Cerca nel blog

mercoledì 2 aprile 2025

I venti anni senza Giovanni Paolo II sono per me venti anni di Vaticano

Non ero ancora un vaticanista. Eppure, il primo articolo di quella che è poi diventata la mia vocazione è stato pubblicato il 3 aprile 2005, e parlava della veglia della Misericordia alla Chiesa di Santo Spirito in Sassia. Mi aveva mandato lì Giuseppe Di Fazio, caporedattore de La Sicilia, per il cui ufficio di Roma collaboravo, perché voleva captassi gli umori delle persone che stavano accompagnando l’agonia di Giovanni Paolo II in quella chiesa dedicata alla festa a lui tanto cara.


Oggi sono venti anni senza Giovanni Paolo II, eppure chi mi legge mi perdonerà se parlo un po’ di me. Perché gli anniversari vanno celebrati, in qualche modo, e questi venti anni di vaticanismo, prima annusato e poi praticato, sono anche per me un tempo di guardarsi indietro.

 

Io arrivo a quel sabato 2 aprile dopo giorni in cui vedo una folla di persone intorno alla LUMSA, la mia università, che è su via della Traspontina. E anche io vengo portato con curiosità lì, verso la Sala Stampa della Santa Sede. Non sono accreditato, ma non è importante. Ho compagni di università che orbitano lì, chi perché è figlio di un giornalista accreditato, chi perché si trova, per il suo stage, ad essere accreditato lì. E ho amici giornalisti che sono accreditati lì. In particolare uno, Richard Owen, corrispondente del Times (ora in pensione), conosciuto attraverso un giornalaio in comune, e diventato una sorta di guida per me per comprendere come si fa giornalismo.

 

Ero giornalista da tre anni, scrivevo su La Sicilia, e da circa un anno il Principe, cioè il mio caporedattore (Gino Corigliano, ne ho parlato qui) mi fa fare ogni giorno a pagina 2 del giornale, la pagina degli editoriali, una sorta di “fondo” politico chiamato “Il punto”. È il suo modo di proiettarmi verso un altro livello di giornalismo. E io ho cominciato a farlo con curiosità, cercando di apprendere i segreti del mestiere. Uno dei miei professori era Francesco Bonazzi, che scriveva sull’Espresso, e da lui mi feci dare tuti i consigli e i libri del caso da leggere. Ma poi avevo cominciato anche a parlare con qualunque persona trovassi di interesse, e ovviamente il Times di Londra, che il Principe leggeva ogni giorno, mi attirava moltissimo, così come mi attirava la Sala Stampa Estera. Nel frattempo, Di Fazio mi ha cominciato a dare la possibilità di fare inchieste a puntate, su grandi temi: i cattolici in politica, la Sindrome di Down e il modo in cui è trattata nella società, il dibattito bioetico in politica.

 

E così mi sono avvicinato, in maniera un po’ laterale, al mondo cattolico, attraverso i grandi dibattiti di quel tempo. Ero curioso, ovviamente, e, come tutti i giovani, un po’ pieno di pregiudizi e convinto di aver capito il mondo. Ci sta, a vent’anni.

 

Diciamola tutta. Sono cattolico, di famiglia cattolica, di tradizione cattolica. Ma, soprattutto, sono un figlio di Giovanni Paolo II. Quando sono nato, c’era già Giovanni Paolo II, e non c’è stato altro Papa all’infuori di lui nella mia vita, finché non è morto. E, ancora più ovviamente, essendo la mia università così vicina alla piazza, San Pietro mi attrae, e con la malattia del Papa ancora di più. Ed è così che, nei giorni precedenti alla morte di Giovanni Paolo II, mi ritrovo davanti la Sala Stampa, o lì, nella piazza, seduto sotto la colonna dove mi piaceva andare a studiare da solo, quando ancora nel colonnato si entrava senza problemi e controlli.

 

Ascolto i colleghi, molti che non conosco, molti proiettati lì dall’evento, più che dal fatto che seguono il Vaticano costantemente. E sento che c’è qualcosa che forse si può raccontare. Sento che si può guardare anche all’evento con gli occhi della fede, non solo quello del giornalista distaccato. E così, vado in redazione e dico che mi piacerebbe scrivere di Vaticano, perlomeno seguire quello che succede.

 

Non c’è nessuna obiezione. Anzi. E così, sabato mi trovo a Santo Spirito in Sassia, a cercare padre Bart, il rettore, e a rendermi conto che niente è casuale nella vita. Perché, due anni prima, per motivi che non ricordo, ero stato a sentire l’oratorio di Frisina sulla Divina Misericordia, dove si ripeteva ossessivamente quello Jezu Ufam Tobie (Gesù confido in te) che è poi quello che Madre Faustina diceva e pregava. E queste parole mi ritornano nella mente mentre scrivo il pezzo, ne faccio uso, un po’ meravigliato da come tutto si tenga, nei fili della vita, se solo stai a guardare.

