Ho cominciato a scrivere sui giornali di carta, con un ritmo di redazione forse non esattamente tradizionale, ma comunque preciso e scandito, e con le pagine che davano la dimensione stessa di quello che si doveva raccontare. Eppure, era già il mondo dei giornali che si dilatava, che cercava storie ed approfondimenti, più che notizie. La mia palestra era La Sicilia, dove mi facevano scrivere persino i fondi politici e mi spronavano a inventare e pensare reportage, inchieste, serie di articoli di grande respiro. A un certo punto, quando ero ancora un giovane vaticanista, mi diedero persino una rubrica, che furbescamente finiva a pagina 42 di un inserto del sabato, ma che c’era, e si chiamava “Stanze vaticane”. Lì raccoglievo e mettevo insieme tutte le informazioni che potevano essere di interesse e che però non potevano andare in pagina come notizie, né come editoriali.
È questo l’approccio che mi sono portato dietro, sia nelle successive esperienze professionali sui giornali di carta, sia poi su korazym.org, e quindi in Catholic News Agency ed ACI Stampa. Con il tempo, ovviamente, le cose sono cambiate, perché è cambiato lo strumento. Il web permette di ampliare lo spettro in maniera praticamente infinita. Non ti dà misure, né pagine, se non le misure che ti dai personalmente. E cambia anche il modo di leggere il web.
Prima, si credeva che sul web andassero solo articoli brevi, quasi radiofonici, perché la gente non aveva l’intenzione di scrollare le pagine, ma voleva vedere tutto lì, e tutto insieme, e subito. Ma questo era dovuto anche al modo in cui il web era strutturato, con il corollario tecnico delle difficoltà e della lentezza di connessione. Poi, questa visione è stata superata, e in più i mezzi tecnici per leggere il web si sono moltiplicati. Oggi un giornale on line lo si legge sul tablet o sul cellulare in metropolitana. Quando ho cominciato a moltiplicare la mia presenza sul web, nemmeno avevo whatsapp sul telefono, e potevo, sì, navigare in internet da mobile, ma ad una lentezza ed una scarsa qualità che mi passava subito la voglia.
Come detto, però, il mondo è cambiato, e sono cambiati anche i giornali online. Il New York Times è arrivato ad unificare le redazioni on line e cartacea, e quest’anno per la prima volta i guadagni web sono stati superiori ai guadagni delle vendite del cartaceo. Tutti i quotidiani importanti si sono dotati di edizioni online, che ampliano con nuove testate per espandere a macchia d’olio la presenza sul web. La carta c’è, resta, ed è fondamentale ed autorevole. Ma è più che altro l’approdo finale, la necessaria stasi e concentrazione dopo la carica informativa.
Nel mezzo di questi cambiamenti, io mi sono trovato a dedicarmi quasi esclusivamente all’informazione religiosa. La domanda che viene da farsi è, allora, cosa significa fare informazione religiosa oggi?
Ecco, io credo che fare informazione religiosa oggi significhi soprattutto essere dei valorizzatori. Quando parlavo della mia esperienza nei giornali di carta, pensavo soprattutto all’idea della selezione delle notizie. Si sceglie cosa va in pagina, e cosa non va in pagina significa che per noi non è importante. C’era uno spazio per il non detto, dato anche dall’autorevolezza delle testate.
Oggi, però, questa selezione delle notizie diventa, secondo me, qualcosa di diverso, e lo è ancora di più quando si parla di informazione religiosa. Non si può non parlare, perché prima o poi un punto di vista andrà fornito al lettore. In un mondo sempre più specializzato ma soprattutto ipertrofico, è facilissimo per un lettore andare a cercare le informazioni su qualunque altra testata online, o persino sulle pagine di blog nemmeno troppo autorevoli.
L’autorevolezza dell’informazione religiosa è data non dalla sua selezione, ma dal modo in cui tratta gli argomenti. Può trattare un tema una volta sola, magari come commento finale, ma lo deve trattare, perché è chiamata a dare risposta ai lettori.
Non solo. L’informazione religiosa oggi non può più solo essere “mediatore” – secondo la felice definizione del giornalista data dal Cardinale Carlo Maria Martini ne Il Lembo del Mantello. Sì, essere mediatori dei fatti è fondamentale, spiegare alle persone cosa succede è il lavoro del giornalista ed è la sua più grande peculiarità oggi, in un mondo in cui chiunque può dare le notizie.
Per chi fa informazione religiosa, però, è necessario un passo in più: valorizzare le notizie.
La religione ha tutto quello che non piace ai media mainstream, perché si crede non piaccia all’audience. Prima di tutto, si parla di un qualcosa di astratto, difficile da rendere concreto. Quando si prova a concretizzarlo, lo si fa soprattutto secondo le categorie politiche. E vengono così fuori gli articoli che banalizzano, in fondo, le cose che succedono e non le riescono a mettere in un contesto più ampio.
