncio-accused-of-money-laundering-to-enter-plea-bargain).
Quindi,
c’è la questione del Revisore vaticano
Libero Milone, che è entrato in carica nel 2015, ed ha dovuto lasciare nel
2017, accusato di dossieraggio e peculato (accuse poi tutte ritirate nel 2018).
Milone ha affermato di aver trovato
microscopie e un trojan nel suo computer.
Nella
pubblicità di Report, veniva
sottolineato che “nuove testimonianze inedite rivelano che il Vaticano avrebbe
potuto evitare la presunta truffa del palazzo di Londra, costato 400 milioni di
euro. L'ufficio del revisore generale
della Santa Sede aveva infatti scoperto l'investimento nella primavera del 2016,
ma la Segreteria di Stato vaticana non ha mai fornito la documentazione
richiesta. In Vaticano la maggior parte dei professionisti scelti dai due
pontefici Benedetto XVI e Francesco per vigilare sulla trasparenza e la correttezza delle transazioni finanziaria è
stata negli ultimi anni sistematicamente boicottata o addirittura sabotata.
I protagonisti dell'antiriciclaggio e della revisione contabile della Santa
Sede tra il 2011 e il 2017 raccontano a
Report la guerra subita all'interno delle mura vaticane, combattuta a colpi di
dossieraggi, computer infettati, microspie e minacce di arresto”.
Ma stiamo davvero parlando di protagonisti dell’antiriciclaggio? L’ufficio del Revisore non ha competenze anti-riciclaggio, e non è il “Cantone del Vaticano” come viene raccontato. Visione suggestiva, ma non corrispondente alla realtà.
Ci
sarebbero altre domande da fare. La
Gendarmeria Vaticana ha perquisito l’ufficio di Milone il 18 giugno 2017.
Milone ha sempre detto di aver ricevuto l’incoraggiamento di Papa Francesco. Ma se il Papa incoraggiava Milone, perché
avrebbe autorizzato il raid dei Gendarmi?
Ci
sono, insomma, più domande che risposte,
ma nessuna di queste domande è stata fatta nel servizio, né sono state sentite
persone che potessero dare una versione alternativa dei fatti.
Tra
l’altro, Milone lamenta due situazioni:
che le donazioni alla Congregazione della Dottrina della Fede non finivano sul
conto corrente della Congregazione, ma su quello del responsabile. Ma poi
aggiunge che i soldi sono stati restituiti, che era un errore nell’IBAN. Se i
soldi sono stati restituiti, dove era l’illecito? Non era più probabile fosse
davvero un errore?
Milone sottolinea anche di aver
scoperto una partecipazione APSA nella azienda farmaceutica Sandoz, che produce la pillola del
giorno dopo e che appartiene alla galassia Novartis. Investimento non in linea
con la dottrina sociale della Chiesa. Ma poi dice anche che le quote vengono
subito vendute dopo la segnalazione. Il che dimostra solo una cosa: che spesso gli investimenti vengono fatti
con leggerezza, non che ci sia un complotto o una mala gestione.
Tutta
la puntata di Report è densa di
imprecisioni e di letture faziose. Come quando, descrivendo René Brulehart (prima direttore e
poi presidente dell’Autorità di Informazione Finanziaria), viene detto solo che
è “vicepresidente di TDI International,
legato al dipartimento di Stato USA”. Ma Brulehart è stato prima di tutto
il capo della Unità di Informazione Finanziaria
del Liechtenstein dal 2004 al 2012, e vicepresidente del Gruppo Egmont (che
raggruppa le UIF di tutto il mondo) dal 2010 al 2012. Si tratta di una
personalità riconosciuta come un vero esperto dell’antiriciclaggio, non di un
affarista al servizio di altri governi.
E poi si tratteggia la figura di Tommaso Di Ruzza, che è stato direttore dell’AIF per un quinquennio. Di Ruzza è uno dei cinque officiali sospesi nell’inchiesta di Sloane Avenue, nonostante il suo nome non compaia mai nei documenti delle indagini (ne ho scritto qui: https://www.acistampa.com/story/autorita-di-informazione-finanziaria-piena-fiducia-al-direttore-di-ruzza-12536) . Aveva fatto parte dell’autorità sin dall’inizio, provenendo tra l’altro dai ranghi del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, ed è uno dei principali artefici della legge antiriciclaggio vaticano. Non solo: sotto la sua gestione, l'AIF ha siglato decine di protocolli di intesa con controparti estere: l'ultimo rapporto annuale sulle attività operative dell'Autorità elencava ben 56 protocolli di intesa siglati dall'AIF con le sue controparti in materia di informazione e 8 protocolli di intesa nella sua funzione di vigilanza (da ricordare, in particolare, quello con l'Unità di Informazione finanziaria della Banca d'Italia). Il lavoro di cooperazone internazionale è stato anche decisivo per l'ingresso del Vaticano nell'area SEPA. Eppure, Di Ruzza viene descritto in Report solo come un direttore che aveva provocato ostilità e che era stato accusato di aver goduto di benefit non goduti.
