C’è un passo del Vangelo che sembra non entrarci niente con il lavoro dei giornalisti, e che invece, secondo me, è particolarmente pregnante. È quel momento del Vangelo di Luca (14,26-27) in cui Gesù dice: “Se uno viene a me non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. E poi aggiungeva Gesù: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”.
Ma chi sono i figli, la moglie, i fratelli di un giornalista? Beh, un giornalista ha la sua lettura delle cose, anche i suoi necessari pregiudizi. Ma quelli devono essere assolutamente messi da parte, quando si cerca di raccontare una storia. Perché una storia può sorprendere, perché le cose possono avere sfumature diverse, e per quanto le proprie letture possano essere stimolanti e belle, e magari anche calzanti secondo alcune logiche, non sono semplicemente vere. Una parola detta male racconta un mondo tutto diverso. E, spesso, quella parola viene detta male proprio perché si è così legati alla propria lettura che non si vuole perdere una allusione. È umano, è vitale, è normale. Ma non racconta la verità.
Mi veniva da pensare questo, mentre rileggevo il messaggio del Papa per la 55esima Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, che si celebra il 24 gennaio, giorno di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. In particolare, Papa Francesco sottolinea che “voci attente lamentano da tempo il rischio di un appiattimento in ‘giornali fotocopia’ o in notiziari tv e radio e siti web sostanzialmente uguali, dove il genere dell’inchiesta e del reportage perdono spazio e qualità a vantaggio di una informazione preconfezionata, ‘di palazzo’, autoreferenziale, che sempre meno riesce a intercettare la verità delle cose e la vita concreta delle persone, e non sa più cogliere né i fenomeni sociali più gravi né le energie positive che si sprigionano dalla base della società”.
Questa è, dire il vero, una visione molto parziale della realtà. I giornali fotocopia esistono da tempo, così come da tempo esistono le agenzie fotocopia, ed esistono da ben prima della rivoluzione del web, che ha necessariamente cambiato anche i ritmi di produzione e di lavoro. Esistono perché si è sostituito alla ricerca della verità e dei fatti una sorta di patto di non concorrenza. Si ha più paura di prendere un “buco” – cioè, di mancare una notizia – che non di raccontare una storia che si discosti dalla narrativa generale.
Ma non c’è solo questo. Spesso, i giornalisti sono semplicemente impossibilitati a scrivere la verità come la vedono, perché viene loro richiesto di scrivere secondo il punto di vista del giornale, che sarebbe il punto di vista del direttore, che in generale diventa il punto di vista dell’editore. Si è rotta la fiducia tra giornalista e direttore, e da tanto tempo, perché si è deciso che i giornali debbano raccontare una visione del mondo, più che raccontare i fatti.
Non è una storia nuova, ed è normale che ogni giornale – ma sarebbe meglio dire medium, perché ormai la definizione include anche le molte testate web - voglia dare una visione del mondo. È il modo in cui si dà la visione del mondo che diventa cruciale. Si decide a priori quale è il pubblico da intercettare, e si scrivono cose che possano intercettare davvero quel pubblico. Anche io, quando scrivo per le agenzie americane o quando ho scritto in passato per quotidiani italiani, sono e sono stato sottoposto a processi di editing che, in fondo, cambiando la struttura delle frasi, non cambiano il pazzo ma ne tradiscono lo spirito, non permettono di far vedere le cose come davvero le ho viste io, o come sono riuscito a ricostruirle. Non sono il solo cui succede, e la fortuna di oggi è che ci sono spazi internet infiniti che permettono a tutti noi, poi, di chiarire quale sia davvero il nostro punto di vista.
Abbiamo l’idea – gli editori hanno l’idea, e i direttori di conseguenza – che si debba intercettare il pubblico di un certo tipo, e in nome di questo si modifica anche la lettura della realtà. Si dice, spesso, che è solo questione di linguaggio. Non è mai vero. Noi facciamo cose con le parole.
Nel suo messaggio, Papa Francesco prosegue affermando che “la crisi dell’editoria rischia di portare a un’informazione costruita nelle redazioni, davanti al computer, ai terminali delle agenzie, sulle reti sociali, senza mai uscire per strada, senza più ‘consumare le suole delle scarpe’, senza incontrare persone per cercare storie o verificare de visu certe situazioni”.
Anche qui, è una lettura parzialmente vera. Non si tratta solo della crisi dell’editoria, si tratta di una logica del profitto che porta comunque tutti ad utilizzare la soluzione più semplice. Lavorare davanti ad un computer, per molti direttori, può essere lo stesso che stare sul posto. Ma è semplicemente perché non pensano ai grandi reportage, non pensano alla sfumatura che cambia davvero il senso di un pezzo. Stare sul posto dà profondità. Per molti, semplicemente non vale la pena. Tanto – dicono - il lettore a queste cose non sta attento. Meglio fare il minimo necessario massimizzando le risorse.
Non è solo una questione economica, è anche un problema di pigrizia. Un inviato, d’altro canto, prevede anche che si restauri quel patto di fiducia tra direttore e giornalista che spesso viene tradito. Un inviato vede le cose, un direttore sembra a volte decidere ciò che il giornalista vuole vedere. Un titolo viene considerato, a volte, più importante di una notizia stessa.
