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venerdì 17 gennaio 2020

L’informazione religiosa può essere attraente? Il confine sottile tra marketing e giornalismo


 C’è un confine sottile tra marketing e giornalismo, un confine che viene sempre più oltrerpassato, quasi fino a scomparire, con i media di oggi, a colpi di click baiting, informazione usa e getta e, perché no, anche propaganda. Ed è stato forse questo il tema centrale della discussione al Premio Giuseppe De Carli il 16 gennaio, sul tema “Come rendere attraente l’informazione religiosa”.


 Nato cinque anni fa per omaggiare la memoria di Giuseppe De Carli, storico vaticanista del Tg1 scomparso nel 2010, il premio ha il pregio di mettere insieme giornalisti giovani e vecchi, che siano vaticanisti o no, e di guardare al lavoro che hanno fatto nell’ambito dell’informazione religiosa. Quest’anno, tra i premiati c’era anche Daniel Ibáñez Gutierrez, giovanissimo fotografo di EWTN / CNA, che ha anche tenuto una presentazione sui sette anni di pontificato di Papa Francesco.

E qui devo confessarmi colpevole: Daniel è un amico, oltre che un collega. Abbiamo viaggiato insieme con il Papa in Albania e in Turchia e a Bari e Loppiano, siamo stati in Iraq nel 2015 quando c’era ancora la guerra. Daniel lavora sulle immagini con il disincanto che ha una persona che come lui ha meno di 30 anni e la cura di un veterano. Cerca volti e mani, più che le situazioni, sebbene sia perfettamente consapevole che sia necessario inquadrare volti e mani all’interno di una situazione. Ed ha anche il piglio del giornalista, perché comprende quando una foto deve essere scattata per fare da corollario ad un evento.

Per questo vale la pena di partire dalla presentazione di Daniel, che vive questa esperienza a Roma anche con l’entusiasmo del cattolico che sa di avere il privilegio di poter osservare il Papa da vicino. Mentre noi siamo impegnati in dibattiti sul modo di governare del Papa o sulla sua dottrina, Daniel cerca di cogliere l’essenza della personalità del Papa in un particolare frangente: quella del contatto con le persone, delle celebrazioni pubbliche. Le sue foto non sono retroscena, ma scena. Ma sono autentiche perché fatte con la cura di chi la realtà la vuole raccontare per immagini, senza manipolazione. Sono vere. Ed è per questo che sono belle.

Ma davvero le cose non vere possono essere rese belle? È questa la domanda di fondo che resta dopo il dibattito che ha preceduto la cerimonia di premiazione del premio Giuseppe De Carli. “Come rendere attraente l’informazione religiosa” è un tema sicuramente accattivante, ma lascia un convitato di pietra: il tema della verità.

Il vescovo Domenico Pompili di Rieti ci ha tenuto a sottolineare che il giornalista ha smesso di essere un narratore ed è diventato un duplicatore, nonché un animale da sedia che non ha più bisogno di andare sul posto per raccogliere le notizie, ma le riceve direttamente sul suo telefonino.

Il professor Sergio Tapia Velasco, coordinatore degli studi della Facoltà di Comunicazione della Santa Croce, ha posto l’accento sulla necessità di cercare il lato bello delle notizie religiose, ma soprattutto di essere in grado di comunicare la fede.

Barbara Carfagna, giornalista del Tg1, ha messo in luce come il fatto religioso sia anche al centro della riflessione sulle nuove frontiere digitali, e in particolare in quella intelligenza artificiale che punta a costruire robot sempre più somiglianti all’uomo in scenari che ricordano vagamente Blade Runner.

Ci sarebbero varie sfumature da cogliere in ogni intervento, e varie osservazioni da fare.

La questione della narrativa messa in luce dal vescovo Pompili è per esempio tutta da discutere. Il tema della narrazione prevede non tanto un racconto, quanto la costruzione di un racconto. E in questo senso il giornalista è diventato un narratore, perché è una persona che cerca di rendere gustosa l’informazione e raccogliere più lettori possibili. In un panorama di informazione sempre più veloce e varia, la necessità di “truccare” una notizia con una narrazione adeguata è cruciale per la sopravvivenza stessa dei media, che hanno bisogno di audience. Al giornalista è richiesto, oggi più che mai, di essere narratore.

E il giornalista è, oggi più che mai, un duplicatore, perché non esiste più la notizia originale. Esiste la notizia mainstream, che tutti devono avere perché altrimenti la hanno “bucata”, come si dice in gergo. Così, diventano notizie fatti apparentemente marginali solo perché si è sicuri che facciano audience, mentre non assurgono al rango di notizie fatti di cruciale importanza perché magari considerati troppo sofisticati per l’audience.

È la legge del mercato, bellezza!

Detto questo, resta sempre il convitato di pietra della verità. La non notizia truccata da notizia per attirare audience e click è come la vecchia descritta da Luigi Pirandello nel suo saggio sull’Umorismo, che si trucca e imbelletta come una giovane. Da lontano può anche apparire bella e piacente, ma man mano che ci si avvicina ci si accorge che non solo non è bella, ma è piuttosto ridicola.

Ed è probabilmente questo il problema che abbiamo in generale nell’informazione religiosa, e in particolare nella comunicazione che riguarda Papa Francesco. Presi dai gesti eclatanti del Papa, che siano le frasi ad effetto come “una Chiesa povera per i poveri” o “i cristiani da pasticceria” o le sue piccole intemperanze; presi a volte dall’idea di dover difendere la Chiesa da una narrativa che è tradizionalmente contro; presi dalla necessità di voler a forza raccontare le cose come “belle”; perdiamo di vista la necessità di raccontare le cose come vere.

