La notizia, lo scorso 30 gennaio, dell’assoluzione del Cardinale Philippe
Barbarin dall’accusa di
aver coperto degli abusi in Francia non ha fatto sì che il cardinale
recedesse dalla sua idea di rimettere il suo mandato di arcivescovo di Lione a
Papa Francesco. E viene facile
comprendere il perché.
Il Cardinale Barbarin era già stato assolto dagli stessi fatti nel 2016,
e il processo era stato re-istituito perché in Francia esiste l’istituzione
della “citazione diretta”. La condanna a sei anni, sospesa in primo grado, aveva indignato l’opinione pubblica
francese, e subito si era attivata la gogna mediatica che aveva fatto del
Cardinale Barbarin un colpevole. E
non era bastato che Papa Francesco
rifiutasse le sue dimissioni, spiegando poi in una conferenza stampa in
aereo che non le poteva accettare in coscienza, perché c’è sempre la presunzione
di innocenza.
Anche a sentenza di
assoluzione emessa, Massimo Faggioli
commentava che “l’assoluzione in tribunale non può ribaltare o anche completare
la sentenza di colpevolezza già emessa
dall’opinione pubblica, che è quella che conta davvero per la fiducia nella
Chiesa cattolica”.
Ed è proprio questo il tema,
che accomuna paurosamente i casi del Cardinale
Barbarin e quello del Cardinale George Pell in Australia, quest’ultimo in
carcere per una sentenza di colpevolezza di abusi che, come ha stabilito anche
il reporter Andrew Bolt di Sky News Australia (non certo un pro – Chiesa) non ha per niente ragione di esistere.
Ci si trova così di fronte a una dittatura
dell’opinione pubblica che è nemica della verità, e che non viene nemmeno contrastata dai mezzi di
comunicazione istituzionale della Chiesa. Ci si sarebbero aspettate
ricostruzioni o editoriali puntuti per andare a contrastare gli attacchi mediatici, ma ci si nasconde
piuttosto dietro l’idea dell’ascolto alle vittime.
Il rischio di una character
assassination
Una dichiarazione della Sala Stampa della Santa Sede diffusa
successivamente alle prime dichiarazioni del Cardinale Barbarin dopo l’assoluzione stabiliva semplicemente che “la
Santa Sede ha appreso la notizia della sentenza della Corte d’Appello
di Lione nei confronti del Cardinale Philippe Barbarin e della decisione
di Sua Eminenza di rimettere nuovamente il suo mandato nelle mani di Papa
Francesco", e che il Papa
avrebbe preso una decisione "a tempo debito".
Anche le reazioni alla condanna
del Cardinale Pell erano state
tiepide. Tra i vescovi australiani, in generale, tutti avevano fatto riferimento al dramma delle vittime,
all’impegno che la Chiesa australiana ha messo e metterà nell’aiutarle. L’arcivescovo Anthony Fischer di Sydney era stato più coraggioso, e aveva sottolineato che il verdetto è
arrivato con una votazione di 2 contro 1.
La questione non è di
poco conto. Dopo il dramma e lo scandalo degli abusi sessuali sul clero, la
Chiesa ha dovuto e voluto cominciare a
fare pulizia e a rimettere mano alle sue procedure.
Come ha più volte riconosciuto anche Papa Francesco, è stato lo straordinario lavoro del Cardinale
Joseph Ratzinger prima e di Benedetto XVI poi a mettere su quella
“cornice” legale che è servita anche al summit sugli abusi voluto da Papa
Francesco lo scorso febbraio. Perché la
Chiesa non partiva da zero sulla lotta agli abusi. Anzi, era probabilmente
l’unica istituzione che aveva davvero affrontato il fenomeno.
Questo non toglie che
ci siano sempre casi che vengono alla luce e che un solo caso è anche troppo.
La recente vicenda dell’ex cardinale
Theodore McCarrick, coperto e mai sanzionato realmente, racconta di un
cancro difficile da estirpare.