L’ultima
affermazione, tra l’altro, è messa lì senza fonte, quasi a voler tratteggiare
un profilo negativo di Di Ruzza. A cui poi il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, aggiunge un altro comento: “Se avesse creduto di più nella forza dell’indipendenza, si sarebbe
trovato in cassa centinaia di milioni di euro in più. Ma l’indipendenza è
spesso scomoda”.
Si
tratta di una affermazione non giornalistica, un commento gratuito, un attacco
personale che non solo è fazioso, ma non può essere provato. E, tra l’altro, in quale modo l’Autorità di
Informazione Finanziaria avrebbe avuto potere nel far guadagnare soldi alla
Santa Sede? Il suo compito è di vigilare sulle transazioni finanziarie,
riportare quelle sospette agli organi di indagine, scambiare informazioni di
intelligence con le autorità analoghe.
Sono tutte imprecisioni, dati, errori che dimostrano la faziosità della ricostruzione. Non che si vogliano negare i problemi. Se l’operazione di Sloane Avenue a Londra era stata soggetta a una “ristrutturazione”, è perché qualcosa non aveva funzionato. Ma poi ci sarebbero altre domande da farsi.
Perché lo IOR, dopo aver
accettato di anticipare il denaro alla Segreteria di Stato per completare
l’acquisto del palazzo di Londra, cambia improvvisamente idea? (https://www.acistampa.com/story/finanze-vaticane-il-punto-16831)
Perché, se l’operazione era così
dannosa, si è poi cercato un secondo prestito per portare a termine
l’investimento?
(https://www.catholicnewsagency.com/column/54173/vatican-finances-what-is-going-on-sloane-avenue-and-more)
Perché
le diverse versioni sul coinvolgimento del Papa nella negoziazione per l’uscita
di uno dei broker dell’operazione, Gianluigi
Torzi, accusato nientemeno di estorsione, non creano domande?
Inizialmente,
è stato detto che il Papa non sapeva dell’investimento di Londra, e nemmeno
aveva incontrato i protagonisti dell’operazione. Quindi, era venuta fuori una foto del Papa con Torzi, scattata un Santo
Stefano a Santa Marta. La versione ufficiale era che il Papa aveva
incontrato Torzi, ma non sapeva dell’operazione. Infine, rispondendo
all’Associated Press, il Tribunale Vaticano ha affermato che il Papa era
entrato nella stanza dove c’erano i negoziati per la liquidazione delle quote
di Torzi, e che il Papa era entrato invitando tutti a trovare una
soluzione. Giuseppe Milanese, amico personale di Papa Francesco, stava
conducendo la transazione. E, parlando
con Report, aggiunge un dettaglio:
che il Papa aveva chiesto di concludere con “il giusto salario”. Dunque, il
Papa sapeva, e sapeva anche della necessità di liquidare, secondo contratto. In
che cosa si configura l’eventuale estorsione effettuata da Torzi?
Sono
domande che bruciano, che lasciano capire che la storia è molto diversa da come
viene raccontata. E mostrano, prima di
tutto, che Report ha una tesi, ed è
una tesi che punta prima di tutto a distruggere la Santa Sede. La prima
tesi è che la Santa Sede non dovrebbe investire né avere soldi, e, se lo fa, lo
deve fare attraverso organizzazioni da loro apprezzate. La seconda è che l’Italia deve essere centrale. In fondo, la prima parte dell’inchiesta di Report si concentrava, alla fine, su una
certa collusione con i servizi italiani, come se la Santa Sede fosse un
collaterale a giochi di potere più grandi. Terzo,
che la svolta internazionale della Santa Sede, avvenuta proprio con Benedetto
XVI e con la nuova legge antiriciclaggio, non funzionava, e non poteva
funzionare.
