La comunicazione di e
sul Vaticano sta profondamente trasformandosi. Non tanto, e non solo,
perché l’elezione di Papa Francesco è
stata marcata dall’idea di un “cambio di
narrativa”, ma anche perché sono profondamente cambiati i mezzi a
disposizione.
Con Papa Francesco,
si è verificato il fenomeno inverso: forte attenzione da parte della stampa
secolare, mentre sono proliferati diversi blog critici contro il Papa. Non ci
sono blog monotematici pro o contro il
pontificato di Papa Francesco, ma ci sono soprattutto luoghi in cui la
critica sull’operato di Papa Francesco si sviluppa in maniera più sistematica.
L’era di internet non ha cambiato la sostanza del mondo.
Basti ricordare che l’Humanae Vitae di Paolo VI fu soggetta di
una forte campagna stampa che si fece forza anche su bozze di documento
e pareri diffusi sottobanco alla stampa internazionale (oggi li chiameremmo leaks).
Di Giovanni Paolo II
ricordiamo solo gli ultimi anni, quelli drammatici della malattia, in cui
il mondo lo esaltava. Erano anche gli anni del post-Cortina di Ferro, quando la
figura del Papa si stagliava come un
gigante che aveva consentito di superare il mondo a blocchi. Eppure, non
mancava il dissenso interno, che veniva portato avanti anche attraverso i
media.
E infatti, nel 1990, la Congregazione della Dottrina della
Fede emana una istruzione, la Donum
Veritatis, sulla “Vocazione ecclesiale del Teologo”, in
cui si legge che il teologo che non si senta in linea con il magistero non deve
mai far venire meno “un atteggiamento di fondo di disponibilità ad accogliere
lealmente l’insegnamento del magistero”, si sforzerà di “comprendere questo
insegnamento nel suo contenuto, nelle sue ragioni e nei suoi motivi”, e se “malgrado tale sforzo, le difficoltà
persistono”, il teologo è chiamato a “far conoscere alle autorità
magisteriali i problemi suscitati dall’insegnamento in se stesso”, in uno “spirito evangelico, con
il profondo desiderio di risolvere le difficoltà”.
Ma – ammoniva l'istruzione – “in questi casi il teologo eviterà di ricorrere ai «mass-media» invece
di rivolgersi all’autorità responsabile, perché non è esercitando in tal
modo una pressione sull’opinione pubblica che si può contribuire alla
chiarificazione dei problemi dottrinali e servire la verità”.
Se questo veniva scritto, era perché succedeva. E un altro
tema fondamentale era dato dall’influenza di “una opinione pubblica artificiosamente orientata e dei suoi conformismi”,
perché “sovente i modelli sociali
diffusi dai «mass-media» tendono ad assumere un valore normativo; si diffonde
in particolare il convincimento che la Chiesa non dovrebbe pronunciarsi che sui
problemi ritenuti importanti dall’opinione pubblica e nel senso che a questa
conviene. Il Magistero, per esempio,
potrebbe intervenire nelle questioni economiche e sociali, ma dovrebbe
lasciare al giudizio individuale quelle che riguardano la morale coniugale e
familiare”.
In questa frase, c’è una chiave di lettura essenziale per
comprendere l’oggi. Mentre si parla sempre più di discernimento sui temi che riguardano la morale coniugale e
familiare (basti pensare al dibattito suscitato dall’esortazione apostolica
Amoris Laetitia), il pontificato è
molto apprezzato per una rinnovata enfasi data alle questioni economiche e
sociali. Una enfasi, tra l’altro, che
viene usata per andare a confermare dei punti di vista, mentre la Santa Sede
viene strumentalmente invocata come soggetto terzo. Nasce da qui il mito del “Papa comunista” e poi tutta la
contro-propaganda che vuole sfatare il mito, che in fondo serve solo a
normalizzare alcune posizioni.
Queste le premesse generali. Cerchiamo di comprendere,
piuttosto, i cinque trend della
comunicazione vaticana del futuro, che toccano anche la comunicazione di e
sul Vaticano. Diciamo, in questo anno che viene, perché una previsione sul
decennio sembra molto azzardata, considerando la velocità in cui cambia il
panorama dell’informazione.
