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venerdì 24 aprile 2020

Quando non abbiamo capito Benedetto XVI? La prima volta, quindici anni fa

Se dovessi individuare un momento in cui abbiamo cominciato a non comprendere Benedetto XVI, direi sicuramente la Messa di inizio del Ministero Petrino.  Perché nella omelia che  pronunciò c’era tutto Benedetto XVI in sintesi: la sua umiltà, il suo programma, le sue idee. Era una visione globale del mondo, che guardava molto oltre i dettagli. Ma tutti abbiamo cercato i dettagli, e lo abbiamo fatto secondo un linguaggio che non solo non era quello della  Chiesa, ma non apparteneva nemmeno a Benedetto XVI.

Quindici anni dopo, vale la pena rileggere quella  omelia.  Non è solo un esercizio di stile. È, più che altro, la necessità  di maturare una consapevolezza. Ho spesso parlato di come l’informazione religiosa sia influenzata da categorie e linguaggi di tipo politico, e ho anche sottolineato come la narrativa che viene costruita diventa ancora più  importante della realtà. E l’omelia del 24 aprile 2005, letta senza pregiudizi e con la possibilità oggi di fare un bilancio del pontificato, aiuta proprio a mostrare come Benedetto XVI sia davvero stato una occasione mancata per i giornalisti.

L’omelia si può leggere integralmente sul sito vaticano. Io mi limito a identificare alcuni passaggi chiave. Benedetto XVI  comincia con un dato liturgico, il canto delle litanie dei santi,  e la memoria di Giovanni Paolo II. È un atto di fede, ma anche un atto di umiltà. Racconta di un Papa che non si sente a capo della Chiesa, ma si sente davvero al servizio della Chiesa. Così al servizio che, quando ha sentito mancare le forze, ha deciso di rinunciare al ministero petrino.

Ma il dato liturgico serve a Benedetto XVI per affermare una grande verità: che “chi crede non è mai solo, non lo è nella vita e neanche nella morte”. Non erano soli nemmeno i cardinali in conclave, ma erano “circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio”. E non è solo nemmeno Benedetto XVI, non deve “portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare solo”.

È questo un nodo fondamentale del pontificato di Benedetto XVI. Tutta la sua vita è stata caratterizzata dalla ricerca della verità. E la prima verità, per Benedetto XVI, è la presenza di Dio. Dio sostiene gli uomini nelle loro mancanze, e solo l’assenza di Dio porta agli errori degli uomini. Non per niente, il  tema dell’assenza di Dio, e dell’uomo che si è dimenticato di Dio, è stato cruciale durante il pontificato di Benedetto XVI.

Il Papa emerito però vedeva una Chiesa “viva e giovane” proprio nel popolo fedele che si era radunato in piazza San Pietro per  dare l’ultimo saluto a Giovanni Paolo II, accompagnandolo durante l’agonia.  “La  Chiesa è  viva – essa è viva perché Cristo è vivo, perché egli è veramente risorto”, chiosa Benedetto XVI, che già stava pensando da tempo a scrivere i suoi volumi su Gesù di Nazaret, e in particolare quel capitolo sulla Resurrezione del  secondo volume sul  quale ha così tanto lavorato.

Benedetto XVI sa che tutti si aspettano che in quel discorso darà le linee guida del suo pontificato. Ma qui c’è un  colpo di scena. “In questo momento – afferma – non ho bisogno di presentare un programma di governo”. E aggiunge: “Il mio  vero programma di  governo è  quello di non fare la mia volontà, di non perseguire le mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della Parola e della volontà del Signore e di lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora  della nostra storia”.

È un messaggio chiaro: la Chiesa non risponde a logiche politiche, non ci sono programmi da fare. C’è da  comprendere come fare la volontà di Dio. Ancora una volta, la questione al centro è la fede. Si deve avere fede, si deve guardare a  Dio, si deve rimettere Dio al centro. Un messaggio che Benedetto XVI porterà avanti durante tutto il pontificato. Sarà in particolare visibile – e non è  un caso – durante il suo ultimo ritorno in Germania, nel 2011.

Non solo per i suoi discorsi sulla demondanizzazione di fronte ad una Chiesa di Germania autocompiaciuta delle sue strutture, ma con sempre meno fedeli. Soprattutto ad Erfurt, nel luogo dove Lutero fu monaco agostiniano, quando incontrando i Luterani sottolineò che lui sapeva che tutti si aspettavano un “dono ecumenico”,  vale a dire la revoca  della scomunica di Lutero. Ma spiegò che questo era appunto un ragionamento politico, perché il vero dono, per chi crede, è il cammino comune verso Dio.

Ma cosa fa Benedetto XVI a questo punto del discorso? Commenta “i due  segni con cui viene rappresentata liturgicamente l’assunzione del Ministero Petrino”. Il messaggio è chiaro: la Chiesa deve ripartire dai simboli, dai significati profondi delle cose in cui si crede. Tutto nasce da lì. La liturgia è l’espressione della fede, e deve  essere compresa.

