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domenica 15 settembre 2019

Anche i Papi comunicano. Ma come?



Ci sono diversi buoni motivi per partecipare martedì 17 settembre alla presentazione del libro “Anche i Papi comunicano di Veronica Giacometti. E i buoni motivi non riguardano chi presenta il libro, sebbene siano persone degnissime di nota (Alessandro Gisotti, vicedirettore editoriale del Dicastero della comunicazione vaticano, e il vaticanista di lunghissimo corso Gianfranco Svidercoschi). Né riguardano la pregevole prefazione, scritta da don Ivan Maffeis, direttore della comunicazione della Conferenza Episcopale Italiana. Né sono rappresentati dal fatto che Veronica Giacometti è una collega, che parleranno anche Alan Holdren e Angela Ambrogetti (rispettivamente capo dell’ufficio EWTN in Vaticano e direttore di  ACI Stampa), e quindi che ci sarà un pezzo del mio mondo di comunicazione, della bolla – per intenderci – in cui vivo e dalla quale scrivo.


I buoni motivi riguardano soprattutto i contenuti del volume, che portano necessariamente ad una riflessione. Il libro è una storia della comunicazione vaticana a partire dalla Sala Stampa della Santa Sede e da come questa si è evoluta nel corso degli anni. In un tempo in cui la riforma della comunicazione vaticana è diventata velocissima, mentre niente sembra che sarà più come prima nell’organizzazione dei media vaticani, mettere un punto è fondamentale anche per comprendere cosa serve oggi e cosa si rischia di perdere. E questo libro è un buon punto di partenza per farlo.

C’è una figura che resta sullo sfondo del libro, ed è Benny Lai, decano dei vaticanisti e colui che ha dato un nome alla professione del cronista di fatti vaticani. Grazie al diario di Benny Lai, contenuto nel libro “Il mio Vaticano”, si può seguire non tanto la storia, quanto gli umori, le percezioni, la vita vera del Vaticano che vanno dagli anni della primissima Sala Stampa all’interno delle Città Leonine, annessa all’Osservatore Romano, a quella del Concilio Vaticano II, fuori dalla Città del Vaticano.

Scrive Veronica Giacometti:

 Ad una giovanissima giornalista desiderosa di seguire al meglio la vita in Vaticano egli (Benny Lai, ndr) spiega: “Vuole una chiave per capire gli aspetti esterni del Papa? Tutta la sua vita di Pontefice è ispirata al principio dell’autorità: lui non vive tra la folla, ma sulla folla”.

Ecco, leggere questa frase e compararla con il presente racconta meglio di ogni altra cosa il modo in cui è cambiata la comunicazione vaticana. Da una parte, resta il principio di autorità del Papa. Dall’altra, c’è ormai la volontà di far sembrare che egli viva non sulla folla, ma “tra la folla”.

La storia della Sala Stampa della Santa Sede racconta, in fondo, come sono cambiati i tempi della comunicazione e come anche la Santa Sede si sia adeguata ai tempi, cercando sempre nuovi modi di raccontare il Papa, le sue scelte, tutto ciò che sta intorno e dietro queste scelte.

Ma il paradosso è che, nel momento in cui è cercato sempre più di far vivere il Papa tra la folla, si è generato anche un sempre più progressivo allontanamento dei giornalisti dalle Mura Leonine.

Veronica Giacometti nota che già alla morte di Pio XI era stata allestita una piccola sala stampa nel Cortile San Damaso, in Vaticano. E poi ripercorre il filo dei ricordi di Benny Lai, della Sala Stampa annessa all’Osservatore Romano, con i giornalisti che avevano la possibilità di entrare e uscire dallo Stato di Città del Vaticano semplicemente grazie al loro tesserino. Non c’erano filtri, se non quello della fiducia.