Trend 1. Comunicazione sul Vaticano sempre più polarizzata
Lo scorso anno è stato caratterizzato dal dibattito che ha
fatto seguito alla “testimonianza”
dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò, la questione degli abusi in Cile e
nella Chiesa cattolica in generale, e poi
il recente cosiddetto “scandalo finanziario”, con la sospensione di cinque
officiali vaticani e una decisa virata di Papa Francesco sul tema delle
riforme. In più, c’è stata la questione del Sinodo dell’Amazzonia, con tutto il
dibattito che ne è conseguito, in particolare sui rituali amazzonici e la cosiddetta pachamama.
In tutti questi casi, ci si è divisi in due fazioni molto
precise, con linee molto critiche o molto difensive del Pontificato. È una tendenza che continuerà a crescere.
Per vari motivi.
Un motivo – forse
il principale- è che ogni notizia viene amplificata a
dismisura dai moltissimi media e canali, e dunque ogni dibattito viene
amplificato. Questa amplificazione crea un “rumore” nell’informazione, nel
quale è difficile orientarsi. Anche il lettore / utente non ha gli strumenti, né la pazienza per comprendere le
sfumature, specie se sono caratterizzate da tanto rumore. Dunque,
preferisce andare su media o organismi dove c’è una direzione precisa.
In pratica, il
lettore decide quale è la sua opinione e va lì dove la sua opinione è
rafforzata. Ed è su questo che contano i media che, per stare sul mercato,
tendono ad enfatizzare ulteriormente la dialettica “amico – nemico”.
Trend 2. I commenti saranno sempre più delle analisi
Buona parte degli
articoli di giornale sono in realtà commenti. Si divide il panorama
dell’informazione tra notizie secche e notizie commentate, con le seconde ad
avere una prevalenza sulle prime. Il
fenomeno delle firme è proliferato con la diffusione di internet e dei blog
(e infatti, i media più importanti hanno dei blog per le loro firme più note) e
dunque conta più chi scrive l’articolo che l’articolo stesso e il medium dove
l’articolo è pubblicato. Il medium,
tra l’altro, conta più dell’articolo stesso, perché è il medium che già dà una indicazione di linea. Per fare un esempio, non leggo Repubblica se non voglio trovare alcune argomentazioni tipiche del
mondo democratico di sinistra, non leggo il New York Times se non mi sento rappresentato dal liberalismo
americano, non leggo la Suddeutsche
Zeitung se non voglio essere
rassicurato su una linea conservatrice rimasta intatta nei secoli dei secoli.
Questo fenomeno andrà
a crescere. E lo farà anche e soprattutto per il mondo vaticano,
considerando che è sempre più difficile trovare specialisti nel settore. Lo
specialista, dunque, diventa una sorta
di vate per il lettore, e può permettersi di indicare al rettore la “sacra
via” dell’interpretazione, che il lettore prenderà acriticamente.
Anche questo è un fenomeno che riguarda il mercato. I media
hanno bisogno di click e di passaggi sulla pubblicità, perché il traballante mondo dell’informazione diventa sempre più
difficilmente sostenibile dal punto di vista economico. Così, la
scorciatoia è quella di includere commenti, sempre più forti e sempre più
schierati. Perché così la gente cliccherà. Ed è un dato con cui fare i conti.
Trend 3. La comunicazione vaticana sempre più centrata sui gesti del
Papa
Si assiste ad una
comunicazione vaticana sempre più centrata sulla figura del Pontefice regnante.
Papa Francesco, nel suo discorso di
auguri alla Curia, ha sottolineato la necessità di una convergenza
multimediale. La questione da comprendere è se questa convergenza multimediale vada a favore o a discapito della Chiesa.