Va anche considerata, però, la questione opposta. Ovvero che
le accuse alla Chiesa Cattolica siano parte di una “character assassination”, un mettere la Chiesa sotto attacco e
minarne la credibilità. È successo che le diocesi abbiano preferito pagare
risarcimenti piuttosto che andare a
processo per evitare lo scandalo. Ed è successo che poi i sacerdoti
accusati di abuso, sospesi dalle loro funzioni sacerdotali, siano stati trovati
innocenti e non abbiano più potuto tornare nelle diocesi da dove erano venuti.
Ogni caso va quindi
delicatamente ponderato. L’attenzione alle vittime è fondamentale. Allo
stesso tempo, c’è una istituzione da difendere, perché attaccata su più fronti.
Per farla breve, i casi dei Cardinali Pell e Barbarin non riguardano solo i casi dei cardinali Pell e Barbarin. Riguardano tutta la
Chiesa.
Cosa non si è raccontato di
loro? Cosa è mancato alla comunicazione della Chiesa? Sicuramente un po’ di
coraggio.
Il caso Barbarin
La storia del Cardinale Barbarin comincia nel 2014,
quando Alexandre Hesez raccontò degli abusi su minori di Bernard Preynat, avvenuti negli anni Settanta e Ottanta,
denunciando anche l’inazione del Cardinale
Barbarin, colpevole, a detta di testimoni che erano anche vittime, di non
aver denunciato l’abusatore alla giustizia nonostante fosse venuto a conoscenza
dei fatti nel frattempo. Per essere chiari: gli abusi avvengono negli Anni Settanta e Ottanta, Barbarin diventa arcivescovo di Lione nel
2002.
Nel 2016, la magistratura
stabilisce che Barbarin non ha mai ostacolato la giustizia e, se anche avesse
saputo qualcosa prima del 2014, tutto sarebbe prescritto. Questione chiusa?
Nemmeno per sogno. Perché in Francia esiste la “citazione diretta”
che consente di portare un accusato direttamente a processo. Così, nel 2017, altre vittime di Preynat, che dal 2015
è stato dimesso dallo stato clericale, denunciano direttamente il Cardinale
attraverso l’associazione francese “La parole Liberée”. La denuncia non
riguarda solo il Cardinale Barbarin,
ma anche altre sei persone, incluso il Cardinale
Luis Ladaria Ferrer, prefetto della Congregazione della Dottrina della
Fede, che poi non è stato coinvolto nel processo per il rifiuto nel tribunale
vaticano.
E la corte penale è arrivata
a conclusioni diverse, sottolineando in prima istanza che “pur avendo la
possibilità di avere accesso pieno a tutte le informazioni e di analizzarle e
comunicarle in maniera utile, Philippe
Barbarin ha fatto la scelta cosciente, allo scopo di preservare
l’istituzione cui lui appartiene, di non trasmetterle alla giustizia”.
Si è creato un precedente,
che rimarca un obbligo di denuncia, mentre gli stessi avvocati di Barbarin mettevano in luce la pressione
dei media in cui aveva luogo il processo, e il pericolo che quello diventasse
“un processo show”, spinto anche da documentari, un film, tutti orientati a
mostrare il silenzio del Cardinale Barbarin.
Un problema che non riguarda solo la Chiesa cattolica,
ma tutte le istituzioni che si potrebbero trovare in situazioni del genere,
mentre si è creato in Francia un dibattito molto forte: da una parte, c’è la
convinzione che le procedure civili siano un male necessario per purificare la
Chiesa dalla vergogna degli abusi, dall’altra c’è la condanna alla caccia alle
streghe che avrebbe fatto del Cardinale
Barbarin il capro espiatorio di quanti cercano di screditare gli insegnamenti
della Chiesa.