Già con il Concilio Vaticano II, tutto cambia. Paolo VI – nelle parole ironiche, ma pungenti, di Benny Lai – “caccia i giornalisti dal Vaticano”, si allestisce una Sala Stampa su via della Conciliazione e lì vengono dirottati tutti i giornalisti, gli accreditati storici e quelli che arrivano per il grande evento che si sta celebrando in Vaticano.

È proprio quello il momento in cui comincia quello che Benedetto XVI chiamò il “Concilio dei media” nel suo ultimo incontro da Papa con il clero romano. Forse non c’è una connessione diretta tra le due cose. Ma, è anche vero che, quando la realtà è mediata, la realtà si presta a qualunque manipolazione. I giornalisti sono costretti, più che mai, a fidarsi delle loro fonti di fiducia, senza poter vedere altro se non quello che possono vedere, e parlare con altri se non quelli che concedono di lasciarsi avvicinare.  E le fonti sanno cosa vogliono far sapere e cosa non vogliono far sapere.

Nasce il Concilio dei media, ma nasce anche l’uso dei media da parte degli officiali vaticani. È un rapporto di mutuo scambio, una partita a scacchi, in cui diventa fondamentale conoscere i linguaggi per comprendere ciò che viene detto.

E nasce da qui la polarizzazione, perché, in fondo, è facile creare contrapposizioni quando il filtro è mediato, quando non c’è il volto dell’altro davanti a smussare gli angoli, a far comprendere che forse le cose vanno lette in maniera più o meno benevola. Si perde quella ironia necessaria a tutti per avere la altrettanto necessaria umiltà epistemologica che permette davvero di approcciarsi ai fatti senza pregiudizi.

Anche la storia della comunicazione del Sinodo – si trova anche questo nel libro di Giacometti – rispecchia questo schema. Fin quando il Sinodo è “trasparente”, con un team di persone incaricato di tradurre, diffondere, far comprendere le relazioni dei padri sinodali e dei briefing che danno ai giornalisti tutte le informazioni, hanno luogo Sinodi che destano interesse, ma che allo stesso tempo rispecchiano un certo desiderio di comunione.  

Quando, poi, cambia il modello di comunicazione del Sinodo, i testi non vengono più distribuiti e si lascia tutta la comunicazione ai rapporti personali con i padri sinodali e a freddi briefing in cui ogni realtà viene mediata, ecco che arrivano i sinodi delle contrapposizioni, del rischio del cambiamento dottrinale, del dibattito aspro che coinvolge i padri sinodali, intellettuali cattolici e non, giornalisti.

La scelta di distaccare la comunicazione del Vaticano dal Vaticano stesso ha, insomma, le sue conseguenze.

Ma la vera domanda è: cosa si comunica? Anche qui, c’è stata una evoluzione, parzialmente dettata dai media, ma anche dall’approccio delle persone che vivono il Vaticano, e che pure hanno perso il senso dei media come persone e le vedono come strumento.

Con Giovanni Paolo II, c’era il ruolo del portavoce, impersonato da Joaquin Navarro Valls, ed era lui che filtrava le notizie, gli umori, le scelte, e che operava con i giornalisti con professionalità, conoscendo la macchina e sapendo come indirizzare l’opinione pubblica. Era un lavoro professionale, ma in fondo mediato da anni di esperienza e di contatto personale, con i giornalisti e con lo stesso pontefice.

Benedetto XVI puntava sulle idee, sui grandi temi. Non si comunicava il Papa, ma ciò che il Papa diceva, e le persone ascoltavano Benedetto XVI, non venivano per una star. Per formazione, timidezza e vita personale, Benedetto XVI non poteva né voleva essere personaggio come lo era Giovanni Paolo II, naturalmente carismatico. Il suo primato della parola necessitava di una comunicazione meditata, perché Benedetto XVI costruiva discorsi come si costruiscono cattedrali.

