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martedì 11 febbraio 2020

Benedetto XVI, l’occasione mancata. Per i giornalisti


C’è la mente più fredda, a sette anni dalla storica rinuncia di Benedetto XVI, per fare una analisi di coscienza netta e chiedersi se davvero i vaticanisti, e i giornalisti in genere, hanno capito la ratio del pontificato di colui che oggi è il Papa emerito. E la risposta è “no”. Ma il punto è che Benedetto XVI non è stato solo incompreso dai media, vale a dire da quanti, volenti o nolenti, erano chiamati a raccontarne il pontificato. Non è stato probabilmente compreso nemmeno da quanti lo hanno accompagnato in questa avventura alla guida della “barca di Pietro”.


 Il fatto è che Benedetto XVI poneva un problema. A quanti erano abituati a ragionare per schemi precostituiti, il Papa emerito rispondeva con una provocazione, mite e allo stesso tempo fortissima: allargate lo sguardo, non puntate solo alle cose di oggi. Tutto il pontificato di Benedetto XVI è stato un invito a guardare alle cose di lassù, e poi a prendere l’altro punto di vista per comprendere le cose nella loro complessità. Guardare dall’alto non permette solo di avere uno sguardo di insieme. Guardare dall’alto permette anche di avere un certo distacco dalle cose del mondo, di riuscire a lasciare andare il superfluo. Guardare dall’alto significa avere fede.

I media hanno continuato ad applicare le loro categorie precostituite ad un pontificato che invece poneva il drammatico problema della fede. Come si rende notiziabile l’assenza di fede? Servono fatti, approfondimenti, storie. Ed è proprio quello il difficile. Perché il pensiero non si può fattualizzare, si deve spiegare, raccontare, interiorizzare e riscrivere.

Per comprendere Benedetto XVI si dovevano comprendere a fondo le domande che lui si poneva e si è posto durante tutta la vita, andare a studiare, guardare oltre.

Per comprendere Benedetto XVI non bastavano i dibattiti che hanno fatto seguito al Concilio Vaticano II, perché Benedetto XVI aveva partecipato a quei dibattiti, ma poi se ne era distaccato dopo, aveva preso un altro approccio, consapevole che l’influenza dei media aveva preso anche i padri conciliari.

Per comprendere Benedetto XVI non bastava la classica polarizzazione tra progressisti e conservatori, perché questa è solo una categoria, un modo di prendere un punto di vista, e di prenderlo con un linguaggio che Benedetto XVI  non poteva accettare per la Chiesa.

Mi viene da dire che i giornalisti sono stati pigri nel comprendere Benedetto XVI. Era anche un problema generazionale.

I giornalisti che hanno seguito il grande pontificato di Giovanni Paolo II si erano formati alla scuola del Concilio Vaticano II, ovvero del grande dibattito teologico veicolato sui media, sebbene attraverso le lenti di varie ideologie da cui sembra non si potesse sfuggire negli Anni Sessanta. Poi, avevano seguito Paolo VI, un uomo dai grandi gesti, ma sempre fatti sottovoce, quasi nell’ordine della normalità, tanto che in pochi ricordano, ad esempio, la Messa che celebrò il giorno di Natale all’Ilva di Taranto. Con Paolo VI, si doveva pensare.

Il cambio generazionale è arrivato durante Giovanni Paolo II, e in generale ha avuto luogo negli Anni Novanta. Ci si trovava di fronte ad una Chiesa trionfante dopo la caduta del Muro di Berlino, sicura che il futuro sarebbe stato roseo, e questo prevaleva su qualunque altro giudizio. Poi, Giovanni Paolo II cominciò a peggiorare di salute, e ogni critica, ogni dibattito sembrò spegnersi, mentre i suoi collaboratori intorno lavorarono a creare il suo mito e a forzare una narrativa.

 I giornalisti che si sono trovati a fare i conti con Benedetto XVI erano quelli formati sotto il Vaticano III, ovvero la stanza del Gemelli che era sempre prenotata per San Giovanni Paolo II, abituati a rendere cronaca gioiosa del grande stoicismo del Papa nel governare seppure malato, ma pure un po’ disabituati a lavorare sulle grandi storie, sui grandi dibattiti, sui grandi temi. Anzi, piuttosto abituati a cercare l’enfasi, a cercare il titolo, a cercare la frase ad effetto.

Benedetto XVI non era niente di tutto questo.

