Durante questa estate, ho ripercorso in una serie di articoli la storia europea attraverso i santuari e la devozione mariana. L’ho fatto con la convinzione che è proprio la storia che dà ragione all’idea che il cristianesimo costruisce civiltà, e soprattutto costruisce una civiltà dell’amore. Ma, soprattutto, l’ho fatto con la convinzione che sono gli stessi cristiani a non conoscere la loro storia, o persino a sottovalutarla. E così, si pensa che mettere da parte la propria identità cristiana sia necessario in un mondo in cui i cristiani non guidano più il mondo con la loro cultura e le loro idee.
Si tratta di un limite che noto in tutta la comunicazione che riguarda la religione e la fede – per non essere generico, parlo di comunicazione di istituzioni cattoliche. Succede sia ad alti che a bassi livelli. Succede sia nei grandi media che nei piccoli giornali diocesani.
Quella che si può osservare è sempre una certe sudditanza nei confronti del mondo secolare, che certo esercita il suo fascino con il suo potere e le sue grandi attività. Così, in vista delle elezioni, piccoli giornali locali si trasformano in bollettini elettorali, per fare un esempio. Ma anche i grandi media cattolici non sfuggono alla tentazione di schierarsi, di lavorare sulla politica come, in fondo, fanno tutti. Perdendo così la loro identità, la loro ragione di essere.
Non è un problema di poco conto. Noi siamo ciò che comunichiamo e comunichiamo ciò che siamo. Parlare di Chiesa, raccontarla, viverla è un’arte raffinata e importante, che non può essere messa da parte e non può essere considerata scontata. Prima di abitare nel mondo, chi fa informazione religiosa deve abitare la Chiesa. E questo non significa che deve necessariamente essere credente. Significa che deve avvicinarsi alla Chiesa e al linguaggio religioso con la curiosità e l’apertura che, in fondo, dimostriamo per tutte le cose che ci interessano davvero.
Non è impossibile. Ho più volte raccontato di Benny Lai, che mi ha iniziato al lavoro di vaticanista, e più volte ho spiegato come lui, non credente che si era trovato a raccontare il Vaticano per caso, lo avesse fatto con lo spirito e il piglio della persona curiosa e senza pregiudizi.
Il fatto è che poi sono proprio i credenti che fanno informazione religiosa ad avere un pregiudizio sulla Chiesa. Ed è quasi sempre un pregiudizio negativo. Un pregiudizio che viene un po’ – e va ammesso – su molte discussioni astratte, che difficilmente vanno a ricondursi alla reale vita cristiana. Il dibattito che ha fatto seguito al Concilio Vaticano II è pieno di queste discussioni astratte, così astratte che perdono di vista il centro di tutto: Cristo.
Un po’, però, succede proprio perché non si conosce la storia, e la storia che si conosce è quella scritta da quanti hanno già un pregiudizio sulla Chiesa. Si dice spesso che la Chiesa non ha più forza e presenza nel mondo, ma la verità è che anche quando si considerava avesse forza e presenza, negli ultimi anni, in realtà veniva erosa dal mostro della narrativa e della propaganda che portava gli stessi credenti a guardare tutto dal punto di vista negativo.
Affascinati dalle contese del mondo, presi da discussioni astratte, intellettuali per il gusto di esserlo e non per il gusto di capire, i cattolici che lavorano nell’informazione religiosa hanno spesso subito la stessa sindrome che si vive oggi quando ci si dice cristiani, ma in fondo non si vive da cristiani. Benedetto XVI aveva spiegato questa situazione nel saggio “I nuovi pagani e la Chiesa”. Possiamo dire che oggi ci sono “I nuovi pagani dell’informazione religiosa e la Chiesa”.
Quello che è mancato è stato senz’altro il lavoro culturale, che ora è necessario quanto e più del pane. E, insieme al lavoro culturale, è mancata l’idea di una cultura completamente centrata su Cristo e sul cristianesimo.
Ovviamente, non tutto è nero. Anzi. I vescovi europei da anni stanno lavorando in un percorso che rimetta Cristo al centro di ogni attività, e si può notare nei temi e nelle discussioni delle loro assemblee plenarie. E, in tutto il mondo, ci sono vescovi, sacerdoti, laici che cercano di dare un senso al loro essere Chiesa, anche a costo da mettersi contro l’opinione pubblica e l’opinione pubblicata, nemici acerrimi di quanti vogliono raccontare la Chiesa da un altro punto di vista.
Nonostante questi grandi impegni, sembra mancare la spinta successiva, che è quella di rendere concreto ciò che si dice. La comunicazione, in fondo, è importante. Ci sono moltissime riviste diocesane, a diverso livello, mentre le diocesi più importanti si dotano di siti internet ben fatti (a volte multilingue) e di direttori della comunicazione con un piglio internazionale. E ci sono media cattolici internazionali che possono analizzare, raccontare, vivere e dare una casa a tutto questo.
Eppure, non si riesce mai a creare un sistema integrato, un qualcosa che davvero metta insieme tutto il dibattito culturale e ne faccia una sintesi, che guardi indietro alla storia e la sappia ri-raccontare, spiegare dall’altro punto di vista.
Non basta una comunicazione efficace, serve visione, prospettiva, capacità, professionalità. Ci si trincera spesso dietro slogan, mentre, quando questo lavoro di sintesi c’è, nasce soprattutto da un punto di vista ideologico e polemico, e non certo con lo scopo di raccontare e formare. Anche i buoni, in fondo, hanno i loro limiti.
Oggi, si aspetta un’altra enciclica del Papa dedicata alla fraternità universale, mentre tutti si chiedono come sarà il mondo dopo il coronavirus. Io mi chiedo piuttosto se siamo già in un mondo non solo post-cristiano, ma post-fede, perché in fondo sembra che nessuno voglia trovare uno spazio per gli argomenti della fede. Quello che penso ci dovrebbe essere sui giornali cattolici è prima di tutto un dibattito sulla questione di Dio, sul perché credere. Dopo di quello, un dibattito sulla libertà di credere, con tutte le sue ramificazioni che vanno a toccare anche fatti di cronaca recentissimi, come la pressione sulla Chiesa che sta avvenendo in Bielorussia.
Vorrei che ogni dibattito su quello che la Chiesa fa o può fare di concreto sia inserito nella cornice di una storia che dice che la Chiesa lo ha sempre fatto perché è il cristianesimo stesso che ti porta a vivere per gli altri e con gli altri, e non perché ci sia bisogno di fare del generico bene e di raccontarlo per scopi di marketing.
Vorrei, soprattutto, che non ci si concentrasse su come essere accattivanti per le nuove generazioni, giocando ad usare un linguaggio che nemmeno ci appartiene. La Chiesa deve dire quello che deve dire, perché deve attrarre per l’Idea, non per il resto.
Io personalmente credo che solo ragionamenti di questo genere ci aiuteranno a guardare davvero al mondo dopo il coronavirus. E ci aiuteranno, in qualche modo, a recuperare la nostra identità cristiana, a mettere insieme la storia e a superare le tante fake news sulla Chiesa diffuse nel corso dei secoli.
Nessun commento:
Posta un commento