È stato dunque per me naturale andare a ripercorrere il viaggio e rivederne i discorsi, con un certo senso di amarcord e pensando che, in fondo, non sarei rimasto sorpreso da nulla. Mi sbagliavo. C’è un testo, del viaggio di Benedetto XVI nel Regno Unito, che è rimasto nascosto nelle pieghe della storia, e che pure è fondamentale per comprendere il pontificato e – direi – il senso della missione della Chiesa. È il discorso che Benedetto XVI fa agli alunni durante la Celebrazione dell’Educazione cattolica che si tiene il 17 settembre 2010.
È un testo, quello, puramente benedettino, che pure allo stesso tempo sembra così lontano dai testi di Benedetto XVI che siamo abituati a leggere e rileggere.
È un testo che inizia con una provocazione di senso fortissima: “Ho la speranza che fra voi oggi che siete qui ad ascoltarmi vi siano alcuni dei futuri santi del ventesimo secolo. La cosa che Dio desidera maggiormente per ciascuno di voi è che diventiate santi. Egli vi ama molto di più di quanto voi possiate immaginare e desidera per voi il massimo. E la cosa migliore di tutte per voi è di gran lunga il crescere in santità”.
Ancora, Benedetto XVI dice ai giovani che “magari non ci hanno ancora pensato”, e che ritengono probabilmente che “essere santi non fa per loro”. E spiega: “Quando vi invito a diventare santi, vi sto chiedendo di non accontentarvi di seconde scelte. Vi sto chiedendo di non perseguire un obiettivo limitato, ignorando tutti gli altri”.
Perché sì, spiega ancora, viviamo in un mondo in cui il modello è dato dalle celebrità, vogliamo fama e ricchezza e possiamo anche essere “grandemente dotati in alcune attività e professioni”, ma questo da solo “non potrà mai soddisfarci, finché non puntiamo a qualcosa di più grande”.
Il Papa, allora, offre una soluzione “molto semplice”: “La vera felicità va cercata in Dio”. E aggiunge: “Abbiamo bisogno del coraggio di porre le nostre speranze più profonde solo in Dio: non nel denaro, in una carriera, nel successo mondano, o nelle nostre relazioni con gli altri, ma in Dio. Lui solo può soddisfare il bisogno più profondo del nostro cuore”.
È l’invito a guardare un orizzonte più grande, quello che, in fondo, si
trova nelle scuole cattoliche. Ma è anche un racconto di tutto ciò che non
si deve fare. Benedetto XVI sta, in
fondo, dicendo, che tutto il bene che viene fatto non è mai abbastanza se non
si tengono gli occhi ben fissati su Dio. Che la missione della Chiesa non
significa meramente fare del bene, ma significa puntare alla santità.
Benedetto XVI non usa termini negativi, nel suo discorso, ma termini positivi. Coinvolge e cerca di coinvolgere. Fornisce un grande ideale. Sa che sottolineare che non curarsi dei migranti è peccato non ha lo stesso effetto che fornire la ragione di quell’amore e di quella cura. Il suo discorso non è una chiamata alle armi. È una chiamata a rimettere al centro Cristo.
In quel discorso c’è, in fondo, il
centro dei problemi della Chiesa di oggi. Persa nei dibattiti pseudo-intellettuali
o politici sulla partecipazione delle donne al ministero sacerdotale, sulla
sessualità o l’omosessualità, la Chiesa
ha perso il centro del suo linguaggio che è poi quello della santità. Tutto
nasce da lì. Se si perde il fine ultimo, ci si trova davanti a tanti fini
penultimi che però non riescono a dare le risposte. Forse è per questo che la
Chiesa sembra non riesca a parlare agli uomini del nostro tempo.
Dobbiamo probabilmente re-imparare ad esercitare quel sano distacco e l’umiltà epistemologica. Dobbiamo parlare con le persone non con l’idea di fare dibattiti, ma con l’idea di ascoltare. Io sono certo che gli studenti lo ricordano quel discorso di dieci anni fa, e qualcuno lo avrà anche messo in pratica. Ma non ha trovato orecchie per ascoltarlo. Succede, e succede a moltissimi. Non significa, però, che lo dobbiamo dare per scontato.
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