Questo è il secondo di una serie di due mie riflessioni sull’informazione vaticana e sull’informazione religiosa. Si tratta di una mia lettura personale della situazione, che potrebbe anche avere qualche forzatura linguistica, ma che credo sia ben sostenuta dall’analisi. Si tratta, soprattutto, della volontà di aprire un confronto, e di mettere in luce alcuni temi che mi sembra siano invece non considerati. Qui la prima parte.
Come si comporta l’informazione religiosa di fronte all’informazione vaticana? Per informazione religiosa, qui, non si intendono solo i media specializzati nell’informazione religiosa, ma tutti i media nel momento in cui si occupano di religione. E questo perché l’interesse per il dato religioso ha permeato tutti i media, nessuno escluso. In più, con l’elezione di Papa Francesco c’è stato anche un ulteriore interesse dei media secolari, addirittura con esperimenti come il portale Crux che è nato nel Boston Globe prima di avere una vita propria, ma anche con La Croix International, il servizio in inglese del quotidiano cattolico francese La Croix, mentre in Italia è rimasto pionieristico nel genere il portale Vatican Insider.
Questo per dire che l’informazione religiosa non ha solo una sua dignità, ma anche un suo peso nell’economia dei grandi media. Non è solo l’attenzione che si è creata intorno a Papa Francesco, che pure ha influito. È, piuttosto, parte di un meccanismo di polarizzazione dei media che non ha lasciato indifferente la religione. Anzi, la religione ne è stata colpita da tempo, in maniera sempre più esponenziale.
Risalgono ai tempi del Concilio Vaticano II le eterne diatribe tra conservatori e progressisti, ognuno di loro con i suoi media di riferimento che poi hanno continuato a portare avanti il dibattito in modi diversi. La campagna stampa contro l’Humanae Vitae orchestrata già prima della pubblicazione, e denunciata anni dopo anche da membri delle commissioni preparatorie come il b, è un esempio lampante di questa polarizzazione.
Ma non solo. Nella sua biografia, Giancarlo Zizola racconta chiaramente di come lui andava fino in tipografia a fare le ultime correzioni ai suoi articoli sulla base delle indicazioni delle sue fonti, e questo anche contro il parere contrario dei direttori.
Si era creato, durante il Concilio Vaticano II, un meccanismo di prossimità con i padri conciliari. Si incontravano con i giornalisti, c’erano cenacoli, c’era voglia di rinnovare la Chiesa. Ma, ed è questa la cosa interessante, molte volte la voglia di rinnovamento sembrava tramutarsi in una sorta di utopia secolare. A rileggere i racconti di allora, era quasi mondana, per usare un termine caro a Papa Francesco. Mondana anche nell’opzione preferenziale per i poveri, e probabilmente per questo di grande successo. Aveva una narrativa, un suo sentirsi antagonista, una forza narrativa che derivava anche dagli accadimenti del mondo.
Questo peccato originale della polarizzazione è rimasto, e
si è poi via via mescolato nella sempre maggiore pervasività dei media. Si sono moltiplicate le possibilità di
scrivere, e così la situazione antagonista del Concilio è diventata come uno
specchio rotto: tanti piccoli pezzi, parcellizzati, con la stessa anima, ma
con dimensioni differenti.
Oggi, la polarizzazione dell’informazione si è legata a vari fattori. L’influsso dei social media; la necessità di avere lettori; la voglia anche di legarsi ad una certa narrativa costruita intorno al Papa, che in molti interpretano come fedeltà alla Chiesa, ma che rischia piuttosto di essere controproducente.
Con il tempo, l’informazione religiosa sembra aver sempre più perso la forza dei fatti. Dato che c’è sempre più spazio per raccontare, i fatti e le analisi hanno lasciato il posto alle ideologie, e le ideologie sono facile a piegarsi alle situazioni contingenti. È un problema generale, non solo del giornalismo religioso.
Poi c’è il problema delle fonti di informazione. Il giornalista dovrebbe essere un mediatore con la realtà, ma è diventato sempre più dipendente dalle fonti. C’è da una parte la fissazione verso l’oggettività totale, impossibile. Dato che si sa che è impossibile, si mettono dei paletti per darsi l’illusione dell’oggettività. E uno di questi paletti è appunto la necessità di riferirsi a delle fonti, palesi o anonime, che permettano al giornalista di togliersi la responsabilità di un giudizio o una interpretazione della realtà.
Ma le fonti hanno un interesse, e ancora maggiormente hanno un interesse quando si parla di informazione religiosa, e ancora di più lo hanno quando si tratta di informazione vaticana. Perché l’informazione vaticana è fatta di naturale riservatezza, che nasce con lo scopo di preservare l’istituzione anche nel mezzo degli scandali. Dunque, chi passa le informazioni ha una agenda. Vuole spingere qualcuno a fare qualcosa. E l’agenda non è mai così nobile come si vuole far pensare.