Da una parte, c’è il mondo dei media secolari, che apprezzano della Chiesa tutto ciò che possono assimilare a loro, e a cui possono dare un linguaggio politico, e da qui viene la straordinaria attenzione data alle parole di Papa Francesco su ecologia ed economia, mentre il totale disinteresse quando il Papa parla di misericordia o quando prende posizioni politiche scomode, come quando attacca l’aborto.

Dall’altra, ci sono i media cattolici, che è invece di usare un loro linguaggio, creando modelli narrativi che siano veri invece che belli, riprendono i modelli comunicativi generali, e li applicano al fatto religioso (si parla in generale, ovviamente, perché ci sono esempi luminosi di differenza in giro). Questo crea un paradosso dell’informazione, perché anche cose vere appaiono ridicole perché mascherate da tecniche narrative che a volte sanno di propaganda.

Per fare un esempio concreto e critico, senza voler attaccare personalmente nessuno, anche il lancio di hashtags come #francescoterapia per riferirsi al lavoro che fa Papa Francesco o #uomodidio per riferirsi allo stesso Papa Francesco sanno di marketing, più che di giornalismo. Puntano ad orientare chi legge verso un pensiero pre-costituito, più che ad informare davvero. E chi va oltre questo approccio di marketing non può non sentirsi infastidito dal modo in cui viene guidato, perché le sfumature contano e le sfumature dicono cose diverse.

Alla fine, l’unico vero modo di rendere attraente un fatto religioso è semplicemente quello di approcciarsi al fatto religioso con uno spirito “vergine”, cercando di eliminare tutti i pregiudizi e allo stesso tempo ammettere di averne, mantenendo l’onestà di sapere che si sta raccontando un punto di vista e cercando di raccontare questo punto di vista senza esagerazioni retoriche.

È difficile, nel mondo dell’informazione di oggi. Perché al giornalista oggi, e al giornalista vaticanista in particolare, viene chiesta una competenza molto alta, da sviluppare velocemente in un articolo che sia approfondito e preciso, e che sia credibile.

Alla fine la questione della verità chiede anche di fare un passo indietro, di avere un plus di riflessione. Come spiegavo nell’analisi dei trend della comunicazione del 2020, la soluzione sta nel festina lente, nell’affrettarsi lentamente.

In fondo, come ha sottolineato il vicedirettore editoriale del Dicastero della comunicazione vaticano Alessandro Gisotti aprendo i lavori del Premio De Carli, la “tecnologia non prenderà mai il nostro posto. Ci sarà sempre bisogno di bravi giornalisti”. Verissimo. Ma vale fin quando il giornalista riesce a sviluppare l’amore per il vero, e l’umiltà epistemologica per raccontarlo senza infingimenti e senza trucchi. Anche ammettendo i propri limiti personali. Ma sempre cercando di comprendere  perché, l’unica domanda che valga davvero la pena di fare (e non è un caso che il passaaggio più esaltante e vero dei bambini è quello in cui domandano sempre perché).

È fondamentale, oggi, in un mondo pieno di narrazioni. Barbara Carfagna notava che oggi, con la profilazione dei social network, si potrebbe creare una Bibbia personalizzata per ciascuna persona, e anche velocemente. Sicuramente sarebbe attraente.

Ma la Bibbia, una grande storia di storie di un popolo in cammino che siamo noi, è “il libro” per eccellenza perché si basa su una verità fondamentale: la presenza di Dio nella storia. Non ha avuto bisogno di fare marketing, anche se qualcuno potrebbe dire che la lotta di Giacobbe con Dio, la divisione delle acque che si riversano poi sugli egiziani, la camminata sulle acque e l’iconico Sansone che butta giù la casa e tutti i filistei, nonché lo straordinario diluvio universali, siano stati attrezzi scenici non male utilizzati da Dio per dare una narrazione. E, in fondo, a leggere la Bibbia, ci rendiamo conto che anche il buon Dio usava una serie di frasi ad effetto, che tutti noi ricordiamo (il Vangelo di domenica aveva la famosissima “Tu sei il mio figlio prediletto nel quale mi sono compiaciuto”).

Eppure, nonostante questo marketing divino (e per divertirsi basterebbe leggersi la “Recensione preventiva” della Bibbia di Umberto Eco nel Diario Minimo), la Bibbia è una storia che ancora attrae semplicemente perché è vera. Attrae anche nei passaggi che un editore, per riprendere sempre Eco, avrebbe declinato perché noiosi o troppo filosofici. Attrae perché, alla fine dei conti, quando tutte le storie sono finite, lascia una domanda di senso su una storia che è realmente accaduta e che per questo noi cerchiamo di raccontarla.

In fondo, fu questa la grande intuizione di Giuseppe De Carli, quando lanciò la lettura integrale della Bibbia in televisione nell’iniziativa “La Bibbia giorno e notte”. In fondo, il confine tra marketing e giornalismo è lo stesso che c’è tra sofisti e filosofi, secondo una distinzione evidenziata dal professor Tapia.

De Carli aveva scelto di essere filosofo. E noi, che giornalisti vogliamo essere? Filosofi o sofisti?
















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