C’è la mente più fredda, a sette anni dalla storica rinuncia di Benedetto XVI, per fare una
analisi di coscienza netta e chiedersi
se davvero i vaticanisti, e i giornalisti in genere, hanno capito la ratio del pontificato di colui che oggi
è il Papa emerito. E la risposta è “no”.
Ma il punto è che Benedetto XVI non è
stato solo incompreso dai media, vale a dire da quanti, volenti o nolenti,
erano chiamati a raccontarne il pontificato. Non è stato probabilmente compreso
nemmeno da quanti lo hanno accompagnato
in questa avventura alla guida della “barca di Pietro”.
I media hanno continuato ad applicare le loro categorie
precostituite ad un pontificato che invece poneva
il drammatico problema della fede. Come si rende notiziabile l’assenza di
fede? Servono fatti, approfondimenti,
storie. Ed è proprio quello il difficile. Perché il pensiero non si può fattualizzare, si deve spiegare,
raccontare, interiorizzare e riscrivere.
Per comprendere Benedetto
XVI si dovevano comprendere a fondo le domande che lui si poneva e si è
posto durante tutta la vita, andare a studiare, guardare oltre.
Per comprendere
Benedetto XVI non bastavano i dibattiti che hanno fatto seguito al Concilio
Vaticano II, perché Benedetto XVI aveva
partecipato a quei dibattiti, ma poi se ne era distaccato dopo, aveva preso
un altro approccio, consapevole che l’influenza dei media aveva preso anche i
padri conciliari.
Per comprendere Benedetto
XVI non bastava la classica polarizzazione tra progressisti e conservatori,
perché questa è solo una categoria, un modo di prendere un punto di vista, e di
prenderlo con un linguaggio che Benedetto
XVI non poteva accettare per la
Chiesa.
Mi viene da dire che i
giornalisti sono stati pigri nel comprendere Benedetto XVI. Era anche un
problema generazionale.
I giornalisti che hanno seguito il grande pontificato di Giovanni Paolo II si erano formati alla
scuola del Concilio Vaticano II, ovvero del grande dibattito teologico
veicolato sui media, sebbene attraverso le lenti di varie ideologie da cui
sembra non si potesse sfuggire negli Anni Sessanta. Poi, avevano seguito Paolo VI, un uomo dai grandi gesti, ma
sempre fatti sottovoce, quasi nell’ordine della normalità, tanto che in pochi
ricordano, ad esempio, la Messa che
celebrò il giorno di Natale all’Ilva di Taranto. Con Paolo VI, si doveva
pensare.
Il cambio generazionale è arrivato durante Giovanni Paolo II, e in generale ha avuto
luogo negli Anni Novanta. Ci si trovava di fronte ad una Chiesa trionfante
dopo la caduta del Muro di Berlino, sicura che il futuro sarebbe stato roseo, e
questo prevaleva su qualunque altro giudizio. Poi, Giovanni Paolo II cominciò a peggiorare di salute, e ogni critica, ogni
dibattito sembrò spegnersi, mentre i suoi collaboratori intorno lavorarono
a creare il suo mito e a forzare una narrativa.
I giornalisti che si
sono trovati a fare i conti con
Benedetto XVI erano quelli formati sotto il Vaticano III, ovvero la stanza
del Gemelli che era sempre prenotata per San
Giovanni Paolo II, abituati a rendere cronaca gioiosa del grande stoicismo
del Papa nel governare seppure malato, ma pure un po’ disabituati a lavorare
sulle grandi storie, sui grandi dibattiti, sui grandi temi. Anzi, piuttosto abituati a cercare l’enfasi, a
cercare il titolo, a cercare la frase ad effetto.
Benedetto XVI non era
niente di tutto questo.
Benedetto XVI era colui che si era messo a guardare le cose
dall’alto, come il San Benedetto da cui
prendeva il nome. E le cose, viste dall’alto, hanno un’altra prospettiva.