Dal caso Watergate in poi, le fonti sono diventate i veri giornalisti. Non è la bravura dei giornalisti nell’investigare, quanto la bravura delle fonti nel fornire piste che possano portare alle conclusioni che vogliono loro. Non ammetterlo significherebbe fare un cattivo servizio al giornalismo.
Le fonti sfociano spesso in pettegolezzo, ed il pettegolezzo poi va a nutrire anche le decisioni importanti. Questa consapevolezza, in Vaticano, non ha portato solo alla stagione dei leaks, ma anche alla stagione dei libri antagonisti negli Anni Novanta, come “Via col vento in Vaticano” o “Fumo di Satana in Vaticano”, libri che appunto colpivano non solo per l’accuratezza delle informazioni, ma per il modo in cui queste informazioni venivano delineate.
Oggi abbiamo la stagione dei leaks, e dei cosiddetti vatileaks. Questi, però, non passano più nemmeno dalle informazioni vaticane, ma direttamente attraverso i cronisti di giudiziaria, segno che le fonti non sono solo vaticane, ma hanno anche altri interessi. Comprendere la qualità della fonte aiuta a capire l’interesse della fonte, ma quale mezzo lo fa quando si parla di informazione religiosa?
Non lo fanno i media cattolici, e non lo fanno i media secolari. Per i secondi, la notizia è una notizia, e se c’è uno scandalo vale la pena cavalcare l’onda dello scandalo. Lo hanno sempre fatto, e sempre lo faranno. È stata presa l’affermazione di Montanelli che “l’unico padrone del giornalista è il lettore” ed è stata portata avanti attraverso un falso sillogismo che in realtà porta solo ad una idea di vendita. Oggi il padrone del giornalista è il click, perché se fosse il lettore ci vorrebbe anche l’onestà intellettuale di evitare certi toni nel raccontare le cose e persino di dare alle cose un giusto peso invece di drammatizzarle per fare notizia.
Ma per i media cattolici, la questione merita una riflessione ulteriore. C’erano, una volta, grandi riviste cattoliche, che fornivano un punto di vista della realtà più ampio. Oggi, queste riviste o sono scomparse o sono fortemente ridimensionate. Il Regno si è ripensata, e resta ad oggi l’unica rivista italiana che presenta anche i documenti pontifici, e che prova a portare avanti un dibattito. Quindi c’è Tempi, anche quella passata da vicissitudini di proprietà, e che ha però un punto di vista più politico. È scomparsa Trenta Giorni, mentre scompaiono anche riviste diocesane di grande impatto, come Vita Nuova.
Questo in Italia. Se si guarda il panorama internazionale, la situazione sembra più confortante. Negli Stati Uniti ci sono ancora National Catholic Register e National Catholic Reporter che si battagliano su fronti opposti, in Francia c’è Famille Chretienne, in Lituania Bernardiniai, e in molti altri Paesi sono i portali diocesani a fornire l’informazione giornalistica.
Resta, però, il problema dell’identità. O questi media hanno una identità marcata, rischiando di polarizzarsi, o piuttosto hanno una identità ufficiale, rischiando di istituzionalizzarsi. Non hanno il problema delle fonti, perché lo scoop non è il loro scopo di esistere, ma hanno il problema di doversi mantenere sostenibili, e per farlo devono anche cercare di intercettare un certo pubblico.
Davvero non esiste un pubblico che possa volere una informazione critica ma non criticante, identitaria ma non identificante, ideale ma non ideologica? Davvero è necessario prendere delle posizioni nette, e così anche cibare i lettori dei loro stessi pregiudizi? Perché, va da sé, il lettore legge e approva solo quando vede le sue paure e i suoi interessi rappresentati. Ma è davvero quella l’audience cui si rivolge un mondo editoriale cattolico?
Se si guarda il panorama dell’informazione, con le dovute eccezioni, assistiamo proprio ad una polarizzazione ideologica, che risponde in tutti i casi alla pancia dei lettori ed a dei pregiudizi ideologici.
La divisione tra progressisti e conservatori si divarica ulteriormente. Con una differenza. La parte progressista fa corpo. Ha una base di retropensiero socialista, che, in fondo, annulla le differenze. Al di là dei diversi toni polemici, quelli che si trovano nel lato cosiddetto dei progressisti mantengono sempre una comunanza di intenti e uno spirito di corpo. Si difendono tra loro, anche quando le cose sono indifendibili. Ricordano a volte le note di Italo Calvino sul suo viaggio in Russia, quando poi prese coscienza e si distaccò dall’ideologia sovietica. Ecco, Calvino raccontava che persino le file per il pane, dovute alla mancanza di pane, da loro occidentali ideologicamente formati alla scuola del partito venivano interpretate come la possibilità data dal governo alle persone di socializzare. E questo succede un po’ a sinistra, in cui tutto diventa narrativa, e la narrativa serve in qualche modo a piegare la realtà.