E così, Benedetto XVI descrive il pallio, che è “un immagine del giogo di Cristo”, che “non per noi un peso esteriore, che ci opprime e ci toglie la libertà”. Anzi, “conoscere ciò che  Dio vuole, conoscere quale è la via della vita, questa era la gioia di Israele, era il suo grande privilegio”. Ed è questa anche la gioia dei cristiani, perché – diceva Benedetto XVI – “la volontà di Dio non ci aliena, ci purifica – magari in modo anche doloroso – e così ci conduce a noi stessi”. Si può leggere qui in controluce anche il pensiero di fondo della straordinaria meditazione di Ratzinger alla Via Crucis del 2005.  Una Via Crucis densa di speranza, ridotta però alla sola denuncia della “sporcizia nella Chiesa”.

Benedetto XVI va anche più a fondo, sottolinea che il pallio, fatto di lana d’agnello, simboleggia anche “la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita”, e questa per i padri della Chiesa è l’umanità che non trova più la strada.

“Il Figlio di Dio – chiosa Benedetto XVI - non tollera questo; Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione. Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo, per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce”.

Insomma, il pallio dice che “noi siamo portati da Cristo”, nelle tante forme di deserto, che sono, sì, quelle “della povertà,  della fame, e della sete, ma anche dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto, dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime sena più coscienza”.

Gesù Buon Pastore sta a significare che “non è il poter che redime, ma è l’amore”.
Benedetto  XVI sottolinea: “Quante volte noi desidereremmo che Dio si mostrasse più forte. Che Egli colpisse duramente, sconfiggesse il male e creasse un mondo migliore. Tutte le ideologie del potere si giustificano così, giustificano la distruzione di ciò che si opporrebbe al progresso e alla liberazione dell’umanità. Noi soffriamo per la pazienza di Dio. E nondimeno abbiamo tutti bisogno della sua pazienza. Il Dio, che è divenuto agnello, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza di Dio e distrutto dall’impazienza degli uomini”.

Anche in queste parole c’è un inno all’affidamento alla volontà di Dio. Ma c’è anche tutta la mitezza del modo in cui Benedetto XVI ha guidato la Chiesa. Benedetto XVI davvero si è messo in ascolto, e Benedetto XVI davvero non ha punito. Ha preso decisioni, ma sempre  guardando al di là delle situazioni. Semplicemente, lui cercava di essere guidato da una logica più grande, e così facendo dava l’esempio. Il suo “martirio della pazienza” è stato in realtà l’operato del Buon Pastore. Un operato che non è stato compreso perché letto con gli occhi dell’ideologia, non della fede.

E così, Benedetto XVI chiede di pregare. Pregare perché “impari sempre più ad amare il  Signore” e  anche  perché “io non fugga, per paura, davanti ai lupi”. Ma il non fuggire prevede un coraggio speciale. Non è il coraggio degli intrepidi, è il coraggio dei tranquilli di animo. Tranquilli perché in pace con Dio.

Quindi, Benedetto XVI spiega il segno dell’Anello del Pescatore, che ricorda anche le due pesche miracolose dei Vangeli, e in particolare  la seconda, quella che avviene dopo la Resurrezione. “Anche oggi – dice  Benedetto XVI - viene detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo – a Dio, a Cristo, alla vera vita”.

Ancora, si tratta della fede. “Noi uomini – dice Papa Benedetto - viviamo alienati, nelle acque salate della sofferenza e della morte; in un mare di oscurità senza luce. La rete del Vangelo ci tira fuori dalle acque della morte e ci porta nello splendore della luce di Dio, nella vera vita”.

E la missione di pescatore di uomini è quella di “portare gli uomini fuori dal mare salato di tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di Dio” e di “mostrare Dio agli uomini”,  perché solo laddove si vede Dio,  comincia veramente la vita”.

Benedetto XVI conclude ricordando che l’immagine del pastore e del pescatore  sono ora anche chiamate all’unità. Ed è stato questo un tema fondamentale nel pontificato di Benedetto XVI. In  pochi ricordano la visita alla moschea di Colonia, in occasione del viaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù. In pochi comprendono che la liberalizzazione del rito antico era un mezzo per richiamare all’unità anche le “pecorelle smarrite” dei tradizionalisti che negavano il Concilio. In  pochi comprendono tutto lo straordinario lavoro ecumenico fatto, di cui anche Papa Francesco sta raccogliendo i frutti.

C’era, in quell’omelia, già tutto il pontificato. Un pontificato, quello di Benedetto XVI, coerente. Una chiamata alla fede costante che non poteva che concludersi durante l’Anno della Fede da lui stesso proclamato.

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