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mercoledì 30 ottobre 2019

Giornalismo vaticano, oltre le polarizzazioni


La dinamica della polarizzazione non ha dato scampo nemmeno al Sinodo Speciale per la Regione Panamazzonica. Terminato la scorsa settimana, rimasto “aperto” in attesa delle conclusioni di Papa Francesco, che terminerà il tutto con una intervista post-sinodale, il Sinodo non si è caratterizzato tanto per il dibattito in aula, quanto per il dibattito fuori dall’aula. Al termine del Sinodo, Papa Francesco ha chiesto ai giornalisti di vedere il documento finale nel suo complesso, senza guardare ai dettagli.


 La richiesta di Papa Francesco non è nuova. La aveva fatta già a Cuba, nel 2016, dopo aver firmato il documento congiunto con il Patriarca di Mosca Kirill. In quel caso, sottolineò che si trattava di un documento “pastorale”. In altri casi, durante le conferenze stampa in aereo, Papa Francesco chiede di confrontare i dettagli perché sta parlando a memoria.

Ma il problema non sta nei dettagli. Tutti i documenti hanno dettagli che possono essere criticati, e restano emblematiche – senza andare troppo indietro nel tempo – le critiche alla Dominus Iesus della Congregazione per la Dottrina della Fede, alla lettera di Benedetto XVI alla Chiesa di Irlanda, persino alla Centesimus Annus di San Giovanni Paolo II.

Il problema sta, piuttosto, nel modo in cui il dibattitoviene portato avanti. E i problemi che vedo sono due.

Il primo problema: il giornalismo è diventato sempre più una questione di narrativa. Si crea una narrativa per catturare l’attenzione del lettore. La moltiplicazione dei media non ha fatto che accentuare questo fenomeno. Una analisi ben fatta, dove ci sono tutte le sfumature delle posizioni in gioco, risulta comunque meno accattivante di un testo in cui si crea un cattivo. Si cerca il conflitto, lo scontro. E, se questo non c’è, si rappresenta. La tecnica giornalistica è, appunto, tecnica narrativa. Il contenuto passa in secondo piano.

Il secondo problema: la polarizzazione viene sfruttata dalle parti in causa. Lungi dal cercare la verità, le parti che vengono interpellate cercano di raccontare sempre il loro punto di vista sulla verità. È la loro verità, che può essere vera o falsa, ma è sempre un racconto parziale, che prende un solo punto di vista.

Anche la narrazione di un evento come il sinodo si snoda tra questi due poli. Con una aggiunta: la comunicazione istituzionale sul Sinodo. Perché la comunicazione istituzionale dei media vaticani possiede essa stessa una agenda, è filtrata, vuole dare un punto di vista.

Tutte queste dinamiche si sono incrociate sul Sinodo speciale per la Regione Panamazzonica. La tecnica è quella di creare una polemica per mettere in crisi la narrativa della fazione avversa. Si gioca in una partita di scacchi mediatica, in cui la comunicazione istituzionale ha il compito di dare il punto di vista ufficiale.

Quanto queste tre narrative sono credibili? Ben poco, perché sono tutte orientate  verso qualcosa, tutte hanno un secondo fine.

Benedetto XVI parlò di un Concilio reale e un Concilio dei media. E, in effetti, è stato proprio a partire dal Concilio che si è creata questa polarizzazione, un po’ stimolata dal crescente interesse che c’era per la Chiesa cattolica, un po’ con l’idea di poter in qualche modo influenzare il dibattito nella Chiesa cattolica, e – perché no? – anche cambiarne la dottrina. Una Chiesa che cambia punto di vista è una Chiesa che diventa ininfluente, perché perde quella saldezza dei principi che ne hanno sempre caratterizzato la storia, al di là delle debolezze umane di quanti alla Chiesa cattolica appartengono.

Dopo il Concilio reale e il Concilio dei media, c’è stata una Chiesa reale e una Chiesa dei media, una Humanae Vitae reale e una Humanae Vitae dei media, un pontificato di Giovanni Paolo II reale e uno, dieci, cento pontificati di Giovanni Paolo II dei media.

E così, tutto il lavoro è stato soprattutto quello di dover andare oltre le polarizzazioni. È l’unico modo di comprendere davvero la Chiesa.

Tanto che, nel 1990, la Congregazione della Dottrina della Fede pubblicava l’istruzione Donum Veritatis, sulla vocazione dei teologi. Si parlava anche del dissenso.

 Si diceva che ai teologi non potesse “mai venir meno un atteggiamento di fondo di disponibilità ad accogliere lealmente l’insegnamento del magistero”, che quindi il teologo si sarebbe dovuto sforzare a comprendere “questo insegnamento nel suo contenuto, nelle sue ragioni e nei suoi motivi”, e – se le difficoltà persistessero – il teologo ha il dovere di “far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall’insegnamento in se stesso”, e lo farà “con spirito evangelico, con il profondo desiderio di risolvere le difficoltà”, aiutando così ad un “reale progresso”.