Benedetto XVI era colui che si era messo a guardare le cose dall’alto, come il San Benedetto da cui prendeva il nome. E le cose, viste dall’alto, hanno un’altra prospettiva.

Per chi guarda le cose dall’alto non esistono confini, e per questo ogni sforzo di Benedetto XVI è stato concentrato all’unità della Chiesa. Vanno lette così la remissione della scomunica ai quattro vescovi lefevriani, la liberalizzazione del rito antico, ma anche l’impegno ecumenico portato concretamente avanti in un dialogo incessante con ebrei, ortodossi, musulmani sin dal suo primo viaggio, la Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia nel 2005.

Per chi guarda le cose dall’alto, tutti siamo infinitamente piccoli di fronte alla grandezza di un Creatore, e dobbiamo credere in quel Creatore se pure ci permette di avere la capacità di guardare le cose da un’altra prospettiva, e persino di rinnegarlo.

Per chi guarda le cose dall’alto, le situazioni contingenti contano fino ad un certo punto, ma conta il percorso, conta la comprensione, conta l’affrontare i problemi a partire dalla radice, e vanno letti in questo senso gli interventi di Benedetto XVI in Germania, dalla celebre lezione di Ratisbona a tutti i discorsi del viaggio in Germania nel 2011.

Per chi guarda le cose dall’alto, l’uomo che decreta la sua fine rinnegando la sua natura non ha ragione di esistere.

Ma Benedetto XVI non è mai stato dipinto come un uomo che sa guardare le cose dall’alto. In pochi hanno letto i suoi testi. Ancora meno li hanno valorizzati. Si è proceduto per stereotipi, usando gli occhiali vecchi di un pontificato morente per comprendere un pontificato nuovo che aveva come novità la radicalità della verità.

No, Benedetto XVI non è stato capito. Non è stato capito dai piccoli intrighi di palazzo, che però il Papa emerito ha sempre poco considerato, perché chi guarda le cose dall’alto sa che la Chiesa è in mano a Dio e non agli uomini. Ma non è stato capito nemmeno dai media, troppo presi a cercare la notizia, lo scoop, lo scandalo, a creare fantasmi e nemici, e troppo poco presi a farsi una domanda fondamentale: “Chi è Benedetto XVI?”

Tutt’oggi, mentre dal Monastero Mater Ecclesiae continua a illuminare con un pensiero mai banale (dal dialogo con il mondo ebraico fino all’ultimo saggio nel libro del Cardinale Sarah sul celibato, dalla lettera per i cinquanta anni della Commissione Teologica Internazionale fino all’analisi del tema degli abusi), si cerca di relegare Benedetto XVI negli angoli della storia, o di ridurlo in silenzio.

Con la sua rinuncia, Benedetto XVI ha dimostrato una volta per tutte che non era stato capito. Ha dato prova di una modernità di pensiero enorme, e anche di grande fiducia in Dio, ha segnato un nuovo capitolo della Chiesa. Invece di riconoscerlo, tutti hanno tirato un sospiro di sollievo. E dopo hanno ripreso a fare come se quel Pontificato fosse stato solo una parentesi, estrapolando il pensiero di Benedetto XVI per fini pratici e senza metterlo quasi mai nel contesto, ritornando ai vecchi pregiudizi su Benedetto XVI che sarebbero dovuti essere spazzati via dai fatti. Il film “I due Papi” ne è l’ultima prova.

Benedetto XVI non è stato un Papa che poteva funzionare per stereotipi, né poteva essere ascritto alle categorie di fede. Benedetto XVI è stato forse il Papa più coraggioso della storia moderna. Dato che era troppo difficile da inquadrare, si è preferito raccontarlo per stereotipi. Eppure, ancora oggi, ogni volta che parla, si crea dibattito, e se ne è così spaventati che si parla anche di imporre un “silenzio istituzionale” al Papa emerito. Vorrà pur dire qualcosa.

Benedetto XVI è stato, per i vaticanisti, la grande occasione per fare il salto di qualità nella professione, per comprendere che il Vaticano non è la Chiesa e che la Chiesa è molto di più di quello che pensiamo. È stata la grande occasione per costruire un nuovo modo di raccontare la Chiesa, che non fosse adulatore né contro, ma che fosse semplicemente vero. Abbiamo avuto gli adulatori di Benedetto XVI, abbiamo avuto i nemici. Per il vero sembra ci sia ancora da lavorare.

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