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venerdì 3 maggio 2024

Perdono, il nuovo nome della pace

Il numero di aprile della rivista OMNES è stato dedicato al tema del perdono. È una questione che mi interroga molto, perché sono sempre più convinto che la costruzione della pace parta dal perdono per la storia che porti a una comunità riconciliata. L’articolo si trova, in spagnolo, nella rivista cartacea pubblicata in Spagna (qui la sinossi di tutti gli articoli: https://omnesmag.com/it/notizie/rivista-omnes-aprile-pardon/). Pubblico di seguito l’articolo in originale italiano.  


Il perdono, strumento politico o strumento di pace?

Di Andrea Gagliarducci

 

Il 12 marzo 2000, Prima Domenica di Quaresima, Giovanni Paolo II volle chiamare a raccolta cardinali e vescovi e celebrare con loro una liturgia durante la quale chiese perdono per i peccati passati e presenti dei figli della Chiesa. Una celebrazione, quella, fortemente voluta dal Papa polacco in un Anno di Misericordia, che rappresentava anche, nella sua idea, un nuovo inizio.

 

Giovanni Paolo II non era nuovo ad iniziative di questo genere. Nel 1987, diede il via al processo di riconciliazione polacco – ucraina, perché le due popolazioni dovevano superare le ferite della guerra e della storia. Da parte polacca, c’era da perdonare il lavoro di pulizia etnica dei nazionalisti ucraini contro i polacchi nella regione di Volyn nel 1943 – un eccidio che colpì anche russi, ebrei, armeni, cechi, varie altre minoranze nazionali. Da parte ucraina, c’era da perdonare l’operazione Vistola, avvenuta nel 1947, ovvero la deportazione della popolazione ucraina che risiedeva nei territori dei nuovi confini sud-orientali della Polonia, e che interessò circa 200 mila persone.

 

L’ispirazione primaria, comunque, era venuta a Giovanni Paolo II dalla sua stessa terra. Perché fu in Polonia, nel 1965, che il Cardinale Bolesław Kominek, arcivescovo di Wroclaw, lanciò la riconciliazione polacco – ucraina, promuovendo una lettera dei vescovi ai vescovi. “Perdoniamo e chiediamo perdono”.

 

Il perdono è probabilmente il mezzo più efficace per costruire la pace. Perché la storia non si può cancellare, e non se ne possono cancellare gli orrori. Si può, però, riconoscere gli errori e i crimini del passato, e andare avanti come uomini, nazioni, istituzioni nuove, in cammino con quello che prima era considerato un nemico.

 

Utopia? Probabilmente. Ma solo perché il perdono, più che come categoria diplomatica, viene considerato come categoria politica. E così, dal 1947 ad oggi, ci sono state 346 richieste di perdono da parte di politici, e il 72 per cento di queste richieste di perdono è cominciata a partire dagli Anni Duemila – secondo i dati del Political Apologies Across Culture Project.

 

Ci piace illuderci che il gesto del Papa sia stato significativo, e potrebbe aver toccato davvero le corde di molti leader. Tuttavia, è anche vero che gli Anni Duemila hanno certificato un cambio di mentalità, e che dunque era necessario prendere le distanze da un passato che veniva considerato ignominioso.

 

C’è, tuttavia, una differenza sostanziale tra il perdono reale e la richiesta di perdono a scopo politico. La prima è sentita, è vera, porta a ricostruire. La seconda è di circostanza, serve a creare una narrativa ed eventualmente anche a sgravare i partiti politici e le ideologie attuali da ogni responsabilità riguardo le ideologie passate.

 

Per comprendere, però, quanto il perdono possa essere uno straordinario strumenti diplomatico non si deve andare troppo lontano. Basta guardare all’Europa.

 

Si è detto dell’iniziativa del Cardinale Kominek. Ma Kominek aveva anche un altro ispiratore, ed era Robert Schuman, oggi venerabile, il quale il 9 maggio 1950, alle ore 16, nel Salone dell’Orologio del Ministero degli Esteri francese a Parigi, pronunciò quella che è passata alla storia come “Dichiarazione Schuman”.

