Ci sono diversi buoni motivi per partecipare martedì 17 settembre alla presentazione
del libro “Anche i Papi comunicano” di Veronica
Giacometti. E i buoni motivi non riguardano chi presenta il libro, sebbene
siano persone degnissime di nota (Alessandro
Gisotti, vicedirettore editoriale del Dicastero della comunicazione
vaticano, e il vaticanista di lunghissimo corso Gianfranco Svidercoschi). Né riguardano la pregevole prefazione,
scritta da don Ivan Maffeis,
direttore della comunicazione della Conferenza Episcopale Italiana. Né sono rappresentati
dal fatto che Veronica Giacometti è una
collega, che parleranno anche Alan
Holdren e Angela Ambrogetti (rispettivamente capo dell’ufficio EWTN in
Vaticano e direttore di ACI Stampa), e
quindi che ci sarà un pezzo del mio mondo di comunicazione, della bolla – per
intenderci – in cui vivo e dalla quale scrivo.
I buoni motivi riguardano soprattutto i contenuti del volume, che portano necessariamente ad
una riflessione. Il libro è una storia della comunicazione vaticana a partire
dalla Sala Stampa della Santa Sede e da come questa si è evoluta nel corso
degli anni. In un tempo in cui la riforma della comunicazione vaticana è
diventata velocissima, mentre niente
sembra che sarà più come prima nell’organizzazione dei media vaticani,
mettere un punto è fondamentale anche per comprendere cosa serve oggi e cosa si
rischia di perdere. E questo libro è un
buon punto di partenza per farlo.
C’è una figura che resta sullo sfondo del libro, ed è Benny Lai, decano dei vaticanisti e
colui che ha dato un nome alla professione del cronista di fatti vaticani.
Grazie al diario di Benny Lai,
contenuto nel libro “Il mio Vaticano”,
si può seguire non tanto la storia, quanto gli umori, le percezioni, la vita
vera del Vaticano che vanno dagli anni della primissima Sala Stampa all’interno
delle Città Leonine, annessa all’Osservatore Romano, a quella del Concilio Vaticano II, fuori dalla Città del
Vaticano.
Scrive Veronica
Giacometti:
Ad una giovanissima giornalista desiderosa di seguire al meglio la vita in Vaticano egli (Benny Lai, ndr) spiega: “Vuole una chiave per capire gli aspetti esterni del Papa? Tutta la sua vita di Pontefice è ispirata al principio dell’autorità: lui non vive tra la folla, ma sulla folla”.
Ecco, leggere questa frase e compararla con il presente
racconta meglio di ogni altra cosa il
modo in cui è cambiata la comunicazione vaticana. Da una parte, resta il
principio di autorità del Papa. Dall’altra, c’è ormai la volontà di far sembrare che egli viva non sulla folla, ma “tra la
folla”.
La storia della Sala
Stampa della Santa Sede racconta, in fondo, come sono cambiati i tempi
della comunicazione e come anche la Santa Sede si sia adeguata ai tempi,
cercando sempre nuovi modi di raccontare il
Papa, le sue scelte, tutto ciò che sta intorno e dietro queste scelte.
Ma il paradosso è che, nel
momento in cui è cercato sempre più di far vivere il Papa tra la folla, si
è generato anche un sempre più progressivo allontanamento dei giornalisti dalle
Mura Leonine.
Veronica Giacometti
nota che già alla morte di Pio XI era stata allestita una piccola sala stampa
nel Cortile San Damaso, in Vaticano. E
poi ripercorre il filo dei ricordi di Benny Lai, della Sala Stampa annessa
all’Osservatore Romano, con i giornalisti che avevano la possibilità di entrare
e uscire dallo Stato di Città del Vaticano semplicemente grazie al loro
tesserino. Non c’erano filtri, se non
quello della fiducia.
