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domenica 8 settembre 2019

Giornalismo oggettivo, mito o realtà?


La scorsa settimana, il ministero degli Esteri ungherese ha organizzato un forum per Comunicatori Cristiani, chiamato “Christianity connects”, con l’obiettivo dichiarato di sottolineare la responsabilità del giornalismo cristiano, specialmente in contesto europeo, dove è chiamato a ridare l’anima al continente e ricordare quei valori che hanno fondato l’Europa.

Non sto qui a raccontare dei panel, tutti interessanti, e che meriterebbero tutti una discussione a sé. C’era un punto, però, che mi sembrava essere comune a tutti i dibattiti, e che andrebbe approfondito: la questione dell’oggettività del giornalismo.


Dal punto di vista dei giornalisti cristiani, e quindi della maggioranza dei partecipanti al forum, giornalismo oggettivo significa non nascondere quanto accade nel mondo, soprattutto in termini di propaganda anti-cristiana. Esiste una persecuzione dei cristiani, e va raccontata. Esiste una discriminazione dei cristiani, e va raccontata. I media che non lo fanno, semplicemente nascondono la verità, perché semplicemente non riportano i fatti.

È un punto di vista, rispettabile e vero, frutto di una questione presente. Non mi sento di contestarlo, anche perché questo era chiaramente il concept dell’incontro.

Ma questo è solo un aspetto di un problema più profondo. Per anni, si è diffusa l’idea che si potesse fare un giornalismo solamente fondato sui fatti. Una notizia è una notizia vera e verificata se ha tre fonti che la confermano, dice una regola del giornalismo anglosassone. E un’altra regola sottolinea che i fatti vanno sempre separati dalle opinioni, e che dunque gli articoli si debbano scrivere nel modo più asettico possibile.

Bastano, però, queste ed altre regole, a rendere una informazione oggettiva? No. Nessuna regola può bastare a rendere una informazione oggettiva. Perché il giornalismo è fatto di uomini, carne, sangue, rapporti personali e di fiducia.

Io posso avere tre fonti, e sono tre fonti di cui mi fido e mi danno tutte la stessa lettura e lo stesso retroscena. Ma sono tre fonti che vengono dallo stesso ambiente, che hanno le stesse idee, che comunque filtrano e interpretano un fatto con la loro capacità di lettura. E questo quando si tratta di fare una analisi su un tema, o cercare un retroscena.

Ma cosa succede se sto facendo cronaca giudiziaria, e le mie tre affidabili fonti sono tutte fonti dell’accusa, o che sono vicine al pubblico ministero? Oppure, viceversa, se sono fonti esclusivamente della difesa?

Altra questione è separare i fatti dalle opinioni. Per quanto asettico, il giornalista fa una scelta di termini e di narrazione. Decide cosa scrivere prima o cosa scrivere dopo, cosa omettere e cosa no. E già in quello si legge una “opinione” del giornalista. C’è già un commento, sebbene non esplicito, perché tutti, di fronte a un fatto, tendiamo a vederlo secondo una particolare angolatura.

Così, è vero che, per esempio, il New York Times ha una sezione di “op-eds”, editoriali, che sono chiamati proprio così. Ma è anche vero che nel New York Times ci si aspetta di trovare un determinato punto di vista, che è poi quello di una certa sinistra democratica americana, con buona pace di chi pensa di poterci vedere rappresentato anche altro.

E va benissimo, così, intendiamoci. Solo che ci vorrebbe l’onestà di ammettere che non esiste niente di totalmente oggettivo. Esiste un modo di vedere le cose, che si basa su fatti reali, ma che poi quei fatti reali li può trascolorare, per tanti motivi.

Lo sanno tutti i grandi giornalisti. Lo sapeva Indro Montanelli, inviato (guarda caso) proprio a Budapest nel 1956, dove si trovò testimone della repressione dei moti che volevano rovesciare il dominio sovietico.

Il suo resoconto della battaglia di Budapest si intitola “Così ho visto la battaglia di Budapest”, ed è già una dichiarazione precisa.

 Questa è la storia della battaglia di Budapest e il lettore ci perdoni se la riferiamo con tanto ritardo. Mentre la combattevano, i russi ci tolsero il mezzo di raccontarla; e, in fondo, non ci resta che ringraziarli per averci tolto solo questo. È una storia parziale, naturalmente, come del resto lo sono tutte le storie. Non abbiamo che due occhi e siamo stati costretti a servircene con parsimonia, usandone uno per osservare ciò che succedeva a Budapest e l’altro per sorvegliare che non succedesse altrettanto a noi. Tenete a mente che nessuno ha visto tutto. Vi dico solo quello che ho visto io”.

È solo questo tipo di onestà che può salvare il giornalismo dall’autoreferenzialità. Costretti a riconoscere che siamo necessariamente parziali per limiti umani, noi giornalisti possiamo liberarci dal peso di dover essere depositari di una verità necessaria e importante. Siamo depositari della nostra verità, del nostro punto di vista. Il nostro limite è nel volto dell’altro, che è poi la nostra fonte, il nostro direttore, il nostro editore.

È un esercizio mentale che aiuta anche a dotarsi di umiltà epistemologica, la qualità essenziale di ogni giornalista. Si tratta di mettersi con umiltà davanti ai fatti, di cercare di comprenderli utilizzando non il proprio punto di vista, ma quello delle persone che sono protagoniste di quei fatti.

Questo vale sempre, in ogni tipo di giornalismo, ma vale forse ancora di più nel giornalismo vaticano, come in tutti i giornalismi specializzati in particolari tipi di linguaggio istituzionale (e sì che una volta c’era il “cremlinologo”, mentre da sempre nelle redazioni italiane c’è il “quirinalista”).

No, non esiste un giornalismo completamente oggettivo. Ma esiste un giornalismo onesto, che accetta di essere parziale per i suoi limiti, che sa che può scegliere di raccontare un fatto invece che un altro e magari di sbagliare nella lettura dei fatti.

Esiste un giornalismo che non vuole essere opinione, ma che vuole portare avanti una analisi sincera degli eventi, che ovviamente parte da un punto di vista, ma che sa mettere in luce anche gli altri, fedeli al principio enunciato da Karl Popper in “Congetture e falsificazioni” che un teorema è vero non quando si trovano le conferme, ma quando vengono escluse con sicurezza tutti i motivi per cui questo non possa essere vero.

Il giornalismo non sarà mai oggettivo, perché chi scrive è umano ed ha il limite di non poter vedere tutto né essere onnisciente. Ma si può fare un patto con il lettore. Un patto chiaro, sincero, in cui il giornalista sarà mediatore dei fatti, li saprà spiegare, ma saprà anche ammettere che non può sapere tutto, né comprendere tutto. Il futuro del giornalismo dipenderà da come questo contratto sarà stabilito.

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