 

In quella dichiarazione, sovvertendo quella che era stata fino a quel momento la regola, Schuman propose di fare del carbone e dell’acciaio – da sempre motivo di discordia per Germania e Francia – le basi di un accordo transnazionale, che non avrebbe consentito ulteriori guerre, pena la penalizzazione economica di tutti i Paesi coinvolti, che si legavano in questo modo insieme per il benessere comune. In questo modo una guerra sarebbe stata “non solo impensabile, ma materialmente impossibile”.

 

Schuman non parlava di riconciliazione, ma lo scopo era quello. Si trattava di appianare le vecchie inimicizie, di diventare alleati laddove si era stati concorrenti, dimenticando le ferite del passato per costruire un futuro ancora più brillante.

 

Schuman lo poteva capire perché era un uomo di frontiera, alsaziano, che aveva passato anche parte della vita da tedesco, e non solo da francese. Kominek lanciò la riconciliazione polacco – ucraina da Wroclaw, città che dalla Germania era passata alla Polonia e che però era stata popolata con popolazioni che si trovavano al confine dell’Ucraina, ad Est, e che erano state ridestinate all’Occidente.

 

Si deve essere uomini di frontiera per comprendere la necessità del perdono, perché è lì che le narrative e le storie si incrociano, è lì che si comprendono le ragioni degli uni e degli altri. Non a caso, i grandi genocidi del XIX secolo nascono nel momento in cui le frontiere vengono alzate, si creano nuovi Stati mentre crollano le grandi entità ultranazionali, e cioè gli imperi, e questi Stati decidono chi ci deve essere o non ci deve essere nel loro confine.

 

Ma perché il perdono è così cruciale? Perché senza perdono si è intrappolati nelle narrative contrapposte, e le ferite della storia restano sempre aperte. Si parla, in questo caso, di giustizia transizionale, vengono stabilite commissioni Verità e Riconciliazione o Giustizia e Riconciliazione che puntano proprio a ripulire la memoria, certificando, è vero, le colpe degli uni e degli altri, ma anche definendo percorsi di perdono, riconciliazione a partire proprio dall’ammissione di colpa.

 

Nell’Europa lacerata da una guerra nel suo cuore, un percorso di riconciliazione e perdono sembra quello necessario per trovare una via di uscita non solo all’attuale conflitto causato dall’aggressione russa ai danni dell’Ucraina, ma anche a tante altre eventuali aggressioni che si potrebbero consumare per lo stesso motivo.

 

Se la Russia rivendica l’Ucraina come sua e l’Ucraina risponde con la storia delle sopraffazioni russe, non è diversa la situazione in vari territori di Europa, quasi sempre parte dell’ex Unione Sovietica, storicamente contesi e generalmente espropriati anche della loro identità religiosa.

 

Per evitare le guerre, c’è bisogno di una riconciliazione, perché i popoli sappiano andare oltre le ferite della storia. Rammarica che questo percorso era iniziato nell’agosto 2012, quando il Patriarca ortodosso di Mosca Kirill andò in Polonia per una storica visita e per firmare, con la Chiesa Cattolica un documento storico, che aveva come termini chiave “pace” e “riconciliazione”.

 

Per il Patriarca Kirill, la riconciliazione con la Chiesa polacca era una conditio sine qua non per la riconciliazione con tutto il mondo cattolico. Poi, con gli anni, le vicende e le vicissitudini politiche hanno preso il sopravvento in Russia, e dunque questa forma di dialogo tra le Chiese sorelle è passato in secondo piano.

 

Ritornare, però, a quegli scambi di perdono sarebbe necessario per ricostruire l’Europa intorno alle sue radici di continente di pace, nato come istituzione politica appunto per permettere alle persone di cominciare uno scambio che fosse fruttuoso e, soprattutto, pacifico.

 

Così, la cosiddetta giustizia transizionale diventa necessaria, e sarebbe bene di strutturarla meglio, di definirla anche per territori transazionali, in concorso tra Stati che sono parte delle vicende in questione, e che abbiano la volontà di appianare i conflitti e di cominciare un cammino di riconciliazione.

 

Certo, non c’è giustizia senza verità, e questo si deve ricordare quando si legano le relazioni o le approvazioni alle cosiddette richieste di perdono. Quando Papa Francesco è andato in Canada nel 2023, era andato a portare le scuse della Chiesa Cattolica per l’assimilazione culturale che sarebbe avvenuta nelle scuole residenziali, ovvero le scuole statali in molti casi gestite dagli ordini religiosi.