Ma la narrativa è il virus che tocca anche la parte cosiddetta conservatrice. Solo che da parte conservatrice ci si arrocca soprattutto su una identità cattolica che anche in quel caso porta a fare corpo con chi la pensa allo stesso modo, ma che poi va a parcellizzarsi in tante piccole realtà. Il cattolico tradizionalista non fa un corpo ideologico, ma fa tanti piccoli corpi ideologici, ognuno convinto di essere più cattolico dell’altro. Nascono così tanti piccoli media dai grandi media, tutti con l’idea di dare una visione diversa dalla realtà, tutti riproponendo in fondo le stesse cose con narrative differenti.
Il trend che si può notare, date tutte queste premesse, è l’attivismo che prende il posto del giornalismo. Si è attivisti nei toni, si è attivisti nel modo in cui si racconta la realtà, si è attivisti nel modo in cui si legge la realtà. I commenti hanno prevalentemente preso il posto delle analisi, le storie sono spesso romanzate, e tutti sono chiamati a dare il proprio punto di vista, autorevole o meno autorevole che sia.
L’attivismo porta ciascuno a pensare di avere più ragione dell’altro, e dunque porta a un certo sobollire di idee all’interno di ogni media. L’avvento di internet garantirebbe un pluralismo, una possibilità anche di rischiare una informazione diversa, più analitica, andando a costruire un nuovo tipo di lettore. È un principio educativo di lungo termine, che in pochi però sentono la volontà di intraprendere.
L’attivismo porta anche ad un altro problema: l’appiattimento ad un parere e ad un parere solo, ed un parere ideologico. Si parte su false premesse, si decide da quale parte stare, si è ciechi di fronte alle possibilità di narrative differenti.
Un esempio, molto chiaro, messo in luce da Giuseppe Rusconi nel suo sito, riguarda il botta e risposta tra gli ambasciatori di Ungheria e Polonia presso la Santa Sede e il quotidiano cattolico italiano Avvenire. Di fronte ad articoli particolarmente duri sull’opposizione di Polonia e Ungheria al bilancio europeo, i due ambasciatori Habsburg e Kotanski avevano scritto che no, quella ricostruzione non era esatta, e scrivevano perché.
Il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, però, di fronte alle rimostranze, rispondeva che “il punto è che non abbiamo inventato noi le parole e i gesti di governo con cui il primo ministro ungherese Viktor Orban propugna, in duro braccio di ferro anche con la stampa non allineata alla sua visione, l’avvento della ‘democrazia illiberale’. E neppure abbiamo inventato gli atti con cui l’attuale governo di Varsavia continua la sua prova di forza nei confronti del potere giudiziario, condizionato sempre più dalla maggioranza politica pro tempore, che è già valsa l’apertura di un grave contenzioso con l’Unione europea”.
Come si vede, è una narrativa che parte da un pregiudizio, che non cita fatti, che non spiega la perentorietà delle affermazioni, e che semplicemente difende un punto di vista quasi senza vedere il punto di vista degli altri.
Se davvero fosse questo il trend dell’informazione religiosa, dobbiamo rassegnarci allora a letture di parte di ogni situazione. Paradossalmente, in una informazione che potrebbe essere maggiormente democratica, ci si trova piuttosto di fronte ad una informazione che solo una élite ben formata può comprendere, perché solo una élite ben formata può districarsi nelle pieghe dell’informazione per trovare una descrizione almeno logica della realtà.
Non aiutano gli accenti attivisti sul pontificato di Papa Francesco, che siano di sostegno o di opposizione. Non aiutano i punti di vista definiti, che però hanno il pregio di essere definiti in partenza. Non aiuta la mancanza di analisi che cerchino anche di andare oltre il pregiudizio.
C’è un convitato di pietra, in tutto questo, ed è l’umiltà epistemologica del giornalista. A volte sembra mancare, ma ci sono esempi di grande onestà intellettuale che andranno valorizzati, sempre.
Questo dovrebbe fare, a mio avviso, il giornalismo cattolico. Andare oltre gli slogan, oltre i pregiudizi, oltre le letture stereotipate della realtà. Superare finalmente la diatriba della polarizzazione tra progressisti e conservatori. Prendere un punto di vista che sia informativo. Raccontare la Chiesa e mettere in luce i problemi senza urlarli. E formare una readership di lettori consapevoli. Magari meno lettori, ma più consapevoli. È una modalità che un po’ sembra perdersi, in questo mondo dominato dalla logica del profitto. Ma che ritengo essere l’unica possibile.
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