In questi casi, però – si legge nel testo- il teologo
 eviterà di ricorrere ai «mass-media» invece di rivolgersi all’autorità responsabile, perché non è esercitando in tal modo una pressione sull’opinione pubblica che si può contribuire alla chiarificazione dei problemi dottrinali e servire la verità”.

Era un testo che parlava proprio della necessità di evitare il dibattito mediatico, per i motivi che si è detto. Il dibattito mediatico è, in fondo, l’opposto della comunione, che è quello che la Chiesa Cattolica cerca.

Come è stato dunque percepito questo Sinodo? Si potrebbe giocare come Guareschi in “Peppone e don Camillo”, e categorizzare le cose come “visto da destra” e “visto da sinistra”.

Visto da sinistra, il Sinodo è stato una grande apertura alla cultura amazzonica, che non va sottovalutata né colonizzata; è stato una apertura al diaconato femminile, al riconoscimento delle suore che ascoltano la confessione (tra l’altro, magnificate anche in un articolo unificato di Vatican News / Osservatore Romano), ad una visione pragmatica di Chiesa che ha come primo obiettivo quello di distribuire l’Eucarestia; è stato un primo passo verso il sacerdozio femminile, e comunque verso un rito amazzonico che potrebbe portare persino ad una Chiesa sui iuris, ovvero all’esaltazione delle Chiese particolari.

Visto da destra, il Sinodo è stato l’inizio della rottura definitiva della tradizione; il ritorno del mito illuminista del “buon selvaggio”, e questo nonostante, in fondo, l’evangelizzazione abbia emancipato i popoli dell’Amazzonia, li abbia liberati dai sacrifici umani, abbia dato ai popoli indigeni organizzazione e sviluppo; e ancora, il Sinodo è stato frutto di una agenda deliberata per cambiare l’insegnamento della Chiesa, con il riconoscimento di idoli, di riti pagani, entrati dalla finestra e persino accettati da Papa Francesco.

Il documento finale del Sinodo un po’, a mio avviso, prende di questa polarizzazione, sembra fare sua una agenda, tanto è attento a mettere in scena tutti i temi del dibattito. Si nota che tutti i punti sono passati con più dei due terzi, ma non si nota che si tratta di un Sinodo speciale, che quasi tutti i vescovi provengono da un certo territorio, e sono stati scelti anche sulla base delle loro idee.

Tutto contribuisce ad una polarizzazione, mentre la comunicazione istituzionale si affanna a sottolineare cosa non potrà mai cambiare nella dottrina della Chiesa, a modo di rassicurazione.

Eppure, ci sono molte cose che mancano nel dibattito, e che pochi o nessuno notano.

Manca una seria discussione sul senso dell’Eucarestia: è un sacramento, e come tale un tesoro da preservare; o è piuttosto un bene da distribuire il più possibile, anche a costo di cambiare la disciplina della Chiesa?

Manca una seria discussione sulla pastorale vocazionale. Si è detto che i seminari non sono luoghi adeguati alla formazione di sacerdoti per l’Amazzonia, ma non si è parlato in generale di come fare curricula di seminari che formino davvero sacerdoti formati e pronti.

Manca una discussione sulla missione. Perché i sacerdoti preferiscono emigrare negli Stati Uniti, in Europa, e non piuttosto andare in missione in Amazzonia? Perché economicamente è vantaggioso, ha detto coraggiosamente il Cardinale Christoph Schoneborn, arcivescovo di Vienna.

Manca una discussione sul celibato. Se il sacerdote deve essere  missionario e in uscita, se si trova a dover essere come gli apostoli, allora il celibato non è solo un dono, è anche la scelta migliore per poter assolvere a questa missione apostolica itinerante. Non sembra che il tema sia stato discusso abbastanza.

Manca, soprattutto, linguaggio teologico, mentre si è abbondato di linguaggio sociologico, persino politico, fino a chiedere un “peccato ecologico” (richiesta non nuova in realtà, proveniente anche dal lato ortodosso), ma senza guardare al senso vero dell’evangelizzazione, senza centrare tutto su Gesù Cristo.

Succede perché la polarizzazione colpisce tutti, perché tutti sono vittime delle loro agende, e in pochi sanno fare passi indietro per guardare le cose da un punto di vista più ampio.

La polarizzazione non racconta verità, racconta storie. Da vedere quanto le storie possano fare la Storia. Il passo, in molti casi, è breve. Ma è pur sempre un passo artificiale, di cui si potrebbero pagare le conseguenze.

Andare oltre le polarizzazione è dunque necessario. Ma c’è spazio per un giornalismo non narrativo oggi? C’è spazio per un giornalismo di contenuti ed analisi? Questa la domanda di fondo.


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