Già con il Concilio Vaticano II, tutto cambia. Paolo VI – nelle parole ironiche, ma
pungenti, di Benny Lai – “caccia
i giornalisti dal Vaticano”, si allestisce una Sala Stampa su via della Conciliazione e lì vengono
dirottati tutti i giornalisti, gli accreditati storici e quelli che arrivano
per il grande evento che si sta celebrando in Vaticano.
È proprio quello il momento
in cui comincia quello che Benedetto XVI chiamò il “Concilio dei media” nel
suo ultimo incontro da
Papa con il clero romano. Forse non c’è una connessione diretta tra le due
cose. Ma, è anche vero che, quando la
realtà è mediata, la realtà si presta a qualunque manipolazione. I
giornalisti sono costretti, più che mai, a fidarsi delle loro fonti di fiducia,
senza poter vedere altro se non quello che possono vedere, e parlare con altri
se non quelli che concedono di lasciarsi avvicinare. E le
fonti sanno cosa vogliono far sapere e cosa non vogliono far sapere.
Nasce il Concilio dei
media, ma nasce anche l’uso dei media da parte degli officiali vaticani. È
un rapporto di mutuo scambio, una partita a scacchi, in cui diventa
fondamentale conoscere i linguaggi per
comprendere ciò che viene detto.
E nasce da qui la polarizzazione, perché, in fondo, è facile
creare contrapposizioni quando il filtro è mediato, quando non c’è il volto dell’altro davanti a smussare gli angoli, a
far comprendere che forse le cose vanno lette in maniera più o meno benevola.
Si perde quella ironia necessaria a tutti per avere la altrettanto necessaria umiltà epistemologica che
permette davvero di approcciarsi ai fatti senza pregiudizi.
Anche la storia della
comunicazione del Sinodo – si trova anche questo nel libro di Giacometti –
rispecchia questo schema. Fin quando il Sinodo è “trasparente”, con un team di
persone incaricato di tradurre, diffondere, far comprendere le relazioni dei
padri sinodali e dei briefing che danno ai giornalisti tutte le informazioni,
hanno luogo Sinodi che destano interesse, ma che allo stesso tempo rispecchiano un certo desiderio di comunione.
Quando, poi, cambia
il modello di comunicazione del Sinodo, i testi non vengono più distribuiti
e si lascia tutta la comunicazione ai rapporti personali con i padri sinodali e
a freddi briefing in cui ogni realtà viene mediata, ecco che arrivano i sinodi delle contrapposizioni, del rischio del
cambiamento dottrinale, del dibattito aspro che coinvolge i padri sinodali,
intellettuali cattolici e non, giornalisti.
La scelta di
distaccare la comunicazione del Vaticano dal Vaticano stesso ha, insomma, le
sue conseguenze.
Ma la vera domanda è: cosa
si comunica? Anche qui, c’è stata una evoluzione, parzialmente dettata dai
media, ma anche dall’approccio delle persone che vivono il Vaticano, e che
pure hanno perso il senso dei media come persone e le vedono come strumento.
Con Giovanni Paolo II,
c’era il ruolo del portavoce, impersonato da Joaquin Navarro Valls, ed era lui
che filtrava le notizie, gli umori, le scelte, e che operava con i giornalisti
con professionalità, conoscendo la
macchina e sapendo come indirizzare l’opinione pubblica. Era un lavoro
professionale, ma in fondo mediato da anni di esperienza e di contatto
personale, con i giornalisti e con lo stesso pontefice.
Benedetto XVI puntava
sulle idee, sui grandi temi. Non si comunicava il Papa, ma ciò che il Papa
diceva, e le persone ascoltavano Benedetto XVI, non venivano per una star. Per
formazione, timidezza e vita personale, Benedetto XVI non poteva né voleva
essere personaggio come lo era Giovanni
Paolo II, naturalmente carismatico. Il suo primato della parola necessitava
di una comunicazione meditata, perché Benedetto XVI costruiva discorsi come si
costruiscono cattedrali.
