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domenica 15 marzo 2020

Quando il giornalismo bussa alla porta con il nome di un signore d’altri tempi

Lo chiamavamo tutti “il Principe”, perché i suoi modi erano davvero aristocratici, di altri tempi. E così è stato che ho chiamato Gino Corigliano fino alla sua morte, nel 2013. Oggi, Gino Corigliano avrebbe compiuto 100 anni, e me lo ha ricordato uno speciale de “La Sicilia” per i 75 anni di vita del quotidiano.


 Di quel quotidiano, Corigliano era l’indubbio motore intellettuale. Io vi arrivai nel 2003, cercando uno stage per l’università in un giornale piccolo, e mi ritrovai, tramite amici di amici, all’interno di questa piccola redazione nella Sala Stampa italiana. Volevo uno stage, ma per il Principe si doveva trattare di una collaborazione, perché dovevo essere pagato per il mio lavoro. E così cominciai, scrivendo di politica, imparando a familiarizzare con il Telpress, che allora stampavamo (sembrano ere geologiche fa), lasciato praticamente solo a me stesso.

Il Principe aveva già 82 anni, ma teneva ancora saldamente in mano le redini della redazione che lui aveva fondato. Non sapevo niente di lui, non sapevo niente del giornale, non sapevo niente di politica, eppure mi ritrovai a imparare tutte le cose un po’ alla volta. Il Principe non mi diceva niente. Correggeva ogni giorno i pezzi, vedeva, rapidissimo con gli occhi, i refusi, e mi dava l’autorizzazione a spedirli a Catania perché fossero stampati. Mai una parola, mai un complimento, mai un rimprovero. Non sapevo se stavo lavorando bene o male. Semplicemente, lavoravo, osservavo, parlavo con le persone.

Quando finì il mio periodo di collaborazione, il Principe mi chiamò e disse semplicemente: “Figlio, qui non abbiamo mai mandato via nessuno. Se vuoi restare…”

Rimasi, ovviamente. E fu l’inizio di una mentorship silenziosa, discreta, che sapeva guardare oltre la mia irruenza giovanile.

Io non sapevo niente del pensiero liberale, non conoscevo nulla di economia, di politica. Sapevo quello che avevo letto, ma quello che leggi non è mai troppo né abbastanza, e serve comunque qualcuno che ti sappia dare una prospettiva, che ti faccia studiare. Poco a poco, scoprì che il Principe era stato fondatore e direttore di “Libera Iniziativa”, una rivista che difendeva il liberalismo economico, era stato collaboratore di “Specchio”, aveva avuto come amici e confidenti personaggi come Indro Montanelli, che aveva anche collaborato con La Sicilia.

Il Principe era uno scopritore di talenti. Una persona che sapeva valorizzare tutti perché con nessuno aveva competizione. Questo lo rendeva un caporedattore straordinario. Aveva l’età di mio nonno, e una agilità mentale straordinaria. Faceva venire in redazione giornali francesi, inglesi, e li leggeva con la stessa avidità con cui leggeva i giornali italiani. Aveva il suo modo di conoscere le persone, di scrutarle.

Sapeva stare al mondo, ma aveva anche la ruvidità del giornalista diretto, senza peli sulla lingua. E questo lo aveva aiutato a guardare le persone con un sano realismo, senza esaltarle, ma senza nemmeno sottovalutarle.

Ascoltandolo parlare, mi si aprì un mondo di dibattito intellettuale – ideologico che oggi non c’è più. Veniva da un milieu colto, antifascista, liberale, e si era naturalmente scontrato con tutto il pensiero socialista e comunista, era stato parte del dibattito che aveva contrapposto i liberali ai democristiani, aveva frequentato i salotti e ne era rimasto immune.

Da lui si imparava prima di tutto a stare al mondo, a comprendere cosa fosse la grazia e a perdere l’irruenza della gioventù e a comprendere le pause, i necessari linguaggi con i quali approcciarsi alle persone. Poi, ma solo poi, si imparava il resto.