In
fondo, a ben vedere, i protagonisti
della riforma dell’antiriciclaggio sono fuori dal Vaticano ora, e sono i
precedenti vertici dell’Autorità di Informazione Finanziaria: Ora,
l’autorità ha un nuovo corso che sa di vecchio, con uomini di Bankitalia ai
vertici, e un nome nuovo, ASIF,
quasi a dare un colpo di spugna al passato.
Solo
che poi, se si guardano i rapporti di
MONEYVAL, si va a vedere che nel passato le cose stavano funzionando abbastanza
bene. I rapporti sono tutti generalmente positivi. Presentano richieste di
migliorie, come succede per ogni ato.
Tutta
questa faziosa ricostruzione viene fuori quasi a preparare la Quinta valutazione sui progressi di
MONEYVAL, che si tiene in questa plenaria. Quasi a nascondere tutte queste
criticità di cui non si è fatta menzione. Quasi a giustificare qualunque cosa
accadrà, auspicando il ritorno di vecchi tempi che però, dati alla mano, non sono
stati floridi.
Non solo non è un servizio alla
Santa Sede. Non
è un servizio alla verità. Ma, in fondo, tutti hanno guadagnato qualcosa. Basti
pensare alle grandi società di consulenza come Promontory, finite poi sotto inchiesta negli Stati Uniti, chiamate a revisionare i
conti dell’Istituto per le Opere di Religione, vale a dire a fare un lavoro
già in corso. Perché che lo IOR non si stesse adeguando, era anche questo un
mito (ne ho scritto qui: (http://www.korazym.org/11083/miti-doggi-allo-ior-la-trasparenza-era-una-cosa-lontana-fino-ad-oggi/)
Il paragrafo 471 del Rapporto MONEYVAL 2012 sottolineava, infatti, che “le procedure parzialmente contengono i requisiti
che mancavano o non erano chiari nella versione originale della legge
antiriciclaggio. Questo mitiga in qualche modo l’impatto negativo
sull’efficacia dovuta al fatto che un significativo numero di elementi nel
quadro legale sono stati introdotti solo dopo la prima on site
visit di MONEYVAL”.
Eppure, lo IOR è stato sotto torchio della stampa,
sempre messo sotto accusa. Il sequestro con cui si era fatta pressione alla
Santa Sede per delineare una legge antiriciclaggio ad immagine e somiglianza
dell’Italia è stato scongelato, e i fondi sono tornati in Vaticano (ne ho
scritto qui: http://www.korazym.org/18478/ior-nessuna-attivita-riciclaggio-i-fondi-tornano-in-vaticano/).
Direttore e vicedirettore dell’Istituto delle Opere di Religione sono stati
assolti (ne ho scritto qui: https://www.acistampa.com/story/finanze-vaticane-cosa-significa-lassoluzione-di-cipriani-e-tulli-in-italia-13253)
con una sentenza che certifica anche la bontà del loro operato e, in pratica,
sottolinea che le riforme messe in atto funzionavano.
Cipriani e Tulli sono stati anche giudicati colpevoli di mala
gestione dal Tribunale vaticano, ma si tratta di una sentenza di primo
grado e tutta da capire, considerando che lo IOR da loro lasciato aveva utili
per 86,6 milioni di euro, cifra mai
più raggiunta (solo l’ultimo rapporto ha avuto una piccola impennata, ne ho
scritto qui: https://www.acistampa.com/story/finanze-vaticane-il-mercato-aiuta-lo-ior-utili-in-crescita-per-la-prima-volta-dal-2012-14389).
Anche in questi casi, le domande
da farsi sarebbero molte. Nell’inchiesta
di Report, si parla solo dell’autorizzazione
di Becciu alla ambasciata dell’Iran presso la Santa Sede di depositare una
somma in contanti allo IOR e redistribuirla attraverso bonifici. Il punto è
che le Ambasciate presso la Santa Sede sono tra gli enti che da sempre hanno la
possibilità di avere un conto allo IOR. È da vedere il perché dell’autorizzazione,
ma allo stesso tempo va dato al caso l’importanza che merita.
In generale, piuttosto, si
tende a parlare in termini molto positivi dell’operato
dell’Istituto delle Opere di Religione, e del suo direttore generale Mammì, e a creare una narrativa ostile a tutto il
resto. Si parla dello IOR come il centro delle riforme finanziarie, quando in
realtà è solo una parte del sistema, che
tra l’altro non funziona nemmeno sempre in maniera impeccabile (dopo che la
Santa Sede ha ottenuto l’IBAN vaticano, lo IOR ha impiegato mesi a mettere in
campo la necessaria operatività. Ne ho scritto qui: https://www.acistampa.com/story/finanze-vaticane-bonifici-con-liban-vaticano-a-partire-da-ottobre-12354).