La comunicazione vaticana ha un brand, ed è il Papa. Papa Francesco è un Papa particolarmente
utile alla comunicazione (mi si passi il termine utile) perché lavora sui
gesti e sulle frasi ad effetto. Così, anche le scelte, giuste o sbagliate che
siano, vengono portate avanti con gesti e frasi ad effetto che personalizzano
ogni cosa, accentrano, e giocoforza creano simpatie o antipatie. Ma funzionano proprio perché creano simpatie e
antipatie.
Il dubbio che viene è se portare avanti questo modello di
comunicazione vada a favore della Chiesa. Dopo
gli anni di San Giovanni Paolo II, e particolarmente gli ultimi
caratterizzati da un totale accentramento sulla figura del Santo Padre, ci sono
voluti quasi otto anni per tornare al
senso del messaggio piuttosto che al personaggio. E si è passati di mezzo
ad un Papa, Benedetto XVI, che ci
teneva alle parole più che alle immagini, che ha basato tutte le sue catechesi
sulla profondità, considerando ovvio che quando si è profondi è difficile
essere visti in superficie.
Eppure, il trend è lì, e
sembra inarrestabile. Si punterà ad una comunicazione efficace, piuttosto
che ad una comunicazione concreta. Ad una comunicazione che passi sui media
secolari anche quando si tratta di fare accordi con i media secolari o quando
si tratta di riprenderli, come è successo.
Due esempi: l’intervista
al segretario generale delle Nazioni Unite, fatta da Vatican News in
collaborazione con La Stampa; e
l’intervista del Sole 24 Ore al
presidente dello IOR De Franssu, ripresa
in tutte le lingue dai media vaticani. Se deve essere comunicazione
istituzionale, deve passare dall’istituzione.
Sembra come se la Santa
Sede voglia sempre più essere ancella dei poteri secolari, in una sorta di
patto, piuttosto che andare a produrre contenuti. Perché, in fondo, non ha
potuto Vatican News intervistare direttamente De Franssu o fare un
approfondimento mostrando tutti i punti di vista in campo? E perché
l’intervista a Guterres doveva essere fatta in collaborazione con La Stampa quando il segretario generale
delle Nazioni Unite non solo andava a visitare il Papa, ma si prevedeva anche un video messaggio da parte dei due leader
filmato dai media vaticani?
Tutto nasce da un “peccato originale” di fondo: la comunicazione vaticana centrata sul
leader ha anche in sé l’idea di collaborare il più possibile con tutti perché
l’immagine del leader sia diffusa. Si dirà che si tratta di costruire
ponti. La domanda è se questo trend non vada a detrimento della comunicazione
vaticana stessa, e in particolare a detrimento della stessa Santa Sede.
Trend 4. Il sempre maggiore impatto dei blog sui media tradizionali
Come detto, il formato
del blog è ormai parte del sistema di informazione. E, seguendo il trend
della polarizzazione e dei commenti più importanti delle notizie (vedi sopra),
i blog hanno un impatto sempre maggiore. Sta
finendo il tempo delle testate giornalistiche, comincia il tempo dei media
liberi. Sta finendo quel tempo proprio perché le testate giornalistiche
hanno rinunciato a quel lavoro di sintesi e di analisi che ne faceva gli
intermediari tra la notizia e il lettore.
Le notizie, oggi, non
hanno bisogno di intermediari. Viaggiano e basta. Chiunque può dare una
notizia. Non tutti sono giornalisti. Il giornalista è dunque chiamato ad
analizzare la notizia, a spiegarla. Il
vecchio modello anglosassone prevedrebbe che il giornalista non avesse una
opinione, ma cercasse esperti. Anche quello è un modello fallimentare. Gli
esperti hanno una opinione, la stessa scelta degli esperti racconta qualcosa. A
quel punto, è meglio che il giornalista sia preparato, abbia una visione del
mondo e una specializzazione.
Per un giornalista, oggi,
serve essere veloce, approfondito, esperto sui temi i ncui scrive. Tre
caratteristiche difficili da trovare in tutti, e tra l’altro costose. Si cercano le scorciatoie, e tutti si
occupano di qualunque cosa pur di portare a casa un prodotto che crei qualche
profitto.
