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giovedì 12 marzo 2020

Anche il giornalismo ha il suo “coronavirus”. E si chiama narrativa

Oggi lo chiamano “story telling”, ma in generale viene chiamata narrativa. È il punto di vista con cui si decide di raccontare una storia. Anzi, direi che è il punto di vista comunemente accettato per raccontare una storia. Quando una narrativa prende piede, infatti, è praticamente impossibile smontarla. E nemmeno le più raffinate tecniche di debunking ci riescono. Per questo, la narrativa può essere considerata il “coronavirus” del giornalismo.

Ovvio, non c’è da scherzare sulla pandemia del “coronavirus”. Ma trovo sia lecito fare similitudini per cercare di far comprendere un concetto. E allora facciamole, queste similitudini. Come per il coronavirus non ci sono difese immunitarie, o ci sono solo per uno scherzo genetico, così è per la narrativa, contro la quale difficilmente si hanno difese. Come il coronavirus si diffonde a macchia d’olio, e rapidamente, così fa la narrativa, ed è per questo che poi è difficilissimo da smontare. Come per il coronavirus non si è ancora trovata una cura, non si è trovata per quanti sono soggetti ad una narrativa.

C’è un esempio, nel giornalismo vaticano, che vale come specimen, ed è quello dell’Humanae Vitae di Paolo VI. Per arrivare alla stesura dell’enciclica sul controllo delle nascite, Paolo VI aveva stabilito una commissione allargata, che era erede di varie altre commissioni sul tema, cominciate addirittura sotto Pio XII.

Alla vigilia della pubblicazione dell’enciclica, con una azione concertata, The Tablet, Le Monde e il National Catholic Reporter pubblicarono un rapporto della commissione che si diceva favorevole alla pillola. Tutti ci credettero. Quando Paolo VI pubblicò l’enciclica, in cui si ribadiva il no della Chiesa ai metodi anti-concezionali, si trovò contro una opinione pubblica che già si era illusa che il Papa potesse cambiare in qualche modo la dottrina. E nacque il mito del Paolo VI che agì da solo, per contrastare lo spirito del Concilio secondo alcuni, per difendere la tradizione che il Concilio non aveva attaccato secondo altri.

Solo che la storia non è andata proprio così. Ad inizio degli anni 2000, Bernardo Colombo, uno dei membri della commissione, chiarì che in realtà l’opinione pubblicata non era quella dell’intera commissione, ma quella di un gruppo che era parte della commissione.

Per i cinquanta anni dell’enciclica, altri studi hanno dimostrato, ad esempio, la difesa che ne fecero alcuni vescovi, tra cui l’arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla, che da membro della commissione supportò l’idea di Paolo VI.

E c’è poi il lavoro di Gilfredo Marengo, “La nascita di una enciclica”, che, andando a ricercare la genesi dell’Humanae Vitae, chiarisce che Paolo VI non agì da solo.

Eppure, ancora oggi la narrativa su Paolo VI che agì da solo e tradì lo spirito del concilio è diffusa, ed è contagiosa. Non si riesce a fermare, perché nessuno si ferma di pensarlo. Come se, una volta presi dalla narrativa, sia più difficile metterla in discussione che accettarla supinamente.


Il coronavirus della narrativa è diventato sempre più potente, diffuso dai social media e dalla necessità per una notizia di essere succosa. Si decide una prospettiva, si decide ciò che la gente vuole sentirsi dire o ciò che un gruppo di pressione vuole sentirsi dire, e si ripete il tema all’infinito, cercando sempre punti di vista consonanti, e mai cercando la verità.

Ormai, conta più la narrativa che la notizia. Perché, in fondo, per stare sui media, per generare interesse, serve una narrativa positiva.

La scorsa settimana, prima del totale lockdown, ho avuto la fortuna di partecipare a Vienna ad un simposio sui media in cui sono stati messi allo stesso tavolo media e operatori legali impegnati nel tema della libertà religiosa.

Gli avvocati chiedevano ai giornalisti come fare, appunto, per rompere il muro della narrativa, per portare i loro temi all’interno del dibattito pubblico con più forza. E i giornalisti generalmente rispondevano che questi, gli avvocati, dovevano mandare delle note stampa semplici, brevi, dovevano aiutarli a trovare storie con i volti, perché così le loro storie sarebbero potute entrare nell’opinione pubblica.

Tutto vero, per carità. Ma con un problema di fondo. Che quello di raccontare le storie in un modo accattivante, di studiare le carte e di farne una notizia, è il compito dei giornalisti. È il giornalista che deve comprendere come mettere insieme una storia, e comprendere che c’è una storia anche lì dove non c’è il click facile.

Lo ho fatto notare, e ho fatto notare agli avvocati che loro non dovevano preoccuparsi di piacere ai media, ma dovevano trovare media in grado di comprenderli. È come quando ti fai gli amici. Non devi piacere per forza a tutti, e lo sai. Devi semplicemente trovare le persone che ti capiscono, e stabilire con loro un rapporto di fiducia.

Non è facile, in un mondo sempre più veloce. Contano i grandi media, così come contano le grandi catene di distribuzione, e sembra non esserci più posto per i posti indipendenti, non legati a grandi interessi, e magari inclusi in un mondo più piccolo, ma anche più confortevole per alcuni.

Eppure quello spazio c’è, ed è solo una illusione pensare che quello spazio sia ininfluente. Proprio perché i media sono proliferati ad una velocità esponenziale, ci sono nuovi spazi, nuove possibilità di espressione che prima non c’erano. Tutti possono avere una voce. Sembrerà sorprendente, ma la voce non deve essere accattivante. Deve essere originale. Non farà milioni di click, ma avrà un peso.

Siamo però così presi dal coronavirus della narrativa che non ci rendiamo conto di come, invece, ci  sia sempre più spazio per un mondo di nicchia, altamente specializzato. Perché è quello che fa la differenza. E siamo così accecati dal coronavirus della narrativa che non ci rendiamo conto che, in fondo, possiamo dare uno sguardo di insieme, e renderci conto che forse noi possiamo avere un nostro punto di vista.

Peggio ancora è però il fatto che non siamo solo noi, in questa cecità. Lo sono anche quelli che diffondono le informazioni, che cercano, appunto, il grande mezzo di informazione, la presenza, e questo a discapito della verità, dell’approfondimento, della verità.

Non si cerca il giornalista, si cerca la pubblicità. E così, si corre il rischio di trasformare il giornalismo in marketing.

Questo rischio si corre da quando si è parlato del giornalismo come del “Quarto Potere”, perché in fondo chi controlla l’informazione ha in mano un potere. Ma il giornalista non deve controllare l’informazione. Deve filtrarla. Deve fare in modo che le storie passino e vengano comprese. Il giornalista ha il potere del servizio, non può avere il potere della narrativa.

La narrativa, però, prende il sopravvento. Non è un tema nuovo. Succedeva con gli “yellow papers” di Pulitzer già all’inizio del secolo scorso. Eppure, c’è uno spazio per un nuovo giornalismo oggi. E se ci sarà, tra coloro che distribuiscono le informazioni, qualcuno abbastanza coraggioso da affidarsi a giornalisti di nuovo tipo e non a media di vecchia mentalità, questo nuovo modo di fare giornalismo potrà davvero debellare il coronavirus della narrativa.

Ma ci vuole pazienza, fiducia, capacità di fuoco. Perché in fondo resta sempre valida la lezione di Goebbels: “Di’ una bugia cento volte e diventerà una verità”.

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