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domenica 3 gennaio 2021

Informazione vaticana, la costruzione del consenso il trend per il 2021?

Questo è il primo di una serie di due mie riflessioni sull’informazione vaticana e sull’informazione religiosa. Si tratta di una mia lettura personale della situazione, che potrebbe anche avere qualche forzatura linguistica, ma che credo sia ben sostenuta dall’analisi. Si tratta, soprattutto, della volontà di aprire un confronto, e di mettere in luce alcuni temi che mi sembra siano invece non considerati.

Papa Francesco ha proclamato quest’anno un Anno Speciale per la Famiglia dedicato all’Amoris Laetitia, l’esortazione post-sinodale dei due sinodi della famiglia uscita cinque anni fa. E non è una iniziativa da sottovalutare. Anzi, potrebbe dire molto di come sarà la comunicazione del Vaticano in questo anno che verrà.

L’Amoris Laetitia è stata una esortazione apostolica che ha generato diverse controversie. Il dibattito si è concentrato soprattutto sulla questione dei divorziati risposati e del loro possibile accesso alla comunione. Ma lo stesso Papa Francesco ha più volte affermato che non è quello lo scopo dell’esortazione, ma piuttosto di parlare della famiglia e del senso cristiano della famiglia.

A queste dichiarazioni del Papa - dichiarazioni corrette considerando che la questione del possibile accesso alla comunione per divorziati e risposati si trova solo in una nota dell’esortazione - hanno fatto da contraltare però alcune lettere di Papa Francesco di appoggio a procedure pastorali (come quelle dei vescovi argentini, pubblicata anche sugli Acta Apostolicae Sedis) che, in pratica, andavano ad agire modificando in qualche modo la dottrina.

Quattro cardinali hanno redatto dei dubia inviati direttamente alla Sede Apostolica, su cui non hanno mai avuto risposta. E lo stesso Papa ha deciso di non affrontare mai le controversie direttamente.

La decisione di dedicare un anno all’Amoris Laetitia, però, mostra che si è al passo successivo. Dopo l’anno sulla Laudato Si, si decide di dedicare un anno intero ad un documento che dovrebbe essere “minore”, come una esortazione post-sinodale, invitando tutti a coinvolgersi in varie attività per meglio comprenderla e applicarla.

Da una parte, c’è la volontà di portare avanti i temi dell’Amoris Laetitia. Ma, dall’altra, si vede la necessità di ricostruire una comunione, di fronte ad una divisione. La comunione, però, non viene costruita secondo l’antica via sinodale, che era quella di trovare un punto di incontro. Papa Francesco ha sempre, invece, voluto certificare le crisi, ha chiesto che tutte le proposizioni del documento finale fossero sempre pubblicate, anche quando non raggiungevano il cosiddetto “consenso sinodale” (2 terzi dei consensi), e ha voluto anche che fossero resi noti i voti.

Un esercizio di trasparenza che ha messo in luce le crisi, ma anche i conflitti interni alla Chiesa, e che il Papa non ha voluto dirimere con autorità, ma non ha neanche contribuito in qualche modo a far rientrare. Ora, con un anno dedicato all’esortazione, sembra puntare piuttosto a costruire un consenso.

Per dirla in soldoni: il Papa chiede a tutti di coinvolgersi, fa in modo che tutti siano parte del progetto anche quando non ne sono convinti, e quindi di fatto costringe tutti ad aderire (sebbene a modo loro) a quel progetto, arrivando ad un consenso che non c’era in partenza. È un modo di spezzare ogni possibile resistenza, rendendole nulle di fronte al fatto che è stato il Papa stesso a chiedere l’impegno e che nessuno può dire di no al Papa.

Papa Francesco potrebbe fare così anche per la riforma della Curia, chiamando tutti ad esprimersi sul testo finale in modo che chi abbia qualcosa in contrario da dire si prenda la responsabilità di farlo, prendendosi però anche tutti i rischi.

Per questo ed altri motivi, ritengo che quello della costruzione del consenso sembra sarà il trend della comunicazione vaticana nell’anno che viene. E ci sono stati già segnali nel corso del 2020.

Quali sono gli altri indizi?

La pandemia ha permesso di diradare gli appuntamenti con i giornalisti per le conferenze stampa. Ma già da prima, le conferenza stampa su alcuni grandi temi non venivano più tenute. Per esempio, i rapporti annuali dell’Istituto delle Opere di Religione sono sempre stati pubblicati con una breve nota, di pomeriggio, con la Sala Stampa della Santa Sede chiusa senza conferenza stampa e senza possibilità per i giornalisti di fare domande.

Quest’anno, anche il rapporto dell’Autorità di Informazione Finanziaria (ora Autorità di Sorveglianza e Informazione Finanziaria) è stato pubblicato senza che ci fosse la consueta conferenza stampa di presentazione, e tra l’altro la sua pubblicazione è stata corredata da una serie di annunci che raccontavano del lavoro futuro, ma non entravano nel cuore del rapporto, che riguarda piuttosto ciò che è stato fatto nell’anno passato.