Il caso Pell
Accuse ugualmente
inconsistenti sono state presentate
contro il Cardinale Pell. Questi è stato condannato a sei anni di
prigione per molestie sessuali su due ragazzi di tredici anni. L’intero impianto accusatorio del processo si basa
sulla testimonianza di uno di questi chierichetti, ora adulto. L’altro è
morto, ma prima di morire ha confessato alla madre che le accuse contro il cardinale erano false. Non ci sono
altri testimoni che non la presunta vittima. Eppure, sulla base di questa
testimonianza, si è arrivati in Australia
ad una condanna di sei anni di prigione per il Cardinale, che la sta già
scontando nonostante l’appello sia in corso.
La sentenza, come
succede nel sistema anglosassone, è stata confermata nel primo grado di
appello da una giuria composta da tre giudici. Due sono stati a favore della
colpevolezza, uno della innocenza. Ma la
nota esplicativa che questo ultimo giudice ha emanato per spiegare la sua
decisione è lunga 200 pagine, e mette in luce tutti i limiti
dell’investigazione.
C’è voluto un giornalista molto conosciuto, eppure non
credente, per rompere il velo del silenzio che circonda il processo al Cardinale George Pell in Australia e
mettere in luce tutte le contraddizioni della condanna. Andrew Bolt, in una puntata del suo Bolt Report,
è andato a ripercorrere passo dopo passo i percorsi delle presunte vittime, ha
riletto le testimonianze e le carte processuali, ed è arrivato ad una
conclusione netta: “Non solo è improbabile che il Cardinale Pell abbia commesso il crimine, è proprio impossibile”.
In realtà , “The Bolt
Report” non è importante solo perché è una investigazione giornalistica seria.
È importante perché mette in luce in che modo l’opinione pubblica può
influenzare i processi.
Andando a riguardare i percorsi, filmandoli e
cronometrandoli, Andrew Bolt dimostra che era impossibile per il Cardinale Pell praticare ogni tipo di
molestia sessuale, semplicemente perché il cardinale non poteva essere nella
stessa stanza dei due ragazzi: non ce l’avrebbe fatta con i tempi.
Ma Andrew Bolt era
andato oltre. Aveva messo in luce come il giudizio sul cardinale Pell possa essere offuscato da pregiudizi. Dopo aver
spiegato nei dettagli l’impossibilità per il Cardinale Pell di commettere il reato, Bolt dice: “Ora potreste
rispondere: come è possibile che sia così semplice, e che i giudici non se ne siano
accorti, e che invece lei, un giornalista se ne sia accorto? È davvero
semplice, e questo è lo scandalo”.
Bolt si era anche lamentato che
ci fossero stati “degli attivisti che abbiano cercato di punire Sky quando io
sottolineo i problemi incredibili di questa condanna straordinaria del
cardinale Pell. Ma, dannazione! La
giustizia deve contare qualcosa in questo Paese! Dobbiamo protestare,
ciascuno di noi, in questo Paese, quando un uomo o una donna sono messi in
galera per un crimine che non possono aver compiuto. Pensate a come si deve
sentire il cardinale Pell, nella sua cella, coperto di vergogna. Ma ricordate:
se foste accusati ingiustamente e condannati ingiustamente, sareste contenti se ci fosse qualcuno che vi difende contro la folla”.
Quello che ha fatto la Santa Sede
C’è da dire che la Santa Sede
ha mostrato di difendere la presunzione di innocenza sia del Cardinale Pell e il Cardinale Barbarin,
perlomeno con le decisioni di governo.
Il Cardinale Pell
è uscito dal Consiglio dei Cardinali per
limiti di età, come i cardinali Errazuriz e Mosengwo Pasinya, ma è rimasto formalmente all guida della
Segreteria per l’Economia fino alla fine del processo, nonostante il suo
mandato fosse già scaduto. Il suo decadimento da prefetto è stato comunicato
solo dopo la prima sentenza di colpevolezza, per mostrare che i due fatti non
erano collegati.