Non ti diceva come scrivere un pezzo, non interveniva mai sullo stile. Non lo faceva nemmeno con me. Ma, se mi vedeva carente in qualche concetto, faceva in modo di assegnarmi un pezzo che mi permettesse di approfondirlo.

Lo fece soprattutto quando decise che io avrei dovuto scrivere ogni giorno un piccolo fondo a pagina 2 di politica. Ero particolarmente imbarazzato, il commento politico non era il mio forte, stavo imparando. Ma lui non si curava di questi dubbi. Disse solo: “Tu sei un giovane che legge, e questa è una merce rara. Imparerai”.
Il punto è che il Principe non si metteva insegnare. Insegnava facendo. Le domande che poneva ti facevano capire che non esisteva un argomento banale, che tutto aveva bisogno di una domanda.

Un giorno mi chiamò a fianco a sé e mi chiese: “Mi devi spiegare cosa sia questo Harry Potter. Perché vedo che questo libro è primo in classifica di vendita in Francia. E ci deve essere un motivo se un libro inglese è primo nelle vendite francesi…”

Dalla politica cominciai a lavorare sui temi di bioetica, e poi successe che mi trovai a sperimentare in prima persona l’agonia di Giovanni Paolo II. Dissi al Principe che mi sarebbe piaciuto di scrivere di Vaticano, da cattolico, perché vedevo che in molti forse non coglievano l’evento spirituale del tema. Lui non disse di no, incoraggiò la redazione a Catania a farmelo fare.

Qualche giorno dopo la morte di Giovanni Paolo II, mi prese da parte e mi disse: “Figlio, tu hai scelto di scrivere di Vaticano, e fai bene. Il cattolicesimo è una religione che sta diventando minoranza, ed è quando si diventa minoranza che si tirano fuori gli artigli. Avrai di che scrivere”.

Tutto, poi, venne fuori naturalmente. Mi raccomandò ad Arcangelo Paglialunga, che era suo amico da tempo immemorabile e che era conosciuto in Sala Stampa italiana con il soprannome di “Santità” per la sua bontà e religiosità. Mi presentò a Benny Lai, che è diventato il mio mentore vaticano, e che mi ha insegnato i rudimenti di quello che faccio oggi.

Erano, tutti loro, gentiluomini di altri tempi. Giornalisti abituati a insegnare, e con il gusto di farlo ma senza retorica. L’arte retorica la lasciavano nei loro scritti, belli, asciutti, senza fronzoli, eppure densi di riferimenti. Non avevano la pretesa di insegnare niente, eppure lo facevano, perché sapevano donare. Non volevano creare una scuola, eppure la loro era proprio una scuola, una palestra di vita.

Devo tutto questo, al Principe. Devo la possibilità di fare un mestiere, la fiducia che mi è stata accordata, la consapevolezza che uno la fiducia se la deve meritare. Devo straordinari compagni di avventura, maestri come Giuseppe Di Fazio e Carlo Anastasio a La Sicilia, i già citati Benny Lai, Arcangelo Paglialunga. E tutti loro mi hanno costruito, senza mai avere la pretesa di fare i maestri.

Quando penso al Principe, penso, appunto, ad un gentiluomo di altri tempi, prima che a un giornalista. Un gentiluomo che aveva il dono della curiosità, e la grazia della conversazione. Ogni tanto, mi sembra di sentire la sua voce, con le sue domande mai banali.

Cento anni fa nasceva il Principe, parte importante di una generazione di giornalisti che non ci sono più e di un modo di fare giornalismo che non c’è più. Un giornalismo colto, attento al dettaglio, ideologico ma non per questo ideologizzato.  Un giornalismo senza nemici, ma con avversari. Un giornalismo pieno di stile, che sapeva godere dell’arte del commento e del retroscena mai banale. Un giornalismo di cui oggi si sente molto la mancanza.  

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