Ma la grande riforma della comunicazione vaticana, pensata e discussa da tempo, arriva con Papa Francesco ed è ancora in atto. Papa Francesco è un Papa che vuole mostrare di essere tra la folla, non sulla folla. Ha il senso dei grandi gesti, delle frasi ad effetto e del grande pubblico. Sa dare una immagine precisa, la sa rendere, e vuole che quella immagine sia colta e compresa. Si nota da tanti piccoli dettagli.

Eppure, la riforma della comunicazione vaticana mette ulteriori filtri tra Vaticano e giornalisti.

Il primo filtro è dato dai media vaticani, chiamati a fare una comunicazione istituzionale, ad anticipare, a dare informazioni e chiavi di lettura prima degli altri. Cercano di dare una direzione al dibattito, e per questo a filtrare le informazioni, a volte anche a cercare di bloccarne il flusso.

Il secondo filtro è dato dal fatto che la Sala Stampa non è più la fine del circuito comunicativo, ma lo è la direzione editoriale, che coordina tutti i contenuti. Il rapporto dei giornalisti con chi invia le informazioni è un rapporto ulteriormente mediato, con i suoi pro e i suoi contro.

Il terzo filtro è dato dal fatto che la comunicazione istituzionale tende ad essere conservativa. Era previsto da tempo che la redazione dell’Osservatore Romano uscisse dalla Mura Leonine. Ma la decisione di farlo, per unificare tutti gli uffici, ha dato il senso della fine di un mondo, perché non c’è più nessun medium vaticano all’interno dello Stato. C’è una professionalizzazione, e questa è necessaria: verissimo. Ma davvero è necessaria questa professionalizzazione per comunicare il Papa?

Perché si tratta spesso di una professionalizzazione tecnica, chiamata a far convergere tutti media in un unico canale. Una professionalizzazione di tipo tecnico. Ma la tecnica non può sostituire i contenuti, l’approfondimento, la profondità, così come una telecamera in più non sostituisce mai il gioco di sguardi che si crea in una intervista faccia a faccia, e che permette di comprendere ben al di là di quello che viene detto.

Anche sotto il pontificato  di Benedetto XVI si era cercata una professionalizzazione, e la Segreteria di Stato aveva nominato un “advisor” per la comunicazione, nella persona di Greg Burke, chiamato a suggerire tempi e modi di azione per meglio comunicare.

Il punto è comprendere quanto uno “spin doctor” (come vengono chiamati gli esperti comunicazione che guidano i dibattiti) possa andare a sostituire l’annuncio del Vangelo, e quanto una immagine o una frase ad effetto sia più importante di una idea.

Il libro non dà una risposta a tutto questo, perché è un libro che mette un punto, che ha la vocazione di fare una fotografia della realtà nel momento in cui viene pubblicato. Eppure, resta la domanda tra le righe, stringente, fortissima, che porta con sé un’altra domanda: cosa resterà di un pontificato presentato più con i dettami del marketing e della comunicazione istituzionale che con la forza delle sue idee?

Nel libro El Portavoz curato da Rafael Navarro-Valls, fratello di Joaquin Navarro-Valls, si trova un aneddoto significativo. Sono i primi giorni del pontificato di Benedetto XVI, Navarro-Valls è ancora in carica.

El Portavoz va dal Papa – e qui parafraso un po’ - gli chiede se ci sono immagini che non gli piacciono, se c’è qualcosa che magari devono far cambiare. Benedetto XVI chiede perché, Navarro-Valls risponde che “sa, Santità, viviamo nell’epoca dell’immagini, le immagini sono più importanti delle parole”.

Benedetto XVI risponde: “Allora lotteremo perché una idea valga più delle immagini”.  

Questa è la sfida, ancora oggi. E sarà bello poterne discutere alla presentazione del libro “Anche i Papi comunicano”. L’appuntamento è per il 17 settembre, alle ore 18, in via della Conciliazione, 44. Gli ospiti e i relatori li ho già detti. Comunque, voglio rassicurare tutti. Ci sarà anche il momento più importante della serata: il cocktail.



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