Lo stesso è stato per il Cardinale Barbarin. Le dimissioni che il porporato aveva deciso di presentare
immediatamente non erano state accettate da papa Francesco. L’appello
del processo potrebbe aver luogo in autunno e nell’attesa, il cardinale, pur
continuando a godere della presunzione d’innocenza, aveva sentito di non poter
sostenere la responsabilità della guida dell’arcidiocesi. Per tre mesi, la
gestione corrente della diocesi era stata gestita da padre Yves Baumgarten,
vicario generale dell’arcidiocesi, ma questa soluzione era parsa fin
dall’inizio come una transizione destinata a chiudersi.
Papa Francesco, però,
non ha nominato un nuovo arcivescovo, ma ha piuttosto scelto il vescovo Michel
Dubost, 77 anni, emerito di Ervy-Corbeille-Essonnes, come amministratore
apostolico sede plena et ad nutum Sanctae Sedisper l’arcidiocesi,
storico polo di diffusione del cristianesimo in Francia. Monsignor Dubost assumerà
le responsabilità di guida e gestione. Ma Barbarin
è rimasto ufficialmente l’arcivescovo di Lione e primate delle Gallie.
Sono tutte azioni tese a garantire la presunzione di
innocenza. E una linea guida molto chiara si trova nel discorso che Papa
Francesco ha tenuto al termine del summit sugli abusi in Vaticano.
Da una parte, Papa Francesco ha fortemente difeso e
sostenuto le vittime. “L’obiettivo primario di qualsiasi misura è quello di proteggere i piccoli e impedire che cadano
vittime di qualsiasi abuso psicologico e fisico. Occorre dunque cambiare
mentalità per combattere l’atteggiamento difensivo-reattivo a salvaguardia
dell’Istituzione, a beneficio di una ricerca sincera e decisa del bene della
comunità, dando priorità alle vittime di abusi in tutti i sensi”.
Dall’altra parte, Papa Francesco non aveva negato le pressioni mediatiche, sottolineando che
“è giunta l’ora di trovare il giusto equilibrio
di tutti i valori in gioco e dare direttive uniformi per la Chiesa, evitando i
due estremi di un giustizialismo, provocato dal senso di colpa per
gli errori passati e dalla pressione del mondo mediatico, e di una autodifesa che
non affronta le cause e le conseguenze di questi gravi delitti”.
Una dittatura dell’opinione pubblica?
L’approccio sul caso del Cardinale Pell, quello sul Cardinale
Barbarin, persino quello forse troppo garantista all’inizio del caso Barros
che ha generato una ondata di scandali in Cile, vanno letti proprio da questo
punto di vista.
Eppure, l’innocenza di Barbarin è stata gestita in modo tiepido
dalla comunicazione vaticana, mentre sembra dimenticata la situazione del Cardinale Pell, ora trasferito in un
carcere di massima sicurezza.
Nel frattempo, è stata
pure posticipata la beatificazione dell’arcivescovo Fulton Sheen, il popolare telepredicatore ammirato al Concilio
anche da Ratzinger. La beatificazione
era prevista a Peoria, in Illinois (USA) 21 dicembre, ed è stata
rinviata a data da destinarsi, perché – si leggeva in una nota della Conferenza
Episcopale degli Stati Uniti – “nel clima corrente è importante che i fedeli conoscano che non
c’è mai stato, né c’è adesso, alcuna accusa contro Sheen che
riguardi l’abuso di un minore. In nessun momento la sua vita di virtù è stata
mai messa in discussione”.
La beatificazione aveva però avuto l’ok di Papa Francesco, e
ovviamente per arrivare ad una decisione del genere si devono valutare tutte i
dettagli della vita. Quando il vescovo
Salvatore Matano di Rochester e l’arcivescovo Christophe Pierre, nunzio
apostolico negli Stati Uniti, avevano inviato alla Congregazione delle Cause
dei Santi una copia di documenti riguardo due sacerdoti accusati di abusi al
tempo in cui Fulton Sheen era vescovo della diocesi, ovvero
dal 1966 al 1969, la Congregazione per le Cause dei Santi aveva
subito istituito una commissione.