Se le storie che si intrecciano
sono molte, perché si è deciso di prendere solo una parte della storia, e la
più marginale? Perché, nei servizi di Report, non si certificano i dubbi del
giudice inglese Baumgartner sull’efficacia delle investigazioni vaticane
nel caso di Sloane Avenue? (ne ho scritto qui: https://www.catholicnewsagency.com/news/247146/is-vatican-citys-judicial-system-in-peril)
E ancora, se si deve parlare di questioni
finanziarie, perché non si parla mai del caso di Malta, che coinvolge lo IOR e
una società maltese nell’acquisto
dell’ex Palazzo della Borsa di Budapest – caso che ha portato gli avvocati
della controparte persino ad accusare lo IOR di non avere interesse a fare
buoni affari, ma solo a creare danni reputazionali alla precedente gestione (ne
ho scritto qui: https://www.catholicnewsagency.com/column/54172/vatican-finances-what-is-going-on-the-malta-case).
Ci si può giustificare con la
necessaria sintesi giornalistica. Ma è un gioco che non regge. Report
ha deciso di prendere un lato della storia, di chiamare solo un punto di vista,
e di farne una narrazione che raramente è oggettiva. La regola delle tre
fonti che confermano una notizia è fallace se le tre fonti sono tutte d’accordo
nel dire la stessa cosa, o tutte frustrate, o tutte con lo stesso punto di
vista. E se la controparte non ha intenzioni di fare dichiarazioni, non
significa che comunque l’altro punto di vista non vada esplorato.
È che alla fine è facile
parlare della corruzione del Vaticano, degli errori di gestione, e puntare il
dito contro tutto questo, facendosi leva magari sulla idea di una “Chiesa
povera per i poveri” che però ha comunque bisogno di denaro per poter fare la
carità. La verità è che tutti cercano di
fare affari con il Vaticano per due motivi: il primo è che è una autorità
morale che fa comodo avere dalla propria parte; il secondo è che spesso ha
peccato di ingenuità.
Non significa che non ci sia
corruzione, in Vaticano. È umana, e non ne sono esenti nemmeno i preti. Significa, però, che c’è un interesse
politico ad attaccare il Vaticano. Un po’ come successe nel caso IOR – Ambrosiano, descritto poi nel
libro “Ambrosiano: il contro processo”. L’autore, Mario Tedeschi, che non era cattolico, arrivò alla conclusione carte
alla mano, che l’Istituto era stato solo un capro espiatorio, lo specchietto per le allodole usato dagli
uomini del governo italiano e della Banca d’Italia per nascondere le
proprie responsabilità – e relazioni pericolose – intrattenute con Roberto Calvi, presidente e dominus
dell’Ambrosiano, che veniva chiamato il “banchiere di Dio” e in realtà finanziava
i partiti della sinistra comunista e i ribelli sandinisti in Sudamerica (ne ho
scritto qui: https://www.acistampa.com/story/il-cardinal-pell-la-via-della-trasparenza-un-cambio-culturale-3022
e qui http://www.mondayvatican.com/vatican/ior-pope-francis-abstains-from-revolutionary-changes-and-ends-speculations).
È che il giornalismo è inchiesta solo se questa si
basa su documenti, non se si basa su ricostruzioni e narrative. E forse un problema ce lo ha anche la comunicazione
vaticana, che negli ultimi anni è stata così impegnata dalla necessità di dare
una immagine positiva del lavoro svolto
fino ad ora che non ha invece considerato la via opposta: agire per via
istituzionale, difendere il sistema messo su e migliorarlo, inserirsi in un
paradigma internazionale che prescinde dalle stagioni.
Report ha dimostrato, in fondo, che il giornalismo sulla
finanza vaticana è un giornalismo a tesi. Non cerca i fatti. Cerca solo di distruggere l’istituzione. È così dai
tempi del primo Vatileaks. E sarà probabilmente sempre così, finché non ci sarà
un cambio culturale nel raccontare le cose.
Gentilissimi,
RispondiEliminagrazie; ho provato a leggere questo contrappunto fino alla fine, cogliendo quanto mi è stato possibile...
Immagino questo feedback abbia raggiunto Ranucci e Redazione di Report. E in tal caso, che vi è stato risposto??
Grazie,
Marco