Questo favorisce in qualche modo il proliferare dei blog. I blog danno opinioni veloci, sono a volte usa
e getta, a volte hanno alta qualità, altre volte meno, ma in fondo vanno a
sostituire il ruolo che avevano una volta i giornali di opinione. L’ascesa del blog ha un po’ a che fare con
l’ascesa del populismo.
Tutti pensano di avere
soluzioni politiche, così come tutti possono essere giornalisti. È la
democrazia della cultura, che va ormai per la maggiore e che riguarda un po’
tutti i campi. E viene da pensare a quello che scrisse
Isaac Asimov, su Newsweek, nel 1980. Parliamo di 40 anni fa, eppure è un
tema sempre attuale.
Scriveva Asimov:
“C'è un culto dell'ignoranza negli Stati Uniti, e c'è sempre stato. Una vena di anti-intellettualismo si è insinuata nei gangli vitali della nostra politica e cultura, alimentata dalla falsa nozione che democrazia significhi "la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza".
Ecco, sembra che anche i
media si siano arresi a questo punto di vista. Perché è un punto di vista in
cui comunque si riconoscono tutti. Il trend sarà quello di media sempre più
urlati, quasi come blog, e di blog approfonditi, ma fatti di commenti, e non di
analisi.
Trend numero 5 La
de-istituzionalizzazione
Si va sempre più verso una de-istituzionalizzazione.
È un processo inesorabile, che ha riguardato prima di tutto la cultura, e che
ora sta riguardando le istituzioni in generale e anche i media.
Sempre in Newsweek, Asimov scriveva:
“Abbiamo anche una nuova parola d'ordine per indicare chi ammiri la competenza, la conoscenza, l'apprendimento e l'abilità, o che voglia diffonderli. Persone di quel tipo sono chiamate ‘elitisti’. Questa è una delle più divertenti parole d'ordine mai inventate, perché quelli che non sono membri dell'élite intellettuale non sanno cosa sia un "elitista" né sanno come pronunciare tale parola. Appena qualcuno grida "elitista!" diventa immediatamente chiaro che lui o lei è un elitista mascherato, che si sente in colpa per essere andato a scuola”.
È il tema di tutti i populismi, che viene ripreso anche dai
media. Ed è un tema molto forte anche in Papa Francesco. Papa Francesco non è un Papa contro la dottrina, come molti vogliono
credere. È piuttosto un Papa anti-istituzionale.
Il tema dell’elitismo di Papa Francesco era ben presente nel botta e risposta con gli studenti
all’Università di Roma Tre il 17 febbraio 2017, quando ha puntato il dito
contro le “università di élite, che sono
generalmente le cosiddette università ideologiche”, che “insegnano questa linea soltanto di pensiero, questa linea ideologica e
ti preparano per fare un agente di questa ideologia”. Parole che, in fondo,
riprendevano una critica comune al mondo universitario, ma che di fatto non
stanno a descrivere la realtà delle università di élite, università dove
l’istruzione è superiore.
Nel discorso finale al Sinodo sull’Amazzonia, il 26 ottobre 2019,
Papa Francesco ha poi sottolineato che “non siamo un gruppo di cristiani di
élite”.
Sono temi ben presenti nel
dibattito, non solo da parte di Papa Francesco, e che identificano le élite,
appunto, in senso classista, come se ci fosse una classe di cittadini che si
sente superiore. Se questo è il ragionamento, allora anche le istituzioni sono
da considerare una élite pericolosa, sganciata dalla realtà, e dunque da
bypassare.
Questa mancanza di istituzionalità è un tema comune,
che andrà a pervadere tutti i media.
Già i blog stanno avendo sempre più peso (vedi punto 4), a poco a poco non ci
sarà più alcun peso istituzionale.
Colpisce che i media entrino
in questo dibattito da un punto di vista di élite visto proprio nel senso della
lotta di classe. Sono i media che decidono chi sono coloro che influenzeranno
il sistema, i media che decidono le nuove élite populiste. Resta difficile
pensare una Greta Thunberg senza una
diffusione capillare del suo messaggio sui media, così come una Diletta Leotta (e mi si perdoni il
paragone) senza andare a vedere come tutti vadano a riprendere ogni cosa che
fa.