Nel primo caso – era
stato evidenziato - il vescovo Sheen abbia inviato il sacerdote accusato a
seguire una terapia psichiatrica fuori dalla diocesi, e che poi questi ha
abbandonato il ministero sacerdotale dopo che lo stesso Sheen aveva
rifiutato di dargli un nuovo incarico in diocesi.
Nel secondo caso,
il sacerdote era già stato allontanato dal predecessore del
venerabile ed era tornato in diocesi, dove Sheen aveva sempre
rifiutato di affidargli un incarico. Autonomamente, questo sacerdote aveva
deciso di celebrare la Messa per le Suore del convento della parrocchia dei
propri genitori, dove lui abitava. Solo nel 1971, due anni dopo, dunque, che Sheen si
era dimesso da vescovo di Rochester, questo sacerdote aveva avuto incarico in
una parrocchia.
Nonostante la totale
correttezza manifestata da Sheen, la
beatificazione è stata posticipata.
Ma tale è la forza della dittatura dell’opinione pubblica.
Come funziona il sistema e quale è la risposta da dare
Una opinione pubblica che si
fonda anche su accuse false, come quelle di Marek Lisinski, presunta
vittima di abusi e presidente della Fondazione Polacca “Non abbiate paura”,
che il 20 gennaio, alla vigilia summit anti abusi in Vaticano, ha presentato un
rapporto falso sulle violazioni della legge da parte dei vescovi nel
contesto dei casi di abusi.
Lisinski era arrivato,
con grande clamore mediatico, ad
incontrare Papa Francesco al termine di una udienza generale, insieme
all’onorevole Joanna Scheuring-Wielgus membro del partito
liberal-libertino “Adesso!”, conosciuta per le sue prese di posizione contro la
Chiesa, e Agata Diduszko-Zyglewska, una femminista militante legata al
movimento dell’estrema sinistra radicale "Critica Politica",
organizzatrice delle Giornate dell’Ateismo, che si batte per eliminare l’insegnamento della religione nelle scuole.
Ma allora non si poteva prevedere che delle inchieste
giornalistiche – una di un giornalista, Sebastian
Karczewski, l’altra del giornale liberale e dichiaratamente ostile alla
Chiesa cattolica “Gazeta Wyborcza” -
avrebbero svelato che Lisinski, che è stato presentato al Papa come vittima di
un prete pedofilo, ma di fatto nasconde una storia diversa. Si è fatto prestare
dei soldi da un sacerdote, Zdzisław Witkowski, non voleva restituire il debito e invece ha accusato il prete di essere
stato molestato da lui 30 anni prima.
I casi Pell e Barbarin, il caso Lisinki e molti altri sono
tutti casi in cui i media danno forma ad una
opinione pubblica che va poi a toccare anche la libertà di giudizio dei
giudici.
Sono casi che sarebbero da stigmatizzare. Colpisce, infatti, che quando queste accuse si rivelano false, o senza prove, tutti tacciano. Perché è vero che un solo caso di abusi è già una vergogna totale, ma è anche vero che è uno scandalo lasciare un cardinale innocente in balia della caccia alle streghe perché c’è bisogno di un capro espiatorio importante, lasciando che lo scandalo si consumi di nascosto, nel silenzio di tutti e purtroppo anche dei confratelli porporati e vescovi e dai loro organi mediatici, tutti spaventati dalle aggressioni mediatiche che potrebbero subire per il fatto stesso di osare eccepire sui modi e la superficialità con cui si è giunti all' incriminazione e alla condanna, spesso non definitiva.