 

La richiesta di scuse personali del Papa era parte delle richieste della commissione Giustizia e Riconciliazione, eppure era una richiesta che nasceva davanti da una storia religiosa complessa, e da accuse in alcuni casi perlomeno non accurate. Per esempio, si era parlato di un ritrovamento di una sepoltura di Massa a Kamloops, e di quelle tombe non si trovò poi traccia. Eppure, la notizia del ritrovamente scatenò rivolte contro le chiese, atti di vandalismo, e roghi secondo copione ormai scritto della cancel culture, che cerca nemici e non ha paura di attaccarli.

 

Tutto nasceva, però, da una presupposta verità, da un pregiudizio che portava naturalmente ad attaccare la Chiesa, e anche (forse) dalla necessità di nascondere una sorta di “assimilazione 2.0”, ovvero la decisione del governo canadese di destinare migliaia di bambini nella cosiddetta foster care – decisione, tra l’altro, che aveva anche ricevuto condanne dei tribunali per risarcimento.

 

Il perdono, insomma, deve essere autentico e non strumentalizzato per funzionare davvero come sistema diplomatico. E, in questo senso, c’è solo una istituzione che può davvero portare avanti una politica diplomatica di perdono, ed è la Santa Sede. Perché la Santa Sede è universale, non è legata ad uno Stato specifico né a tradizioni culturali specifiche. E, soprattutto, perché la fede cattolica fa del perdono un pilastro imprescindibile. È un perdono che libera, che non cancella il passato ma permette di viverlo con serenità, che permette di guardare alle ferite della storia senza rabbia.

 

È un perdono necessario, dalla Terrasanta dilaniata dal conflitto all’Ucraina, dagli Stati africani dove la colonizzazione ideologica è stata per anni colonizzazione vera e ha spazzato via tradizioni, lingue e culture e ha creato nuove divisioni.  Paolo VI aveva detto, nella enciclica Populorum Progressio, che il vero nome della pace è sviluppo, e in effetti molti dei progetti per la pace riguardano appunto questioni economiche, la necessità di superare gli squilibri del mondo. Oggi, però, possiamo davvero dire che il nuovo nome della pace è il perdono. E, in una epoca di fake news, vale la pena anche aggiungere questo: che il perdono è, e deve essere, purificazione delle narrative.

 

Non a caso, quando si guarda al conflitto in Ucraina, si chiede di approfondire e comprendere la nozione di “Mondo Russo” che è alla base della piattaforma ideologica dell’aggressione russa. E non per caso, si sente la necessità di riguardare i documenti storici, di scriverli con distacco, riconoscendo le responsabilità degli Stati in alcune situazioni, e anche dimostrando che la narrativa che si era sviluppata non era l’unica possibile.

 

In questo la Chiesa è maestra. Perché il cambio di narrativa avviene spesso per scatti simbolici, ma di profondo significato. Come il riconoscimento progressivo dei martiri della Guerra Civile Spagnola, e a addirittura, in Italia, quello di un seminarista vittima della Resistenza anti-fascista, Rolando Rivi.

 

In fondo, in pochi ricordano che le grandi memorie dei popoli sono intrise di sentimento anti-religioso. Eppure, è proprio la religione che può tirare fuori questo mondo dal baratro. Una religione che predica il perdono, che parla con i propri cosiddetti nemici, che sa guardare oltre le contingenze.

 

Nel 2003, Alastair Campbell, spin doctor di Tony Blair, interruppe l’allora primo ministro inglese che parlava della propria fede con una frase lapidaria: “We don’t do God”, “Non ci occupiamo di Dio”. Oggi, però, c’è davvero bisogno di occuparsi di Dio per comprendere la storia di un popolo, e per andare oltre le narrative che ne fomentano la rabia e la partecipazione alla guerra.

 

Giovanni Paolo II, alla fine, aveva capito tutto, quando nel Giubileo volle una grande celebrazione per chiedere perdono per gli errori passati. Un fatto forse solo simbolico, ma di grande impatto. E di grande impatto perché autentico.

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