Come al solito, si comprende Benedetto XVI andando a leggere prima di tutto le sue omelie. E può sembrare incredibile, considerando il fatto che lui sia un teologo di fama internazionale, le cui idee hanno generato discussione e formato pensatori, e che oggi vengono portate avanti con fedeltà e amore dagli allievi del Ratzinger Schuelerkreis. Eppure, Benedetto XVI è rimasto prima di tutto un sacerdote, e lo dimostra il fatto che è dalle omelie che si comprende quanto profondamente radicata in lui sia la fede in Cristo, e quanto abbia con tutte le sue pacate forze tentato di incarnarla nella sua vita.
L’omelia
che è la chiave di tutto, in questo caso, è quella che Benedetto XVI ha
pronunciato nel Duomo di Freising, nel suo primo ritorno in Germania da
Papa. Era il 14 settembre 2006, e in quel Duomo che aveva visto lui e suo
fratello ordinati sacerdoti nello stesso giorno, il 29 giugno 1951, Benedetto XVI aveva non solo raccontato le sue emozioni,
ma anche dato un saggio di quello che sarebbe stato il suo pontificato.
Persino, a guardare bene, un indizio della storica rinuncia al ministero
petrino che non si può davvero comprendere se non si mettono gli stessi
occhiali della fede del Papa emerito.
Quelli di Benedetto
XVI erano ricordi pieni di commozione, di quando “ero qui prostrato per
terra e, come avvolto dalle Litanie di tutti i santi, dall’intercessione di
tutti i santi, mi rendevo conto che su questa via non siamo soli, ma che la
grande schiera dei santi cammina con noi
e i santi ancora vivi, i fedeli di oggi e di domani, ci sostengono e ci
accompagnano”. E “poi vi fu il momento dell’imposizione delle mani… e
infine, quando il Cardinale Faulhaber
ci gridò: ‘Iam non dico vos servos, sed amicos’ – ‘Non vi chiamo più servi, ma
amici’, allora ho sperimentato l’ordinazione sacerdotale come iniziazione
nella comunità degli amici di Gesù, che sono chiamati a stare con Lui e
ad annunciare il suo messaggio”.
Ogni gesto del sacerdote, per Benedetto XVI, ricorda la Chiesa che è stata, che è e che sarà.
Ogni ordinazione è un protendersi verso il futuro per guardare comunque con
profondità alla tradizione della fede della Chiesa. Le tradizioni popolari sono
parte di questo linguaggio, e si nota quando il Papa ricordava la processione
delle reliquie di San Corbiniano. Perché
tutto va visto in modo simbolico, o meglio va letto secondo il linguaggio
di Dio.
“In questo momento – aveva detto Benedetto XVI - facciamo ancora quell'esperienza, che cioè stiamo
nella grande processione, nel pellegrinaggio del Vangelo, che possiamo essere
insieme pellegrini e guide di questo pellegrinaggio e che, seguendo coloro che hanno seguito Cristo, seguiamo con loro Lui stesso
ed entriamo così nella luce”.
Fin qui, il commento sui ricordi personali. Ma poi il Papa si “introduce nell’omelia”,
commentando il brano del Vangelo che è quello in cui Gesù dice che “la
Messe è molta”, ma gli operai pochi. Non è un messaggio rivolto solo a quel
tempo, nota Benedetto XVI, ma è
valida in ogni tempo, perché “nei cuori degli uomini cresce una messe”, in
quanto “nel loro intimo c’è l’attesa di Dio”, e “di una Parola che sia più di
una semplice parola”.
Quel Vangelo continua con l’esortazione di Gesù a pregare
perché mandi operai. “Dio ha bisogno di uomini”, aveva chiosato Benedetto XVI. Ma aveva aggiunto: “Non
possiamo semplicemente produrre vocazioni: esse devono venire da Dio. Non
possiamo, come forse in altre professioni, per
mezzo di una propaganda ben mirata, mediante, per cosi dire, strategie
adeguate, semplicemente reclutare delle persone. La chiamata, partendo dal
cuore di Dio, deve sempre trovare la via al cuore dell’uomo”.
Ci vuole, comunque, la collaborazione degli uomini, la
preghiera per “scuotere il cuore di
Dio”, ma questo “non si realizza soltanto mediante parole di preghiera”, ma
comporta anche “un mutamento della parola in azione”.