La comunicazione vaticana non
sarà da meno. Ci sarà sempre più l’idea
di una Chiesa fatta per la gente, una Chiesa popolare, una Chiesa più umana e
meno divina perché così le persone potranno riconoscervisi. Non è un caso
che le accuse alla Chiesa del passato erano quelle di essere rinchiusa nelle
corti, di essere sganciate dalla gente, di essere “aristocratiche” nel senso
peggiore del termine.
Accuse
false, se si va a vedere la storia.
Accuse mosse da tutte le rivoluzioni democratiche dell’ultimo secolo a quanti
sono al potere con il semplice scopo di andare a rimpiazzare le élite con altre
élite. Ma accuse che continuano ad essere considerate e diffuse.
Gli antidoti
Ci sono degli antidoti a
questi trends?
Ci sono, ma ci vuole molto
coraggio. Mi riferirò solo alla comunicazione vaticana e sul Vaticano, che è
quella di cui mi occupo.
Antidoto numero 1: la cultura come
servizio
C’è, prima di tutto, bisogno
di un
giornalismo che non punti alla singola notizia, ma all’analisi, allo studio,
all’approfondimento. Un giornalismo di nuovo tipo, ma che mantenga il
senso della professione. Tutti possono scrivere una notizia, ma non tutti sono
giornalisti. Tutti
possono parlare di Vaticano, ma non tutti sono vaticanisti. E si deve
essere consapevoli che non si tratta di formare una élite nel senso classista
del termine. È che essere élite, avere un certo tipo di cultura, è quello che è
richiesto ai giornalisti per svolgere la professione. Perché il giornalista deve essere il mediatore tra la notizia e le
persone e deve dare alle persone strumenti di analisi. La cultura è un
servizio, non uno strumento di potere.
Antidoto numero 2: meno commenti, più
analisi
Il punto è che si devono dare tutti gli strumenti possibili per farsi una
opinione, senza però necessariamente dover commentare quello che è successo.
È un discrimine difficile, ma il vero obiettivo oggi è l’analisi. L’analisi è
democratica perché parte da un punto di vista e lo ammette, ma poi lo argomenta
e tiene in considerazione tutti gli altri punti di vista. Ragiona secondo il paradigma popperiano delle “Congetture e
falsificazioni”: cerca tutto ciò che non conferma una tesi, piuttosto che
tutto ciò che lo conferma, e poi ovviamente dà una sintesi. È la via lunga, ma
dà profitto.
Antidoto numero 3: evitare la
personalizzazione
In un mondo sempre più populista, la personalizzazione delle azioni e
l’accentramento del focus sui leader è un tema principale. Tutto si basa
sull’immagine pubblica, e più questa immagine rispecchia quella dell’uomo
comune, più la gente vi si riconosce. Più la gente vi si riconosce, più cerca
quelle informazioni. È il principio di Juan
Domingo Peron, che va con i descamisados,
e – togliendosi la camicia – non mostra di essere uguale a loro, ma di farsi
uguale a loro, rimanendo però il loro leader.
Come evitare questa logica? Relativizzando l’immagine del leader,
contestualizzando ogni cosa storicamente, evitando l’agiografia che a volte
rischia di tradursi in corto circuiti comunicativi particolari. Come quando
si è paragonato il gesto di Papa
Francesco di inginocchiarsi davanti ai leader del Sud Sudan a quello di Paolo
VI davanti a Melitone: sono due cose diverse, con due contesti diversi e
due significati diversi. Non si possono
comparare. Il rischio è quello di non fare un buon servizio alla verità.
Meglio, invece, raccontare le ragioni del gesto, identificandone pro e contro.
Antidoto numero 4: separare le
istituzioni dalle persone
È facile identificare una istituzione come “marcia” perché le persone che la
compongono sono corrotte o hanno compiuto atti illegali. Più difficile
distinguere l’istituzione dalle persone, evitando di gettare, come si dice, il
bambino con l’acqua sporca. Questa
stagione della Chiesa ha visto la stessa istituzione messa sotto attacco per
via degli scandali della pedofilia o per i presunti errori finanziari.
