Il viaggio di Papa
Francesco in Giappone, le storie dei martiri giapponesi e l’epopea della
Chiesa del silenzio nipponica, che rimase viva senza preti e senza sacramenti
per due secoli, portano anche ad una riflessione su come la Chiesa viene
raccontata sui media. Perché la storia
della Chiesa del silenzio è stata raccontata nel film Silence, di Martin
Scorsese, che raccontava la storia di un gesuita apostata nel tempo delle
persecuzioni. E quel film, uscito nel 2016, raccontava molto di come la Chiesa venga percepita o caratterizzata.
Come faceva un altro film che usciva sempre nel 2016: The Revenant.
Sono temi non banali, che servono come filo rosso per
comprendere il modo in cui il mondo vuole vedere la Chiesa. Di Silence, aveva dato un ritratto vivido il
vescovo Robert Barron,
ausiliare di Los Angeles, molto conosciuto per le sue sortite sui media. In un
articolo su Wordonfire, questi aveva notato come alla fine
sia proprio una Chiesa che non riesce a combattere fino alla fine quella che
viene dipinta.
La storia di Silence è
nota: due giovani gesuiti sono inviati in Giappone, dove la persecuzione
anti-cristiana ha raggiunto vette di sangue incredibile, per trovare padre
Ferreira, il loro mentore sospettato di aver fatto apostasia. E in effetti
scoprono che questi ha davvero fatto apostasia, e che vive con una moglie che
gli è stata data dallo Stato. Lo scoprono quando, catturati, vengono sottoposti
a ogni tipo di pressione perché calpestino l’immagine di Gesù, compresa la
crocifissione di alcuni fedeli cristiani giapponesi di fronte ai loro occhi.
E la scena si concentra
su padre Rodrigues, che – una volta scoperto che il suo mentore ha compiuto
l’apostasia – di fronte a cristiani torturati in maniera orrenda, al culmine
dell’angoscia, sente quella che crede di essere la voce di Gesù che lo invita a
calpestare la sua immagine. Lo farà, commetterà apostasia, e diventerà anche
lui un officiale di Stato, con tanto di moglie assegnatagli dal governo.
Ed è qui il punto, per il vescovo Barron. Il quale si chiedeva: come sarebbero invece
dipinti i protagonisti del film se, invece di essere gesuiti, fossero invece
soldati aiutati dai civili e catturati oltre le linee nemiche, che alla fine
rinunciassero alla lealtà verso il loro Paese e vivessero una vita confortevole
tra le linee di quelli che una volta erano nemici? In questo caso, si parlerebbe di traditori.
“La mia preoccupazione – sottolineava il vescovo Barron – è che tutto
questo sottolineare la complessità e multivalenza delle situazioni fa gioco
all’élite culturale di oggi, non troppo differente dall’élite culturale
giapponese dipinta nel film”. Insomma, “l’establishment secolare preferisce
sempre cristiani che vacillano, che sono insicuri, divisi, e allo stesso tempo
disposti a rendere la loro fede privata”.
Il film termina mostrando padre Ferreira che mostra un crocifisso nascosto, a testimoniare
che lui ha sempre vissuto da cristiano. Ma è davvero questo che sono i
cristiani? Davvero il martirio dei cristiani, saldi della fede, è una cosa
troppo complessa, troppo poco umana, per poter essere affrontata dalle persone?
Il punto del vescovo Barron porta
con sé molte delle questioni che si sono aperte con il Pontificato di Papa Francesco, così incline a guardare
dentro la debolezza umana e a enfatizzare il ruolo della misericordia, che pure Benedetto XVI riteneva fondamentale.
In generale, sulla base della debolezza umana e della difficoltà ad affrontare
alcune situazioni di vita, si tende ad annacquare l’insegnamento cristiano.
Come se i cristiani non fossero in grado
di accogliere con pienezza l’insegnamento del Vangelo.
E qui ci viene in aiuto l’altro film sotto il segno del quale è iniziato il 2016:
the Revenant. Un film che allude solo fugacemente all’eroica
epopea dei gesuiti che tra il Seicento e l’Ottocento evangelizzarono il Nord
Ovest americano.