Benedetto XVI
aveva poi affrontato il tema della scarsità dei sacerdoti, e tutti hanno
gravami più pesanti, perché “gestire due, tre, quattro parrocchie insieme, e
questo con tutti i nuovi compiti che si sono aggiunti – è cosa che può
risultare scoraggiante”. Viene naturale la domanda: “Come possiamo farcela?”
Benedetto XVI non
dava “ricette infallibili”, ma ripartiva dalle Scritture. Da San Paolo che
notava come Gesù “dovette scendere e assumere l’incredibile, l’intera miseria
di una vita umana fino all’ora della sofferenza sulla Croce”, ed è questo il
sentimento di Gesù che dobbiamo vivere:
saper scendere per assumere l’incredibile, e rimanere in comunione con il Padre,
al punto da non poter evitare di annunciare il Vangelo.
Questi due aspetti si traducono in “zelo e umiltà”. Il primo, perché “se veramente incontriamo Cristo
sempre di nuovo, non possiamo tenercelo per noi stessi”, e allora “ci sentiamo
spinti ad essere annunciatori”, andando verso “i poveri, gli anziani, i deboli,
e così pure verso i bambini e i giovani, verso le persone nel pieno della loro
vita”.
Ma sarebbe – aggiungeva Benedetto
XVI – uno zelo “vuoto e logorante” se non si collegasse con “l’umiltà, la
moderazione, l’accettazione dei nostri limiti”. Vale per i parroci, ma vale
anche per il Papa.
Raccontava Benedetto
XVI: “Devo imparare a fare ciò che posso e lasciare il resto a Dio e ai
miei collaboratori e dire: ‘In definitiva sei Tu che devi farlo, poiché la
Chiesa è Tua. E Tu mi dai solo l’energia che possiedo. Sia donata a Te, perché
proviene da Te; il resto, appunto, lo lascio a Te’. Credo, che l’umiltà di
accettare questo – ‘qui finisce la mia energia, lascio a Te, Signore, di fare
il resto’ – tale umiltà è decisiva. Ed avere poi la fiducia: Egli mi donerà anche i collaboratori che mi
aiuteranno e faranno quello che io non riesco a fare”.
Zelo e umiltà hanno bisogno di un altro passo, quello di
saper ricevere. E la Chiesa permette di
ricevere, nella “celebrazione quotidiana della Messa”, che non deve essere
“una cosa di routine”, ma che va vissuta e pregata immedesimandosi con la
Parola. E poi, permette di ricevere nella Liturgia delle Ore, che “non è un
ritirarsi nel privato, ma è una priorità
pastorale, è un’azione pastorale, nella quale noi stessi diventiamo
nuovamente sacerdoti, veniamo nuovamente colmati di Cristo, includiamo gli
altri nella comunione della Chiesa orante e, al contempo, lasciamo emanare la
forza della preghiera, la presenza di
Gesù Cristo, in questo mondo”.
Rifacendosi al motto del viaggio in Germania del 2006 – “Chi crede non è mai solo” – Benedetto
XVI esortava a ricordare che “chi è sacerdote non è mai solo, perché Gesù
Cristo è sempre con lui. Egli è con noi; stiamo anche noi con Lui! Ma deve
valere anche nell’altro senso: chi si fa sacerdote, viene introdotto in un
presbiterio, in una comunità di sacerdoti con il Vescovo. Ed egli è sacerdote nell’essere in comunione con i suoi confratelli.
Impegniamoci perché questo non resti soltanto un precetto teologico e
giuridico, ma diventi esperienza concreta per ciascuno di noi. Doniamoci a
vicenda questa comunione, doniamola specialmente a coloro che, sappiamo,
soffrono di solitudine, sono oppressi da interrogativi e problemi, forse
da dubbi e incertezze”.
Viste oggi, queste parole di Benedetto XVI risultano ancora oggi profetiche. C’è, prima di
tutto, il suo totale abbandono a Dio, la sua umiltà nel comprendere che tutto è
dovuto a Dio, non a lui, e
dunque la sua liberalità nel prendere la scelta di rinunciare al ministero
petrino. Una rinuncia non accompagnata da gesti che ne preservassero
l’eredità, o che influenzassero i cardinali nella scelta del successore,
proprio nella fiducia che la Chiesa stessa è di Dio, e che Dio ci avrebbe
pensato.
