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venerdì 13 marzo 2020

Sette anni di Papa Francesco. Come è cambiata l’informazione vaticana?

Sette anni dopo l’elezione di Papa Francesco, c’è da chiedersi come e perché sia cambiato il nostro approccio con l’informazione vaticana. Si veniva dall’ultimo periodo di Benedetto XVI, caratterizzato dal cosiddetto scandalo Vatileaks e da quella che veniva definita una errata percezione della Chiesa.

Era stato assunto Greg Burke come consulente per la comunicazione della Segreteria di Stato, e sembrava che la Chiesa vivesse in un perenne stato di assedio. Prima l’annus horribilis del 2010, con tutti gli scandali degli abusi che venivano fuori ogni settimana. Poi i primi Vatileaks. Poi i libri scandalo. Era l’istituzione Chiesa ad essere messa alla prova.

Eppure, ed è paradossale, la Chiesa era ascoltata nel mondo. Era sotto attacco proprio perché il suo punto di vista era ascoltato ed era uno schiaffo in faccia a chi guardava. Era una Chiesa che guardava il mondo dall’alto, che provava a dare visioni di insieme, e che per questo faceva paura. La tremenda reazione alla lezione di Ratisbona di Benedetto XVI ne è una prova. Così come lo era l’attenzione per le parole della Santa Sede in ambito internazionale, caratterizzata da quella che era chiamata una “diplomazia della verità”.

Non che la Chiesa non avesse attenzione per le cose pratiche. La carità era sempre lì, sotto gli occhi di tutti, e veniva portata avanti con forza. E così come lo erano le persecuzioni, fortissime, contro la Chiesa, che nascevano proprio perché questa opera di carità andava avanti senza distinzioni.

E non che la Chiesa non parlasse di demondanizzazione. Anzi. Benedetto XVI, durante il suo viaggio in Germania del 2011, aveva persino lodato i movimenti secolari che avevano tolto alla Chiesa il potere temporale e la aveva resa più libera.

Non era una Chiesa diversa da quella di oggi. Era una Chiesa, però, che si era liberata del dibattito del dopo Concilio Vaticano II, concentrato in fondo sulla casistica, su parole chiave come “rivoluzione”, “discontinuità”, “cambio dottrinale”, “spirito del Concilio”. Il dibattito sulla Chiesa dopo il Concilio Vaticano II aveva assunto una piega politica, più che religiosa. Quello operato da Giovanni Paolo II, e poi da Benedetto XVI, era un cambio di prospettiva, fortissimo.

Ma i media lo avevano capito? Pochissimo. Perché in fondo i media giocano sulle contrapposizioni, perché in fondo comprendere a fondo un pensiero che è al di fuori di schemi pre-costituiti è troppo difficile. Benedetto XVI aveva lavorato nel retrobottega, mettendo in ordine gli articoli su fede e ragione e provvedendo nuove fondamenta ad una Chiesa che aveva bisogno di una nuova spinta intellettuale per essere minoranza creativa. Ma tutti guardavano alla vetrina, perché, in fondo, è più facile. E nella vetrina c’erano ancora i vecchi articoli.

Con l’elezione di Papa Francesco, si è tornati dunque alla vecchia narrativa, che è in fondo il vero “coronavirus” del giornalismo. Come se niente fosse successo, come se, in fondo, quella necessità di raccontare la Chiesa in modo diverso, con criteri diversi, punti di vista diversi, fosse in realtà troppo.

Ci si è trovati subito nella necessità di raccontare la “novità” di un pontificato, e ci siamo dimenticati di raccontare davvero chi era Papa Francesco, quale era il suo background culturale. Ci siamo lasciati prendere dalla narrativa iniziale, spinta anche dalla necessità di Papa Francesco di comunicare in modo diverso dai predecessori.

Perché Papa Francesco è diverso. Viene dall’Argentina, dove conta mostrare vicinanza con le persone. Il lider, e il lider in America Latina in generale, è colui che si mostra vicino al popolo per differenziarsene. Perché le persone hanno bisogno di sentire il capo vicino, di sentire che condivide le sofferenze.

C’è una mistica del capo e del popolo, in America Latina, che va compresa per comprendere Jorge Mario Bergoglio Papa. Eppure, non solo questa mistica è stata poco considerata, ma si è messa da parte per guardare piuttosto alle aspettative che c’erano sulla Chiesa. Anzi, quasi per ricreare una agenda che potesse, finalmente, cambiare le sorti della Chiesa.

Quando nel 2016 il professor Loris Zanatta aveva messo in luce il populismo di Papa Francesco in un testo, “Un Papa peronista?”, che aveva suscitato tantissime critiche. Come se non si potesse guardare al Papa guardando alle sue radici, come se ogni analisi diventasse un atto di accusa.

Il pontificato di Papa Francesco ha creato un divario tra i “guardiani della rivoluzione”, coloro che dietro il pontificato di Papa Francesco portano avanti una agenda che è sempre la stessa degli anni Settanta, e tra quelli che chiamerei i “guardiani della storia”, preoccupati del lavoro dell’altra “lobby” cui vedono Papa Francesco prono.