Papa Francesco ringrazia anche il “coraggio” di tanti giornalisti, che ci hanno permesso di conoscere “ad esempio, la condizione difficile delle minoranze perseguitate in varie parti del mondo; se molti soprusi e ingiustizie contro i poveri e contro il creato sono stati denunciati; se tante guerre dimenticate sono state raccontate. Sarebbe una perdita non solo per l’informazione, ma per tutta la società e per la democrazia se queste voci venissero meno: un impoverimento per la nostra umanità”.
Anche in questo caso, si tratta di una visione parziale. Spesso il problema non è conoscere le emergenze dimenticate, le storie che strappano il cuore e che ci mettono di fronte all’esistenza di un’altra umanità, che ci dovrebbe muovere a compassione e dovrebbe farci venire voglia di cambiare il mondo. Questo è facile, perché l’indignazione è un qualcosa che tutti sappiamo provare quando ci troviamo di fronte ad una guerra dimenticata o alla marginalizzazione dei poveri.
Il vero coraggio, però, consiste nel dire il perché di queste situazioni. Consiste nell’analizzare le strutture di peccato, nel mostrare le reti di corruzione, anche nel mettere in luce una mentalità che può essere fallace, e che può portare gravi conseguenze. Il coraggio significa vedere oltre le situazioni. Non si tratta solo di guardare de visu, si tratta di analizzare. Come se ci trovassimo di fronte alla diagnosi di una malattia: non dobbiamo capire cosa è, dobbiamo comprendere come ragiona la malattia, dove agisce, dove andrà a colpire, perché questa malattia possa essere guarita.
Tutto nasce, però, dal problema principale. Che essere giornalista non viene più visto come un servizio, ma viene più considerato come parte della narrativa del Quarto potere. Racconti mitizzati, come quello di Tutti Gli Uomini del Presidente, non fanno altro che raccontare che i giornalisti, in fondo, non sono altro che in balia delle loro fonti, e che le fonti li possono manipolare se questi non hanno il coraggio di guardare in maniera più ampia, di fare un passo indietro e rinunciare alla narrativa che hanno invece impostato - e che magari hanno anche impostato con coraggio, nessuno lo mette in dubbio.
E questo porta al corollario che a direttori ed editori, spesso, non interessa il punto di vista dei giornalisti, ma si aspettano che i giornalisti raccontino quello che vedono loro. E spesso i direttori hanno solo deciso che un notiziario vada in una direzione, non hanno consumato la suola delle scarpe.
Nel giorno di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti proprio perché attraverso una sorta di free press (volantini distribuiti gratuitamente) combatteva la riforma calvinista a Ginevra, credo sia il caso di lanciare un patto generazionale per i giornalisti cattolici che hanno la mia età, e che si sono trovati stretti tra una generazione di mezzo che, in fondo, è frutto delle grandi ideologie politiche del Sessantotto e nel mondo cattolico della grande stagione dei movimenti, e la generazione che segue, che invece ormai è fatta di persone che “fanno le notizie”, non di persone che leggono le notizie, di comunicatori piuttosto che di giornalisti che sappiano essere mediatori della realtà. Tutti, oggi, possono fare i giornalisti, ma è difficile essere giornalista.
Il nostro patto generazionale deve essere questo: che sappiamo prediligere l’analisi alla notizia, la storia al commento; che comprendiamo che il lettore non è solo quello che cerca testi brevi, e che anzi si può costruire un lettore nuovo, un lettore attento, e che quello è parte della nostra missione; che, una volta che prenderemo responsabilità, formeremo giornalisti in grado di raccontare ciò che vedono con coraggio, e non imporremo mai il nostro punto di vista. Dobbiamo essere plurali, e dobbiamo comprendere l’esigenza di studiare. Dobbiamo rimettere le chiavi della storia nel racconto giornalistico. Dobbiamo evitare propaganda e personalizzazioni, imparando a raccontare (e non mitizzare) le persone e non i personaggi.
Vale, soprattutto, per il giornalismo che fa informazione religiosa. Perché, in fondo, se non riusciamo a farlo con l’informazione religiosa, non siamo in grado di farlo con nessuno. E i grandi santi giornalisti (da padre Massimiliano Kolbe a padre Adolf Kajpr) raccontano quanto davvero sia pericoloso un giornalista che racconti la Verità. Senza fronzoli, senza cercare narrative, che sono il vero virus dell’informazione oggi.
Se riusciremo a mettere in atto questo patto generazionale, potremo avere un nuovo giornalismo. Un giornalismo approfondito e veloce, consapevole che a volte è meglio dopo che bene, ma prima e imprecisamente. Un giornalismo che sappia riconoscere la costruzione del consenso, e la sappia ignorare. Un giornalismo che sappia non essere attivista, ma piuttosto sappia essere mediatore tra la realtà e il lettore.
Se riusciremo a farlo per l’informazione religiosa, riusciremo ad avere un nuovo punto di vista. Non acciaccato sulle persone, ma che respira con l’ampiezza delle idee. E che, nel caso del giornalismo cattolico, possa respirare a pieni polmoni l’universalità data dalla Chiesa cattolica. Una universalità che va al di là di ogni Papa e di ogni prete di strada; ma anche al di là di ogni episodio di corruzione e da ogni edificante storia di santità.
E riusciremo a farlo solo se odieremo nostro padre e nostra madre, ovvero i nostri legittimi pregiudizi con i quali ci approcciamo ad ogni cosa, perché in fondo nessuno di noi nasce dal nulla, ma tutti sono frutto di una vita che porta idee e schemi mentali.
Ecco, questo deve essere il nostro patto generazionale. Sperando che non sia troppo tardi per costruire il futuro.
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