Ma l’istituzione è una cosa
che va separata dalle persone, così come lo sono le procedure. Queste ultime,
sono sempre perfettibile. Una falla nelle procedure, però, non giustifica un
giudizio negativo sulla intera istituzione. Si deve guardare una istituzione
nella sua storicità. L’istituzione è
servizio, e questo vale soprattutto per la Chiesa. Il problema è quando
l’istituzione non viene considerata come servizio. Ma è un problema delle
persone, e come tale deve essere raccontato.
Purtroppo, è la stessa
istituzione che a volte subisce il
fascino degli attacchi contro di essa, con una forma di “Sindrome di
Stoccolma”. Ma questo porta l’istituzione a uccidere se stessa, a prendere
provvedimenti che vanno oltre le necessità e che addirittura non vanno a
rispondere alle necessità, ma minano la stessa istituzione dall’interno. Un esempio è quello dell’abolizione del
segreto pontificio sulle questioni di abuso. Davvero l’abolizione del
segreto pontificio era necessaria? Senza entrare nei dettagli tecnici, l’ultima decisione dà l’idea che il segreto
pontificio fosse un principio per la copertura dei casi di abuso, mentre in
realtà era semplicemente un principio organizzativo, per garantire indipendenza
e correttezza delle decisioni. Nessuno lo ha spiegato. Nemmeno dalla
comunicazione istituzionale della Santa Sede.
Antidoto numero 5: festina lente
Uno dei motti preferiti da Italo Calvino era “Festina Lente”, il
motto delle tipografie Manuzio. Vale a dire: affrettati lentamente. C’è bisogno
di andare oltre la necessità di pubblicare subito, per pubblicare subito e
bene. Ci vuole maggiore approfondimento
in tutti gli articoli, che non possono più essere solo notizie, ma devono
fornire un background. Solo se riuscirà a fare questo, il giornalista (e in
particolare il giornalista che si occupa di Vaticano) sarà in grado di
proiettarsi verso un nuovo tipo di giornalismo.
Per
ora, ci sono o le notizie veloci o le notizie date con toni enfatici,
mentre manca appunto la capacità di fermarsi, guardare alle situazioni e poi
dare un punto di vista. Ci vuole grande
umiltà epistemologica per questo. E non è facile.
Buon Anno gagliardo ��
RispondiEliminaDa quello che si percepisce in questo inizio anno sembra che la polarizzazione sia destinata ad aumentare , sia nei riguardi della comunicazione in sè - ormai ridotta all'analisi dei gesti/discorsi estemporanei del papa - sia come chiave di lettura all'interno di "fazioni" pro o contro sempre più definite. L'utilizzo del blog in modalità di commento anzichè di analisi rifletterebbe secondo i critici la necessità di bucare la 'cortina di ferro' posta intorno al pontificato. Ovviamente è una facoltà riservata a poche firme importanti che evidentemente possono essere tollerate (come nei regimi direbbero i maligni) anche se gli stessi ne pagano le conseguenze (es. Valli trasferito di peso allo sport che si arma di santa pazienza e continua con altri mezzi la sua testimonianza personale) Si tratta però di esempi molto limitati se riferiti allo strumento utilizzato. Anni fa il blog era invece molto popolare perchè tutto il contesto era aperto alla discussione e determinate tematiche potevano essere trattate anche dai non addetti ai lavori. Anche quando la polarizzazione diventava dominante non era raro trovare nel blog una vera e propria rassegna parallela come nel caso citato di Raffaella. Era appunto questa consonanza singolare - ma non casuale - tra papato e semplici fedeli che rendeva possibile tutto questo. Cosa ancor più singolare se si pensa che la maggior parte delle iniziative culturali cadevano nella sostanziale indifferenza dell'episcopato o finivano per tradursi in iniziative di senso opposto. Basti pensare al 'Cortile dei Gentili' nato per avvicinare i non credenti e divenuto passerella glamour dell'ateismo vip.
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