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domenica 20 settembre 2020

Dieci anni fa, Benedetto XVI nel Regno Unito. Cosa abbiamo dimenticato

In questi giorni, si è ricordato il decimo anniversario del viaggio di Benedetto XVI nel Regno Unito. Il Papa emerito era stato in Terra d’Albione dal 16 al 19 settembre 2010, aveva lì beatificato John Henry Newman, parlato a Westminster Hall pronunciando uno dei discorsi più noti del pontificato, portato avanti il dialogo ecumenico.
Si parlava di un viaggio che sarebbe stato un insuccesso, c’era un movimento di opinione forte, soprattutto da parte degli intellettuali atei inglesi, che contestava la visita del Papa, mentre altri puntavano il dito sulla piaga degli abusi – anche lì, Benedetto XVI incontrerà alcune vittime, pregando con loro, in privato, senza clamori.

È stato dunque per me naturale andare a ripercorrere il viaggio e rivederne i discorsi, con un certo senso di amarcord e  pensando che, in fondo, non sarei rimasto sorpreso da nulla. Mi sbagliavo. C’è un testo, del viaggio di Benedetto XVI nel Regno Unito, che è rimasto nascosto nelle pieghe della storia, e che pure è fondamentale per comprendere il pontificato e – direi – il senso della missione della Chiesa. È il discorso che Benedetto XVI fa agli alunni durante la Celebrazione dell’Educazione cattolica che si tiene il 17 settembre 2010.

È un testo, quello, puramente benedettino, che pure allo stesso tempo sembra così lontano dai testi di Benedetto XVI che siamo abituati a leggere e rileggere.

È un testo che inizia con una provocazione di senso fortissima: “Ho la speranza che fra voi oggi che siete qui ad ascoltarmi vi siano alcuni dei futuri santi del ventesimo secolo. La cosa che Dio desidera maggiormente per ciascuno di voi è che diventiate santi. Egli vi ama molto di più di quanto voi possiate immaginare e desidera per voi il massimo. E la cosa migliore di tutte per voi è di gran lunga il crescere in santità”.

Ancora, Benedetto XVI dice ai giovani che “magari non ci hanno ancora pensato”, e che ritengono probabilmente che “essere santi non fa per loro”. E spiega: “Quando vi invito a diventare santi, vi sto chiedendo di non accontentarvi di seconde scelte. Vi sto chiedendo di non perseguire un obiettivo limitato, ignorando tutti gli altri”.

Perché sì, spiega ancora, viviamo in un mondo in cui il modello è dato dalle celebrità, vogliamo fama e ricchezza e possiamo anche essere “grandemente dotati in alcune attività e professioni”, ma questo da solo “non potrà mai soddisfarci, finché non puntiamo a qualcosa di più grande”.

Il Papa, allora, offre una soluzione “molto semplice”: “La vera felicità va cercata in Dio”. E aggiunge: “Abbiamo bisogno del coraggio di porre le nostre speranze più profonde solo in Dio: non nel denaro, in una carriera, nel successo mondano, o nelle nostre relazioni con gli altri, ma in Dio. Lui solo può soddisfare il bisogno più profondo del nostro cuore”.

 E quando si fa amicizia con Dio, quando si arriva a conoscerlo meglio - spiega Benedetto XVI - si vuole riflettere nella propria stessa vita la virtù, si incomincia “a vedere l’avidità e l’egoismo, e tutti gli altri peccati, per quello che realmente sono, tendenze distruttive e pericolose che causano profonda sofferenza e grande danno, e volete evitare di cadere voi stessi in quella trappola. Incominciate a provare compassione per quanti sono in difficoltà e desiderate fare qualcosa per aiutarli. Desiderate venire in aiuto al povero e all’affamato, confortare il sofferente, essere buoni e generosi. Quando queste cose iniziano a starvi a cuore, siete già pienamente incamminati sulla via della santità”. 

È l’invito a guardare un orizzonte più grande, quello che, in fondo, si trova nelle scuole cattoliche. Ma è anche un racconto di tutto ciò che non si deve fare. Benedetto XVI sta, in fondo, dicendo, che tutto il bene che viene fatto non è mai abbastanza se non si tengono gli occhi ben fissati su Dio. Che la missione della Chiesa non significa meramente fare del bene, ma significa puntare alla santità.

 In un discorso semplice e diretto si possono trovare molti dei problemi che sono stati affrontati con molte più parole: la crisi delle vocazioni missionarie, che nascono proprio dal centrarsi molto sui temi sociali lasciando un po’ da parte l’annuncio del Vangelo; la necessità della santità, che contiene anche l’idea dei “santi della porta accanto” molto sviluppata oggi da Papa Francesco; l’attenzione per il povero, l’orfano e la vedova, che non è fine a se stessa, ma nasce proprio dal conformarsi all’amore di Dio.

Benedetto XVI non usa termini negativi, nel suo discorso, ma termini positivi. Coinvolge e cerca di coinvolgere. Fornisce un grande ideale. Sa che sottolineare che non curarsi dei migranti è peccato non ha lo stesso effetto che fornire la ragione di quell’amore e di quella cura. Il suo discorso non è una chiamata alle armi. È una chiamata a rimettere al centro Cristo. 

In quel discorso c’è, in fondo, il centro dei problemi della Chiesa di oggi. Persa nei dibattiti pseudo-intellettuali o politici sulla partecipazione delle donne al ministero sacerdotale, sulla sessualità o l’omosessualità, la Chiesa ha perso il centro del suo linguaggio che è poi quello della santità. Tutto nasce da lì. Se si perde il fine ultimo, ci si trova davanti a tanti fini penultimi che però non riescono a dare le risposte. Forse è per questo che la Chiesa sembra non riesca a parlare agli uomini del nostro tempo.

 Ma quel discorso mi ha fatto anche pensare alla nostra professione di giornalisti che scrivono di Vaticano. Siamo impegnati a cercare le notizie e i titoli, come tutti. Ma davvero sappiamo centrare i temi? Davvero siamo in grado di mettere in luce ciò che davvero conta?

 Questo discorso di Benedetto XVI giaceva quasi dimenticato tra le pieghe della storia, coperto da un tutto che era sicuramente molto interessante e accattivante. Eppure, questo discorso era parte di quel tutto, ed era una parte fondamentale.

 Credo che oggi il nostro compito di giornalisti sia prima di tutto quello di andare a rileggere, anche a distanza di anni, come facciamo con un nostro testo che quasi non riconosciamo più. Improvvisamente, ne vediamo gli errori, oppure la potenza, o entrambe le cose, mentre prima eravamo troppo coinvolti dalle emozioni.

Dobbiamo probabilmente re-imparare ad esercitare quel sano distacco e l’umiltà epistemologica. Dobbiamo parlare con le persone non con l’idea di fare dibattiti, ma con l’idea di ascoltare. Io sono certo che gli studenti lo ricordano quel discorso di dieci anni fa, e qualcuno lo avrà anche messo in pratica. Ma non ha trovato orecchie per ascoltarlo. Succede, e succede a moltissimi. Non significa, però, che lo dobbiamo dare per scontato.

 Piuttosto, dobbiamo allargare lo sguardo. È quello che ci ha detto Benedetto XVI. Allargare lo sguardo per cercare le cose ultime. Non vale solo per la santità. Vale anche per il giornalismo.


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