Ma la grande riforma
della comunicazione vaticana, pensata e discussa da tempo, arriva con Papa
Francesco ed è ancora in atto. Papa
Francesco è un Papa che vuole mostrare di essere tra la folla, non sulla
folla. Ha il senso dei grandi gesti, delle frasi ad effetto e del grande
pubblico. Sa dare una immagine precisa,
la sa rendere, e vuole che quella immagine sia colta e compresa. Si nota da
tanti piccoli dettagli.
Eppure, la riforma
della comunicazione vaticana mette ulteriori filtri tra Vaticano e giornalisti.
Il primo filtro è
dato dai media vaticani, chiamati a fare una comunicazione istituzionale,
ad anticipare, a dare informazioni e chiavi di lettura prima degli altri.
Cercano di dare una direzione al dibattito, e per questo a filtrare le
informazioni, a volte anche a cercare di bloccarne il flusso.
Il secondo filtro è dato dal fatto che la Sala Stampa non è
più la fine del circuito comunicativo, ma lo è la direzione editoriale, che
coordina tutti i contenuti. Il rapporto dei giornalisti con chi invia le informazioni è un rapporto ulteriormente
mediato, con i suoi pro e i suoi contro.
Il terzo filtro è
dato dal fatto che la comunicazione istituzionale tende ad essere conservativa.
Era previsto da tempo che la redazione dell’Osservatore Romano uscisse dalla
Mura Leonine. Ma la decisione di farlo, per unificare tutti gli uffici, ha dato
il senso della fine di un mondo, perché non c’è più nessun medium vaticano all’interno
dello Stato. C’è una
professionalizzazione, e questa è necessaria: verissimo. Ma davvero è necessaria
questa professionalizzazione per comunicare il Papa?
Perché si tratta spesso di una professionalizzazione
tecnica, chiamata a far convergere tutti media in un unico canale. Una professionalizzazione di tipo tecnico.
Ma la tecnica non può sostituire i contenuti, l’approfondimento, la profondità,
così come una telecamera in più non sostituisce mai il gioco di sguardi che si
crea in una intervista faccia a faccia, e che
permette di comprendere ben al di là di quello che viene detto.
Anche sotto il pontificato
di Benedetto XVI si era
cercata una professionalizzazione, e la Segreteria di Stato aveva nominato un “advisor”
per la comunicazione, nella persona di Greg
Burke, chiamato a suggerire tempi e modi di azione per meglio comunicare.
Il punto è comprendere quanto uno “spin doctor” (come
vengono chiamati gli esperti comunicazione che guidano i dibattiti) possa
andare a sostituire l’annuncio del Vangelo, e quanto una immagine o una frase
ad effetto sia più importante di una idea.
Il libro non dà una risposta a tutto questo, perché è un libro che mette un punto, che
ha la vocazione di fare una fotografia della realtà nel momento in cui viene
pubblicato. Eppure, resta la domanda tra le righe, stringente, fortissima,
che porta con sé un’altra domanda: cosa resterà di un pontificato presentato più con i dettami del marketing e della
comunicazione istituzionale che con la forza delle sue idee?
Nel libro El Portavoz curato da Rafael
Navarro-Valls, fratello di Joaquin Navarro-Valls, si trova un aneddoto
significativo. Sono i primi giorni del pontificato di Benedetto XVI,
Navarro-Valls è ancora in carica.
El Portavoz va dal Papa – e qui parafraso un po’ - gli
chiede se ci sono immagini che non gli piacciono, se c’è qualcosa che magari
devono far cambiare. Benedetto XVI chiede perché, Navarro-Valls risponde che “sa, Santità, viviamo nell’epoca dell’immagini,
le immagini sono più importanti delle parole”.
Benedetto XVI risponde: “Allora lotteremo perché una idea valga più delle immagini”.
Questa è la sfida, ancora oggi. E sarà bello poterne
discutere alla presentazione del libro “Anche i Papi comunicano”. L’appuntamento
è per il 17 settembre, alle ore 18, in via della Conciliazione, 44. Gli ospiti
e i relatori li ho già detti. Comunque, voglio rassicurare tutti. Ci sarà anche il momento più importante
della serata: il cocktail.
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