Quindi, l’importanza che Benedetto XVI dà alla celebrazione quotidiana. La liturgia non è un
linguaggio vuoto, è un modo di vivere e raccontare la fede in Dio, e come
tale va trattato. La Messa non è
routine, l’Eucarestia ha un senso. Va ribadito, per Benedetto XVI, perché il rischio è che poi davvero la Chiesa abbia
grandi programmi sociali, ma perda il senso della fede; abbia grandi programmi
di rinnovamento per stare nel mondo, ma perda il senso dell’Eucarestia. Le sue
parole, amare, su quello che sta succedendo in Germania, affidate recentemente
in controluce a un
messaggio inviato al seminario di Czestochowa, partono proprio da
questa consapevolezza. Si deve, è necessario, ripartire da Cristo.
E da
Cristo devono ripartire i sacerdoti. Perché
essere prete non è una funzione, non è un mestiere, ma è parte di una
consacrazione che ha tutto un suo valore e una sua dignità. Se il sacerdote
vede il suo operato come una funzione, allora è un mestiere per tutti. Eppure,
non tutti sono chiamati, non tutti sono chiamati a fare i sacerdoti. Persino la
questione delle ordinazioni femminili è il risultato di un funzionalismo dato
al ruolo del sacerdote. Benedetto XVI si
era sempre rifatto alla lettera apostolica Ordinatio
Sacerdotalis di San Giovanni Paolo II, in cui sottolineava “la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di
conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve
essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa”.
Questo non significa che le donne non abbiano
un posto nella rivelazione. Nel suo grande lavoro per ritornare al Gesù
evangelico, per
conoscerlo, per comprenderlo, Benedetto XVI ha scritto, quando era Papa ma con la richiesta che fosse
considerato lavoro teologico e non magisteriale, ben tre volumi su Gesù,
uno studio poderoso che ha il pregio e la volontà di far coincidere di nuovo il
Gesù dei Vangeli e il Gesù storico,
superando la dicotomia che era invalsa con il metodo-storico critico applicato
alle Scriture. E lì, Benedetto XVI spiegava anche
che le donne hanno un ruolo fondamentale nella Resurrezione di Cristo, sono
le prime a vedere, le prime a dare l’annuncio.
Già, la Resurrezione. La chiave di tutto sta lì. Lo spiegava il Cardinale Gerhard Ludwig
Mueller, prefetto emerito della Congregazione della Dottrina della Fede e
curatore dell’opera omnia di
Benedetto XVI, quando
presentava il volume “Annunciatori della parola e servitori della vostra
gioia”.
Con la Resurrezione – diceva il cardinale, partendo proprio dalle
parole che Benedetto XVI aveva scritto sul sacerdozio in 70 anni - “tutto
compie il salto qualitativo. Viene posto il fondamento per superare ogni crisi.
Quella crisi per cui tutti l’avevano
abbandonato nell’ora drammatica della consegna di Gesù ai peccatori.
E aggiungeva: “Se Cristo per mezzo della risurrezione ha superato la più grande
crisi mai esistita nella fede, la crisi della missione e della potestà
apostolica e dunque anche del sacerdozio, allora è proprio dando lo sguardo a
Gesù che si possono superare tutte le crisi storiche della Chiesa e soprattutto
del sacerdozio”.
Ed era proprio lì che guardava Benedetto XVI, quando pubblicava i volumi
sul Gesù di Nazareth e proclamava l’Anno Sacerdotale, diventato un vero
Calvario per la Chiesa per le tante accuse sugli abusi arrivate ad orologeria,
e di continuo, da ogni dove, secondo un piano che sembrava quasi mirato. Benedetto XVI però era fiducioso: il chicco
di grano deve morire per portare molto frutto.
Tutto questo c’era già, probabilmente,
negli occhi del giovane bavarese che 70 anni fa veniva ordinato sacerdote. Sarebbe stata questa fede a portarlo ad
essere, un giorno, Papa. Perché tutta la sua vita, in fondo, racconta di un
totale affidamento a Gesù. Non è un percorso netto dal punto di vista
umano: ci sono state difficoltà, e anche aspettative deluse e sviluppi
imprevisti. Ma è stato un percorso netto
dal punto di vista spirituale. Che è quello che contava di più. Almeno per
Benedetto XVI.
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