La risposta della
comunicazione della Chiesa sembra però non andare a stigmatizzare questo
problema. C’è l’idea di essere rassegnati a non poter avere mai un peso
nell’opinione pubblica, a non poter mai far valere la verità. E si prendono
provvedimenti che a volte appaiono più populisti che reali. Come quello
dell’abolizione del segreto
pontificio per i reati di abuso sui minori.
Un provvedimento certo forte, che – aveva sottolineato
l’arcivescovo Charles J. Scicluna – “la vittima non aveva l’opportunità di conoscere
la sentenza che faceva seguito alla sua denuncia, perché c’era il segreto
pontificio” e con il provvedimento
viene salvaguardata la comunità.
Ma il provvedimento ha anche
fatto storcere il naso ad avvocati che in tutto il mondo si trovano a fare i
conti con le accuse di abuso, vere e soprattutto presunte, contro vescovi e
sacerdoti.
Il segreto pontificio è in fatti
un principio di organizzazione interna, e tutto ciò che ricade sotto “segreto
pontificio” può essere rivelato solo alle autorità competenti secondo la legge
canonica, che poi devono decidere su un corso di azione.
È il Secreta Continere di Paolo VI a regolare il segreto
pontificio, che riguarda anche “denunce extragiudiziarie di crimini contro la
fede e la morale o contro il sacramento della penitenza, mentre si salvaguarda
il diritto della persona denunciata di essere informata della denuncia, se
ciò fosse necessario per la sua difesa. Il nome del denunciante sarà lecito
farlo conoscere solo quando all’autorità sarà parso opportuno che il denunciato
e il denunciante compaiano insieme”.
Quindi, erano legati al segreto
pontificio solo quelli che avevano ricevuto l’informazione in un incarico
ufficiale di Chiesa, mentre le vittime o i denuncianti non ne erano
vincolati. Lo scopo del segreto pontificio era di garantire che le decisioni
sono fossero prese da coloro cui era stata data facoltà da legge ecclesiastica,
ovvero l’autorità competente, e questo proprio in modo di tutelare vittime e
denunciati, per evitare anarchia, agende e calcoli personali nei processi.
Le linee guida e le istruzioni alle
autorità competenti su come svolgere questi processi si trovano nel motu
proprio “La tutela dei minori”, nella legge vaticana sulla protezione dei
minori e delle persone vulnerabili e sul motu proprio Vos Estis Lux Mundi, tutti usciti nel 2019 sotto Papa Francesco
e a seguito del summit anti abusi. Sono documenti che non contraddicono il
segreto pontificio, ma piuttosto forniscono istruzioni e direzioni su come
gestire l’informazione che possa cadere sotto segreto pontificio.
Con l’istruzione “Sulla
riservatezza delle cause” non cambia in fondo molto, se non il fatto che il
termine “segreto pontificio” venga rimpiazzata dalla “sicurezza, integrità e
confidenzialità delle informazioni” e della confidenzialità delle informazioni
di ufficio.
Non si comprende però dal testo se il Secreta Continere venga emendato, mentre si includono
temi che sono fuori dal segreto pontificio, mentre altri (alcuni collegati)
restano all’interno del raggio del segreto pontificio, e non si fa chiarezza su
ragioni e conseguenze di questa differenza di trattamento.
E così, si crea
l’impressione (e anche qualcosa di più di questo) che il segreto pontificio
fosse un mezzo per coprire gli abusi, mentre era semplicemente un principio
di organizzazione.
La risposta, dunque, rischia
di creare un danno peggiore dei processi show. Mentre sembra mancare la
voglia di difendere la verità, che presenta anche la necessità di dire
chiaramente le cose come stanno: alcuni processi sono ingiusti, senza
fondamento, con buona pace dell’opinione pubblica.
Una buona risposta di
comunicazione da parte della Chiesa deve essere basata sulla verità. Per
quanto questa possa mettere la Chiesa in una posizione scomoda.
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