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domenica 28 febbraio 2021

Benedetto XVI, a otto anni dalla fine del pontificato


“Io non appartengo più al vecchio mondo, ma quello nuovo in realtà non è ancora cominciato
”. Il Papa emerito Benedetto XVI ha consegnato questa frase al suo biografo Peter Seewald, ed è una frase che mi fa riflettere. In particolare oggi. Perché un giorno come oggi, otto anni fa, il portone del Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo si chiudeva, chiudendo così, in maniera simbolica, ma silenziosa, il grande pontificato di Benedetto XVI.

La vera domanda, otto anni dopo la fine del Pontificato di Benedetto XVI, è cosa abbiamo lasciato dietro quel portone otto anni fa. Perché un pontificato nuovo è arrivato, con tutto quello che ne consegue. È arrivato in un momento traumatico, come la prima rinuncia di un pontefice nella storia moderna. Ed è arrivato però con l’idea di guarire dal trauma in maniera netta. Come se avessimo avuto un graffio sul cuore, e non avessimo trovato niente di meglio di sostituire direttamente il cuore, invece di guarirlo.

Da tempo sottolineo che il pontificato di Benedetto XVI ha in sé un vero e proprio magistero nascosto. Ma non è stato nascosto perché il Papa emerito lo ha tenuto segreto. È nascosto perché è stato dimenticato, perché è stato messo sotto silenzio. Come se fosse ostacolo a quello che sarebbe dovuto venire dopo. Come se niente, di quello che ha detto Benedetto XVI, potesse avere un valore nel nuovo mondo.

Non è un problema di poco conto. Questa cancel culture interna alla stessa Chiesa cattolica si vede in tanti piccoli gesti, in tanti articoli in cui si magnificano come “nuove” o “sorprendenti” cose che in realtà erano già presenti nella vita della Chiesa. Forse declinate diversamente, ma presenti.

Un esempio su tutti: il tema della demondanizzazione. Perché la questione di una Chiesa meno mondana è stata l’ultima grande questione sollevata da Benedetto XVI, in un dibattito che è cominciato con il suo viaggio in Germania del 2011 e che poi è stata sviluppata in moltissimi discorsi. Era un tema centrale, per Benedetto XVI, che voleva prima di tutto una Chiesa meno attaccata alle strutture, una Chiesa che avesse prima di tutto un motore spirituale.

Va letto in questo senso l’amaro “discorso alla luna” dell’11 ottobre 2012, cinquanta anni dopo quelle di Giovanni XXIII.  “Anche oggi siamo felici – aveva detto Benedetto XVI - portiamo gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia forse più sobria, una gioia umile. In questi cinquant’anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si traduce, sempre di nuovo, in peccati personali, che possono anche divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania. Abbiamo visto che nella rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave e qualche volta abbiamo pensato: «il Signore dorme e ci ha dimenticato».”

Ma va letto in questo senso anche l’intervento a braccio al clero romano avvenuto il 14 febbraio 2013, tre giorni dopo aver annunciato la rinuncia, quando il Papa emerito denunciò con forza la presenza di un “concilio dei media” e un “concilio reale”.

Parole profetiche, se applicate al suo pontificato, che andrebbe studiato, compreso, analizzato. È in questo che i media hanno fallito.

Non lo hanno fatto da soli, beninteso. La stessa Chiesa ha deciso di chiamare in modo nuovo tutte le cose, come se con un tratto di penna si potesse cancellare tutto. Ci sono esempi pratici: l’11esimo Forum Internazionale dei Giovani viene definito il primo Forum dopo il Sinodo sui giovani, l’Autorità di Informazione Finanziaria stabilita da Benedetto XVI diventa l’Autorità di Sorveglianza e Informazione Finanziaria e l’anno prossimo pubblicherà quello che sarà il primo rapporto annuale in con questo nome, ma non il primo rapporto in assoluto. E poi, gli esempi simbolici, come la storia della vigna di Benedetto XVI a Castel Gandolfo, ma anche il fatto che la stessa Residenza Pontificia sia oggi un Museo, non usata più dal Papa. E poi, gli esempi narrativi, come la quasi completa dimenticanza di tutto ciò che ci sia stato prima nella Chiesa, incluso l’insegnamento di Giovanni Paolo II.

Eppure, noi giornalisti che scriviamo di cose religiose dovremmo sapere che non c’è un’ora senza un prima, e che niente potrebbe essere fatto senza che ci siano state solide fondamenta prima. Di fronte al trauma della Chiesa, che a volte sembra aver cancellato con un tratto di penna il vissuto come un innamorato abbandonato, i giornalisti avrebbero dovuto evitare di cedere a quella narrativa, di non guardare necessariamente alla novità. Perché l’informazione religiosa non è fatta di notizie nel senso vero del termine. È fatta di storie e di storia, e quello che fa davvero informazione religiosa è quello che comprende cosa c’è stato prima, che sa mettere tutto in una logica, che sa non entusiasmarsi ma analizzare, non esaltare, ma raccontare.

Ci vorrebbe un mea culpa, ad otto anni dalla rinuncia di Benedetto XVI, perché, in fondo, dietro quella porta buona parte di noi giornalisti ha messo tra parentesi un lavoro di otto anni. Sono stati cancellati contatti, sono stati dimenticati gli articoli, tutto è stato messo da parte. O prima non ci si credeva, oppure non si è capaci di ricordare. O prima non era evidente, oppure semplicemente questo non si vuole vedere.

Eppure, basterebbe guardare di nuovo all’insegnamento di Benedetto XVI, e guardare anche al modo in cui comunicava, per comprendere che tutto questo modo di ragionare è sbagliato. Benedetto XVI aveva un impatto perché non parlava per slogan, ma dava sostanza a quello che diceva. Ci credeva Anche la cosa più semplice, era in realtà ben meditata. Tutto aveva una profondità, e tutto era arricchito dalla dimensione della fede.

Ma siamo in grado oggi di leggere e raccontare la fede? Siamo in grado di andare al di là delle cose penultime? Perché quella porta che si chiudeva dietro lo svizzero, mentre Benedetto XVI era già scomparso alla vista dei fedeli, sembra aver davvero chiuso un mondo. Ma non ha mai fatto iniziare il nuovo mondo.

Con Benedetto XVI, se ne è andato anche il tentativo di guardare alla Chiesa al di là delle polarizzazioni, ma piuttosto attraverso quello che aveva da dire. Se ne è andato anche un modo di pensare, di ragionare. Se ne è andato perché noi lo abbiamo lasciato andare via.

In molti si lamentano della rinuncia di Benedetto XVI, oggi. Ma forse si tratta solo di una scusa. Semplicemente, Benedetto XVI dava una ragione per andare oltre. Senza di lui, non si riesce a stare al passo della storia. Così, si attacca chi è stato un punto di riferimento vivo, per giustificare un ritorno sui propri passi che sarebbe altrimenti ingiustificabile.

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