L’epoca cui fa riferimento il film è l’inizio Ottocento, quando cominciarono le grandi spedizioni
di trapper nel Nord Ovest americano, dopo che la Louisiana
fu venduta dai francesi agli Stati Uniti nel 1803. È l’epoca dei grandi
esploratori, e dei grandi scontri con le tribù indiane. Ma è anche – ed è un
aspetto che il film sembra tralasciare – l’epoca dei grandi missionari.
Il film non ne parla, ma un accenno si può trovare quando Hugh Glass, il protagonista – impersonato
da Leonardo Di Caprio – vede in sogno il figlio che gli è stato ucciso dal
compagno traditore mentre si erge muto tra le rovine di una chiesa cattolica.
E cosa ci fa una chiesa cattolica lì? Rappresenta proprio
l’aspetto dimenticato, ovvero il ruolo che una serie di missionari eroici, soprattutto cattolici e in particolare gesuiti,
ebbero proprio nelle terre di Revenant. Mossi solo dalla volontà di salvare
le anime, fecero rapidamente presa nella cultura dei nativi americani, tanto
che alcuni storici sostengono che solo la velocità e la brutalità
dell’espansionismo statunitense che impedì il nascere di esperienze come
le reducciones dell’America del Sud.
Eccoli, gli eroi: Jean
de Brébeuf (1593-1649), Isacc Jogues
(1607-1646) furono uccisi in diversi posti di quello che oggi è lo Stato di New
York, dopo aver evangelizzato, battezzato ed educato i nativi americani.
Le prove che dovettero sopportare furono incredibili: padre Jogues fu catturato dai Mohawk,
stette un anno a patire le torture in prigione, fu rimandato in patria con le
dita di una mano amputate, tornò negli Stati Uniti, fu catturato dagli
irochesi, e fu allora ustionato con acqua bollente e carboni ardenti, poi gli
furono spezzate ad una ad una le articolazioni e quindi tagliati uno dopo
l’altro naso, lingua, orecchie e gli furono cavati gli occhi.
Ammirati dal sacrificio, gli irochesi ne mangiarono cuore e
sangue, e poi – arrivati nelle Montagne Rocciose, tramandarono l’ammirato ricordo di Brebeuf e compagni. Un seme
che fiorì. Perché quando 150 anni dopo i gesuiti si stabilirono a Saint Louis,
furono proprio gli Irochesi a chiedere che uno di loro abitasse tra loro.
Rispose all’appello il gesuita Pierre-Jean
de Smet (1801-1873), belga, che viaggiò e visse in situazioni proibitive,
vincendo il cuore degli indiani al punto che il governo federale ne fece il
diplomatico di punta nelle relazioni con i pellerossa.
La traccia lasciata da De
Smet fu fortissima. Nel 1862, a Mankota, 33 Sioux su 38 che erano stati
condannati a morte chiesero l’accompagnamento spirituale del gesuita francese Augustin Ravoux (1815-1906), un
cattolico che fu preferito a un santone della loro tribù o ai due pastori
protestanti presenti. In quattro giorni, i 33 Sioux impararono a recitare il
Credo, il Padre Nostro, l’Ave Maria, l’atto di dolore, e affrontarono la morte
serenamente. Fu un esempio: l’anno successivo, 300 famiglie Sioux chiesero di
essere visitate da Ravoux e 200 indiani
si fecero battezzare.
Ma di tutta questa storia, così cruciale, non c’è traccia
in The Revenant.
Così The Revenant e Silence raccontano
in fondo come il mondo vuole la Chiesa cattolica: in silenzio, debole,
oppure – quando è forte – marginalizzata, costretta a stare nelle pieghe della
storia piuttosto che ad esserne protagonista.
La domanda che viene da fare è se davvero una Chiesa così, una Chiesa che non è in grado di superare
le difficoltà della vita, ma piuttosto cede, possa essere una Chiesa di
profezia.
La risposta la dà, in fondo, la storia della Chiesa del
Giappone, con tutto quello che è successo dopo il periodo del “silenzio”.
Il bando contro i cristiani fu rimosso solo nel 1873, dopo
250 anni di clandestinità. I cristiani giapponesi non dimenticheranno mai
questo periodo.