Il risultato, però, è stato in una iper-interpretazione del pensiero di Papa Francesco, che va preso per quello che è. E questa iper-interpretazione – da cui mettevo in guardia già nel 2015 – a creare poi i miti, e poi le relative cadute.

L’ultimo esempio, sostanziale, è quello dell’esortazione apostolica post-sinodale Querida Amazonia, caricata di aspettative dottrinali. Papa Francesco ne ha fatto l’epitome del sogno di patria grande di Simon Bolivar e l’espressione del continentalismo del filosofo uruguayano Methol Ferré, e lo ha fatto perché quella è l’ispirazione di Papa Francesco. La sua attenzione alle periferie viene dal fatto di essere parte di una Chiesa che si sente in periferia, trascurata dalle istituzioni. Papa Francesco non è un Papa anti-romano. È un Papa anti-istituzionale, perché dall’istituzione si sente abbandonato. Ma, nel lavorare fuori dalle dinamiche istituzionali, in realtà crea altre strutture, altri punti di vista.

Abbiamo una narrativa che si è diffusa su Papa Francesco e che spesso si trova costretta a rincorrere, a re-interpretare le anticipazioni, e abbiamo un Papa che in generale non segue una linea retta e prevedibile, decide sulla base delle situazioni del momento, con pragmaticità e – a volte- cinismo.

In questi sette anni, la professionalità degli operatori vaticani è stata messa a dura prova per due ordini di motivi.

Il primo è legato ai mezzi: la comunicazione è sempre più veloce, dare le notizie non basta perché tutti possono dare una notizia, ma in pochi sono davvero giornalisti. Serve essere veloci, precisi, approfonditi. Serve un retroterra culturale maggiore perché lo scarto tra pensiero e azione è minimo. È un giornalismo nuovo, e la novità non riguarda tanto la convergenza dei mezzi di comunicazione, quanto il fatto che ormai l’informazione è fluida, e renderla autorevole, veritiera e sincera è molto più complicato. Difficile adeguarsi, difficile resistere alla tentazione di fare cambiamenti solo tecnici. Il cambiamento è sostanziale. È un po’ come con l’evangelizzazione. Si parla tanto di tecniche di evangelizzazione, di modelli di evangelizzazione, ma la verità è che se manca il contenuto primario dell’evangelizzazione, se manca il richiamo alla fede vera, tutti i modelli falliscono. La società superficiale non ci permette, in fondo, di essere superficiali.

Il secondo motivo è che ci si trova in un mondo nuovo, ma si continuano a usare lenti vecchie per comprenderlo. Essendo un Papa anti-istituzionale, Papa Francesco non fa scelte prevedibili. Si muove per tentativi ed errori, in un mondo, quello vaticano, che ha i suoi linguaggi. E va a scardinare le abitudini e le consuetudini, cambiando così la sostanza delle cose.

Lo ha fatto per il collegio cardinalizio, che sembra più legato a criteri di rappresentatività che di sede. C’è un collegio più vario, con cardinali da ogni parte del mondo, eppure tutti sconosciuti l’uno all’altro, anche perché non ci sono stati concistori in cui si potessero conoscere. E un futuro conclave di questo tipo sarà necessariamente diverso dagli altri, non avrà le categorie cui eravamo arrivati. Non esisterà la fobia del Papa troppo giovane, esisterà piuttosto la fobia del Papa sconosciuto.

Questi sette anni di pontificato avrebbero dovuto abituarci ad andare al di là degli slogan, a comprendere il Papa per quello che è come non avevamo fatto prima. Ci ritroviamo ancora a parlare in termini di “rivoluzione”, “enciclica dei gesti”, e altre formule che, in fondo, lasciano il tempo che trovano. Sono formule.

Con il pontificato di Papa Francesco, è come se le lancette fossero tornate indietro agli Anni Settanta. Troppo influenzati da quella narrativa, non siamo stati in grado di discostarcene durante i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, e la abbiamo ripresa con forza di fronte a un pontificato nuovo. Come se nuovo significasse solo quanto era stato dettato dall’agenda.

Sette anni dopo, colpisce che i temi in discussione siano sempre gli stessi, mentre si sia persa in generale la forza di alimentare il dibattito culturale. Ma è con il pensiero che si rivoluziona il mondo, non con i gesti, che pure sono importanti.

Ma il pontificato di Papa Francesco si racchiude, in fondo, nei quattro principi dell’Evangelii Gaudium, e in particolare in quello che dice che “la realtà è superiore all’idea”. Si lavora sul concreto, e sulle circostanze.

Eppure, c’è bisogno di idee. Già Paolo VI, nella Populorum Progressio, sosteneva che  “il mondo soffre per la mancanza di pensiero”. Forse è proprio questo che manca: le idee. Mancano al mondo della comunicazione idee per andare oltre le frasi ad effetto, i pregiudizi positivi o negativi, le legittime aspettative. Manca umiltà epistemologica. Non sappiamo ancora se abbiamo capito Papa Francesco. Di certo, probabilmente non siamo riusciti a raccontarlo del tutto e davvero.


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