Per chi guarda le
cose dall’alto non esistono confini, e per questo ogni sforzo di Benedetto XVI è stato concentrato
all’unità della Chiesa. Vanno lette così la remissione della scomunica ai
quattro vescovi lefevriani, la liberalizzazione del rito antico, ma anche
l’impegno ecumenico portato concretamente avanti in un dialogo incessante con
ebrei, ortodossi, musulmani sin dal suo primo viaggio, la Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia nel 2005.
Per chi guarda le
cose dall’alto, tutti siamo infinitamente piccoli di fronte alla grandezza di
un Creatore, e dobbiamo credere in quel Creatore se pure ci permette di
avere la capacità di guardare le cose da un’altra prospettiva, e persino di
rinnegarlo.
Per chi guarda le
cose dall’alto, le situazioni contingenti contano fino ad un certo punto,
ma conta il percorso, conta la comprensione, conta l’affrontare i problemi a
partire dalla radice, e vanno letti in questo senso gli interventi di Benedetto
XVI in Germania, dalla
celebre lezione di Ratisbona a tutti i
discorsi del viaggio in Germania nel 2011.
Per chi guarda le cose dall’alto, l’uomo che decreta la sua fine rinnegando la sua natura non ha ragione
di esistere.
Ma Benedetto XVI non
è mai stato dipinto come un uomo che sa guardare le cose dall’alto. In
pochi hanno letto i suoi testi. Ancora meno li hanno valorizzati. Si è proceduto
per stereotipi, usando gli occhiali vecchi di un pontificato
morente per comprendere un pontificato nuovo che aveva come novità la
radicalità della verità.
No, Benedetto XVI non
è stato capito. Non è stato capito dai piccoli intrighi di palazzo, che però
il Papa emerito ha sempre poco
considerato, perché chi guarda le cose dall’alto sa che la Chiesa è in mano
a Dio e non agli uomini. Ma non è stato capito nemmeno dai media, troppo presi a cercare la notizia, lo scoop,
lo scandalo, a creare fantasmi e nemici, e troppo poco presi a farsi una
domanda fondamentale: “Chi è Benedetto
XVI?”
Tutt’oggi, mentre dal Monastero
Mater Ecclesiae continua a illuminare con un pensiero mai banale (dal
dialogo con il
mondo ebraico fino all’ultimo saggio nel libro del Cardinale Sarah sul celibato, dalla lettera per
i cinquanta anni della Commissione Teologica Internazionale fino
all’analisi del tema degli abusi), si cerca di relegare Benedetto XVI negli angoli della storia, o di ridurlo in silenzio.
Con la sua rinuncia, Benedetto
XVI ha dimostrato una volta per tutte che non era stato capito. Ha dato
prova di una modernità di pensiero enorme, e anche di grande fiducia in Dio, ha
segnato un nuovo capitolo della Chiesa. Invece di riconoscerlo, tutti hanno tirato un sospiro di sollievo. E
dopo hanno ripreso a fare come se quel Pontificato fosse stato solo una
parentesi, estrapolando il pensiero di Benedetto XVI per fini pratici e senza metterlo quasi mai nel contesto,
ritornando ai vecchi pregiudizi su Benedetto
XVI che sarebbero dovuti essere spazzati via dai fatti. Il film “I due
Papi” ne è l’ultima prova.
Benedetto XVI non
è stato un Papa che poteva funzionare per stereotipi, né poteva essere ascritto
alle categorie di fede. Benedetto XVI è
stato forse il Papa più coraggioso della storia moderna. Dato che era
troppo difficile da inquadrare, si è preferito raccontarlo per stereotipi.
Eppure, ancora oggi, ogni volta che parla, si crea dibattito, e se ne è così
spaventati che si parla anche di imporre
un “silenzio istituzionale” al Papa emerito. Vorrà pur dire qualcosa.
Benedetto XVI è
stato, per i vaticanisti, la grande occasione per fare il salto di qualità
nella professione, per comprendere che il Vaticano non è la Chiesa e che la
Chiesa è molto di più di quello che pensiamo. È stata la grande occasione per
costruire un nuovo modo di raccontare la
Chiesa, che non fosse adulatore né contro, ma che fosse semplicemente vero.
Abbiamo avuto gli adulatori di Benedetto
XVI, abbiamo avuto i nemici. Per il vero sembra ci sia ancora da lavorare.
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