Ed è qui che la
storia di “Silence” si lega ad un’altra storia. La maggior parte dei
discendenti dei Cristiani nativi giapponesi si erano stabiliti a Nagasaki, e
furono decimati dalla bomba
atomica sganciata sulla città il 9 agosto 1945: di 12 mila cattolici, 8500
morirono. Per miracolo, si salvo il monastero Mugenzai
no Sono (il Giardino dell’Immacolata) costruito da padre
Massimiliano Kolbe prima di ritornare in Polonia e morire nel campo di
concentramento di Auschwitz.
Ma la bomba fece più danno del previsto: doveva detonare a
Nagasaki, detonò invece nella zona di
Urakami, perché mancava il carburante necessario al velivolo per fare la
rotta prestabilita. Colpa di un calcolo sensibilmente sbagliato. E fu così che
la cattedrale di Urakami, la più grande Chiesa cattolica d’Asia del tempo, si trovò a soli 500 metri dal cosiddetto
“Ground Zero”.
Tutti i sopravvissuti, intervistati dopo la distruzione
della città, ricordavano dell’esilio dei loro nonni in altre regioni del
Giappone a causa del loro ritorno ufficiale al cattolicesimo dopo 250 anni di cristianità nascosta.
Sarebbero molte le storie da raccontare. Come quella dell’orfano Ozaki Tomei, che prese
questo nome da novizia nel monastero di padre Kolbe. Una scelta insolita, per i
giapponesi, che in genere scelgono nomi di santi occidentali. Ma Ozaki Tomei
aveva un significato: era una bambina martire del 1597, che veniva proprio da
Nagasaki. Scrittore prolifico sul suo blog fino ad età
avanzatissima, la capacità di Ozaki di non perdersi d’animo è forse proprio
frutto di quelle vite dei missionari giapponesi che erano rimaste in
clandestinità, e che Scorsese definisce “Silenzio”.
Un silenzio che fu
inizialmente considerato controverso, perché dava l’idea di una fede non
vissuta. Un silenzio che proveniva anche dall’apostasia, sebbene padre Chrisovao Ferreira, la figura storica
cui si è basato poi il romanzo Silence da cui è stato tratto
il film, sembra si convertì di nuovo alla fine della vita, morendo da martire
dopo che la sua apostasia nel 1663 aveva scioccato il mondo.
I cattolici del Giappone ci sono ancora, con figure eroiche
come quelle
di Takayama Ukon, il cosiddetto samurai di Cristo. I cattolici sono
sopravvissuti al silenzio, e forse non è un caso che alla fine della Seconda Guerra Mondiale proprio la città
più cattolica del Giappone sia stata bombardata. Quasi un segno a
testimoniare le persecuzioni cui ancora oggi i cristiani sono soggetti.
La Chiesa del
silenzio, la Chiesa messa ai margini, la Chiesa dalla fede privatizzata è
l’obiettivo che vogliono tutti i nemici della fede cattolica.
Eppure, a leggere la storia vera, si comprende come i cristiani
abbiano invece portato la luce. A partire dall’ultimo libro di Angela
Pellicciari, “Una storia unica”, che
va a rileggere l’opera dei conquistadores
spagnoli come
un’opera di straordinaria evangelizzazione, che infatti portò alle reducciones dei gesuiti.
La sfida, per i cattolici, e per i cattolici nei media, è
quella di andare oltre il complesso di inferiorità culturale cristiano che fa sembrare
la storia secolare sempre più scintillante. Diventare consapevoli che il cristianesimo ha forgiato l’identità
d’Europa, ha creato i diritti umani con Francisco de Vitoria, si è da
sempre opposto alla schiavitù in nome della dignità umana. È una fede che è nel
mondo, ma non del mondo. Una fede che forse ora rischia di vivere nella
catacombe, confinata in piccole comunità come aveva profetizzato Joseph Ratzinger nel 1978. Una fede che
però ha ancora la forza di brillare, nonostante il modo in cui l’opinione
pubblica e lo showbiz continua a dipingerla.
Articolo
precedentemente pubblicato in
Mondayvatican il 2 gennaio 2017 e adattato e aggiornato
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