Non solo. Dopo qualche anno, è stato pubblicato il bilancio della Curia. Anche in questo caso, non c’è stata una conferenza stampa, ma piuttosto una intervista istituzionale concessa ai media vaticani da parte di padre Juan Antonio Guerrero Alves, prefetto della Segreteria per l’Economia. Padre Guerrero spiegava, nell’intervista, che la Santa Sede doveva diventare una “casa di vetro”, ma allo stesso tempo non c’era stata conferenza stampa sui bilanci e mancava la pubblicazione del bilancio del governatorato

Altre scelte avrebbero dovuto avere una conferenza stampa. Per esempio, la pubblicazione del Rapporto McCarrick, di cui è stato fornito sotto embargo un solo capitolo, e di cui è stata prontamente data una sintesi che era, sì, un aiuto per chi aveva scadenza editoriali, ma in un certo senso dettava anche un’agenda. O ancora, la decisione di Papa Francesco di trasferire i fondi della Segreteria di Stato all’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Oppure, lo sviluppo della Terza Sezione della Segreteria di Stato, ora meglio strutturata con un segretario e un sottosegretario.

Il solo fatto che le cose di cui sto parlando appaiano come cose specialistiche anche ad un vaticanista che ha appena cominciato il mestiere fa comprendere quanto sia, in qualche modo, necessario aprirsi ai giornalisti, anche rischiando. Non significa che il lavoro dei giornalisti sia sempre buono. Significa, però, che è evidente la decisione di orientare l’opinione pubblica.

Tutto sembra essere chiamato a costruire consenso intorno alle decisioni di Papa Francesco, che, tra l’altro, non ha mai preso un vero e proprio rischio mediatico. Ma, di certo, è stato fortemente presente sui media.

Eletto con un mandato di “cambiare la narrativa” della Chiesa (almeno secondo quando riportato dal Wall Street Journal che aveva conversato con alcuni cardinali in condizione di anonimato), Papa Francesco ha lavorato molto sulla percezione della Chiesa, come in fondo faceva a Buenos Aires.

Oggi, cerca di raggiungere il grande pubblico parlando con la Gazzetta dello Sport (è l’ultima intervista), ma mostra anche attenzione agli ultimi conversando con giornali di strada (come è successo con l’intervista a Scarp’ de Tenis nel 2017), non evita di strizzare l’occhio all’intellighenzia di sinistra continuando ad avere una conversazione con il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari (che di quando in quando pubblica stralci di conversazione, per sua ammissione non necessariamente fedeli, raccontando probabilmente un Papa che esiste soprattutto nelle sue idee).

Quest’anno, sono stati due i libri intervista del Papa (uno con il giornalista Austen Ivereigh, un altro con il fondatore dello Slow Food Carlo Petrini), e diverse le interviste date a media di vario genere, tra cui una all’agenzia italiana ADN Kronos che, tra l’altro, ha cominciato qualche giorno fa a pubblicare articoli fortemente simpatetici con l’operato vaticano riguardo un processo su questioni finanziarie che avrà luogo a Malta.

Tutto, insomma, sembra portare alla volontà di costruire un consenso, contrapponendosi così al flusso di informazioni. C’è un po’ il senso della sindrome da accerchiamento, che si sentiva forte anche nel libro Il Giorno del Giudizio di Andrea Tornielli, oggi direttore nel Dicastero della Comunicazione della Santa Sede, e di Gianni Valente, giornalista per l’agenzia di Propaganda Fide Fides.

Intendiamoci, non che non ci siano attacchi e resistenze al Papa. Ma è il caso anche di allargare lo sguardo, e di comprendere che a volte queste resistenze sono sopravvalutate, che le lobby di cui si parla esistono, sì, ma che non si possono definire nemmeno radicalmente per la loro appartenenza di parte (che in fondo è mutevole a seconda degli interessi), e che l’attacco eventuale al Papa non è un attacco a Papa Francesco, ma in generale un attacco contro la Chiesa. È il Papato, e non il Papa, a dover essere difeso.

La comunicazione vaticana, però, sembra andare sempre più verso una personalizzazione tutta volta ad enfatizzare i gesti del Papa, e sempre meno verso la difesa di una istituzione che ci sarà anche dopo Francesco. Allo stesso tempo, è lodevole lo sforzo di dare voce alle Chiese locali, e di dare notizie che possono toccare la sensibilità della Chiesa: questo si rende evidente in Vatican News e nell’Osservatore Romano.

La decisione, però, di puntare moltissimo sulla costruzione del consenso rischia di rendere la comunicazione vaticana una comunicazione non diversa da quella di qualunque istituzione che non accetta il confronto con i media, e che anzi lo teme. Non c’è, sicuramente, niente da nascondere. Eppure, c’è quell’impressione.

Ed è una impressione che diventa ancora più forte quando si va a notare che documenti e anticipazioni vanno, piuttosto, in direzione di chi non può fare domande, ma può portare avanti un certo tipo di ideologie. Si potrebbe spiegare anche così il fatto che il controllo dell’informazione sulla finanza vaticana, con tutti i recenti scandali veri e presunti di cui si dovrà parlare, sia passato soprattutto attraverso i cronisti di giudiziaria.

L’idea della costruzione del consenso richiede anche di appoggiarsi ad altri sistemi di comunicazioni, a stringere alleanze, a definire strategicamente a chi dare voce. Paradossalmente, con l’idea di difendere la libertà del Papa, ci si può trovare a perdere parte della libertà istituzionale della Chiesa. Più che per una visione, si procede per aggiustamenti, consapevoli che c’era bisogno di gestire meglio la comunicazione, ma arrivando a gestirla senza un piano, e soprattutto con la preoccupazione di difendere il Papa.

Per tutti questi motivi, ho l’impressione che il 2021 si prospetti, per i media vaticani, come un anno per la costruzione del consenso. Sarà da vedere come, invece, i media che fanno informazione religiosa risponderanno a questa strategia. E, soprattutto, quale è la loro strategia.

(1 – continua)

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