Vale, in particolare, per l’informazione sul Vaticano e sulla Chiesa cattolica in generale. Gli scandali, le prese di posizione del Papa, le storie possono essere raccontate da un punto di vista prettamente umano, che, appunto, si nutre di piccole meschinità e lotte intestine tra punti di vista diversi e modi di fare diversi, tra cialtroni e uomini buoni. Ma tutto questo non rende giustizia a un mondo più ampio e tutto da scoprire: al Vaticano nascosto fatto dalle persone che credono davvero nell’istituzione, ma anche ai vescovi che lavorano sul territorio in maniera straordinaria, alla fede dei sacerdoti e dei semplici.
Se guardiamo alla notizia tout court, tante cose non varrebbero nemmeno la pena di essere raccontate. A chi può interessare, ad esempio, un incontro fatto dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione con una delle tanti organizzazioni ecumeniche nel mondo? A chi può interessare la pensione di un sacerdote in un oratorio salesiano sperduto nel mondo, quando questo sacerdote non ha fatto mai niente di realmente memorabile in termini umani?
Ma è in questi casi che chi fa informazione religiosa è chiamato a valorizzare. È chiamato a guardare oltre la notizia, e a scoprire la storia. E poi a spiegare la storia, a metterla insieme in una forma precisa o a racchiuderla in una analisi. Non basta dire, serve raccontare. Non basta raccontare, serve analizzare.
Per fare questo, ovviamente, l’impegno è addirittura doppio. Se la brevità degli articoli non è più un tema né un tabù, il vero problema è essere in grado di scrivere velocemente un articolo basandosi su una notizia e riuscendo giù subito a fare un primo approfondimento. E per questo si deve essere molto specializzati, molto pronti, molto veloci. È un modo nuovo di vivere il giornalismo, diverso, che prevede molti approfondimenti e ritorni e un amore viscerale per le storie che si stanno raccontando. Un amore tale da saperci tornare su e saper mettere tutte le storie in un contesto ben preciso, e poi saper fornire al lettore questo contesto ben preciso.
Conosco le obiezioni. I numeri raccontano che una notizia veloce, secca, breve raccoglie molti più click. Sì, questo è vero. La gente cerca le notizie. Ma è vero anche che tende a cliccare in quei posti che si sono fatti un nome non solo per dare le notizie, ma anche per fornire le prime analisi.
L’altra obiezione è che non tutti i lettori sono specialisti. Vero, ma questo non significa che si debba adeguare il linguaggio. Si deve invece costruire un linguaggio, per educare le persone a cogliere ogni sfumatura, e formare i giovani, soprattutto con la cultura, invece di cercare semplicemente chi è in grado di dare una notizia.
La formazione è necessaria perché, per quanto possa essere significativo, il silenzio alla fine viene sempre preso come una rinuncia a parlare, piuttosto che come una scelta editoriale. E questo nonostante la scelta editoriale sia comunque una scelta legittima e di impatto.
Nel valorizzare, chi fa informazione religiosa deve ricordare che non è sicuramente il solo ad affrontare quella notizia, ma il solo che può dare alla notizia una profondità ancora maggiore. Deve rendersi conto che approfondire e arrivare dopo non è un danno, ma un valore aggiunto. Deve rendersi conto che il giornalismo sull’informazione religiosa deve ricordarsi sempre che il lettore ha bisogno di tutti i punti di vista. E deve essere per questo plurale, capace anche di leggere la realtà al di là delle polarizzazioni.
L’informazione religiosa deve anche mettere da parte la tradizione di essere prima di tutto una informazione vaticana, ma guardare alle Chiese locali, al lavoro diplomatico, al lavoro ecumenico, e guardarvi con occhi nuovi, diversi.
Ci sono dei temi, in particolare, che mi hanno appassionato e che provo giorno dopo giorno a raccontare e valorizzare, nei modi che posso, con le capacità che ho: la diplomazia pontificia, le finanze vaticane, l’ecumenismo e il dialogo interreligioso in generale. Provo a spiegarne le sfaccettature man mano che le apprendo, tornando varie volte indietro sugli argomenti, cercando di abituare le persone al fatto che le cose vanno sempre viste in retrospettiva per comprenderle davvero. Non è semplice, ma necessario. A volte decido di non dare una notizia, soprattutto perché mancano tutti gli elementi. Ma ogni notizia non data prevede un tornarci indietro, fare una analisi approfondita, includere questa analisi in articoli di più ampia prospettiva. Nessuna informazione può andare perduta. Tutto va valorizzato.
Credo sia questa la sfida più grande oggi, per chi si trova a fare informazione religiosa in un mondo che sembra voler mettere da parte la religione. Eppure, c’è fame di informazioni, fame di storie, fame di approfondimenti. E questo al di là dell’audience e di ciò che si pensa faccia audience. In fondo, l’informazione religiosa è come la religione: deve scrollarsi di dosso i pregiudizi secolari per poter davvero essere essenziale.
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