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venerdì 28 febbraio 2020

Benedetto XVI, la sua eredità sette anni dopo

La fine di un pontificato non è mai semplice. C’è l’emozione, c’è il senso di straniamento, c’è il senso della fine di un mondo. Con Benedetto XVI è stato persino più difficile, perché Benedetto XVI ha avuto modo di spiegare, raccontare, dire i motivi della sua scelta. Ma, soprattutto, in quel lungo addio che va dall’11 febbraio al 28 febbraio di sette anni fa, ha continuato a centrare tutto sul grande tema del suo pontificato: la fede.


Benedetto XVI termina il suo pontificato nell’Anno della Fede da lui fortemente voluto, e lo termina dopo aver tenuto il suo personale, ed amarissimo, discorso alla luna per i cinquanta anni dall’apertura del Concilio, in cui ricordava la speranza data da quell’assise e la delusione per aver compreso che c’erano anche pesci cattivi nella rete degli uomini pescati dal Signore. Benedetto XVI termina il suo pontificato dopo aver spiegato la sostanziale differenza tra il Concilio dei media e il Concilio reale, marcando così nettamente la differenza tra la fede e le ragioni della fede e l’ideologia e le ragioni dell’ideologia, di cui è pervaso il mondo.

La fine di un pontificato racconta una fine solamente perché noi siamo abituati a leggerlo in termini politici. Ma il pontificato di Benedetto XVI non è mai terminato realmente. Non perché Benedetto XVI sia ancora il Papa, questo no. Ma perché tutti i temi, tutti i problemi che lui ha messo in luce, sono temi attuali oggi più che mai. E lo sono perché vanno a centrare l’unico tema che conti davvero per la Chiesa: la fede.

Ritornano d’attualità i discorsi di Benedetto XVI alla Chiesa di Germania nel 2011, quando notò l’autoreferenzialità di una Chiesa ripiegata sulle sue strutture, ma poco propensa ad annunciare il Vangelo perché soddisfatta di se stessa. Discorsi in cui Benedetto XVI arrivò a lodare persino le ondate di secolarizzazione, che avevano avuto come risultato una Chiesa più pura.

Tornano di attualità oggi, quando la Chiesa di Germania continua la sua personale battaglia cominciata con l’ “Iniziativa parroci” sotto Benedetto XVI, e ancora prima con il tema dei divorziati risposati sotto San Giovanni Paolo II. Tornano di attualità perché Papa Francesco ha aperto, sì, processi, ma poi è rimasto sul tema fondamentale, che è quello della fede, avvertendo la Chiesa di Germania di non arrendersi alla tentazione funzionalista e la Chiesa tutta, nella Querida Amazonia, di non clericalizzare i problemi. Tornano di attualità perché, incredibile ma vero, questo ritorno all’essenziale predicato da Benedetto XVI ha messo in crisi, scompigliato, scosso, tolto speranze a chi vede nella Chiesa una istituzione puramente umana.

Tornano di attualità le parole dette da Benedetto XVI ai vescovi svizzeri in visita ad limina nel novembre 2006, quando sottolineò che “non dovremmo permettere che la nostra fede sia resa vana dalle troppe discussioni su molteplici particolari meno importanti, ma aver sempre sotto gli occhi in primo luogo la Sua grandezza”.

Tornano di attualità le parole dette a Colonia, alla Giornata Mondiale della Gioventù del 2005, quando Benedetto XVI affermò che “insieme con la misericordia di Dio c’è una certa nuova esplosione di religione”, ma che “una religione fai da te non può aiutarci. Può essere confortevole, ma in tempi di crisi in cui siamo lasciati a noi stessi”.

Tornano di attualità le parole dette alla Messa di inizio del suo ministero petrino, il 24 aprile 2005, quando sottolineò che “una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova”.

E amare, aggiungeva Benedetto XVI, significa “dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza, che egli ci dona nel Santissimo Sacramento”.

Basterebbe andarsi a rileggere senza pregiudizi ogni passaggio di Benedetto XVI per comprendere che tutte le sue scelte, anche quelle di governo, erano guidate da questo filo conduttore della fede.

Ma davvero questo è stato capito? Non lo hanno capito i media, tutti tesi a polarizzare  e politicizzare i linguaggi, cercando “la notizia” dove non c’è, e non andando invece a vedere che la vera notizia, per Benedetto XVI, era il Vangelo. Non lo hanno capito molti fedeli, più tesi a seguire le mode del pensiero che a comprendere il pensiero stesso. Non lo abbiamo capito in molti, perché in fondo la storia è un animale strano, che si nega a quanti non la amano e la rinnegano, diventando per loro quasi invisibile.

Il pontificato di Benedetto XVI è finito sette anni fa, eppure resta universale, presente e vivo per il tema centrale che ha sviluppato e che non ha mai rinnegato: la fede in Dio.

Lo aveva scritto, Benedetto XVI: “Tutta la mia vita è sempre stata attraversata da un filo conduttore. Questo: il cristianesimo dà gioia, allarga gli orizzonti. In definitiva, un’esistenza vissuta sempre e soltanto contro sarebbe insopportabile”.

Per questo, il pontificato di Benedetto XVI è vivo, sette anni dopo. Mentre tutto il contorno, tutta la narrativa “contro” che si è creata, in molti modi e in varie sfumature, resta sterile. Non dà frutto, non dà vita, non lascia memoria. Sette anni dopo, si può dire che Benedetto XVI ha soprattutto insegnato, da pontefice, a coltivare la fede come nutrimento per la vita, per la storia, per la memoria. Un insegnamento difficile da digerire, perché mette in crisi. Come mettono in crisi tutte le cose vere.

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