 

La sera arriva la notizia della morte di Giovanni Paolo II mentre sono a cena dal mio padrino e madrina di Battesimo, in un posto non lontano da quella che ora è casa mia, ma dove allora non abitavo. E così, ritorno a San Pietro, vivo il momento, e comincio a pensare che posso cominciare a occuparmi davvero di Vaticano.

 

Nasce così la consapevolezza del lavoro che faccio adesso. Mi ci sono buttato con molta curiosità. C’è un monsignore che conosco ancora, e che oggi è arcivescovo, che incontrai a Sant’Anna nei giorni immediatamente successivi al funerale. Gli chiesi come fare per contattare i cardinali. Volevo parlare con loro, non intervistarli. Mi diede dei consigli. Lo feci. Mi ritrovai, dopo l’elezione di Benedetto XVI, una email del Cardinale Carlo Maria Martini, che mi rispondeva e mi dava consigli di lettura. Ce la ho ancora. Mi trovai anche altri contatti, che sono diventati realmente concreti solo dopo.

 

Fu in quel tempo che conobbi Benny Lai (qui tutte le volte che ne ho parlato: https://vaticanreporting.blogspot.com/search?q=%22benny+lai%22). Era amico del Principe, che si faceva portare ogni volta il pezzo di Repubblica, un paginone di taglio storico con molte curiosità, e stava per dare alle stampe Il mio Vaticano, ovvero i suoi diari. Lo conobbi così, in Sala Stampa, appena accreditato, quando lui mi portò con modi che definì “un po’ spicci” prima dai portieri e poi dalla “Sala Stampa parallela”, ovvero Don Gino Belleri (ne ho parlato qui: https://vaticanreporting.blogspot.com/2022/05/qualche-aneddoto-su-don-gino-belleri-la.html). Me ne andavo in giro con il libro di Giancarlo Zizola, L’altro Wojtyla, che compulsavo religiosamente per capire la roba di cui mi sarei dovuto occupare.

 

Ora, io mai avevo pensato di scrivere di Vaticano nella mia vita. Eppure, mi resi conto che la cosa mi piaceva, e mi veniva facile. E sono molto convinto che le vocazioni non sono quelle che ti scegli, ma quelle che ti capitano, e che la vita ha i suoi modi per portarti lontano da quello che credi, ma in generale là dove devi essere.

 

Così, presi questa possibilità con l’entusiasmo e la curiosità del neofita. Mi misi a contattare tutti i vaticanisti che leggevo, quelli giovani, quelli meno giovani, per conoscerli di persona, prendere caffè con loro e cercare di carpire i segreti. Non usavo la Sala Stampa per questo. Andavo proprio a trovarli, perché io ho sempre creduto nell’approccio faccia a faccia.

 

Benny Lai era sempre il punto di riferimento, mi invitava a casa sua, mi faceva sentire le registrazioni delle sue vecchie interviste. Nel suo testamento scrisse che pensava di aver contribuito ad avviarmi alla professione. Era vero. Ci sono ricostruzioni che gli devo che sono incredibili, che mi hanno aiutato a dare nuove chiavi di lettura. Ricordo anche i momenti delle svolte, persino dove ero quando ho ricevuto una informazione. E ricordo quando don Gino mi disse di chiamare Gianfranco Svidercoschi, a cui chiesi tutto di Loreto 1985, cui stavo lavorando. Venne con la sua cortesia, mi spiegò tutto, mi diede idee. Una volta, mi prestò anche un pezzo del suo archivio, con tutti i ritagli su Chiesa e massoneria, perché avevo cominciato a leggere di quello. “Svider” è anche lui un punto di riferimento.

 

La Sicilia mi affidò ad un punto una rubrica, che si chiamava “Stanze Vaticane”, che andava a pagina 48 del giornale o giù di lì, ogni settimana, di sabato. La periodizzazione aiutava, e mi permetteva anche di includere una serie di temi che sul giornale non sarebbero andati normalmente. Viene probabilmente da lì il mio amore per i pezzi a rubrica, per la costanza che mi porto anche nel blog MondayVatican.

 

Quel blog ha un’altra storia. Io sono stato a La Sicilia, poi al Tempo e al Fatto Quotidiano (per un periodo contemporaneamente. Ma in qualche modo volevo anche fare altro, non mi è mai piaciuto fino in fondo il meccanismo della notizia per la notizia, o del titolo urlato. E così, un mio amico, che lavorava in Vaticano (ma ora non più) e di cui non posso fare il nome mi consigliò di cominciare a lavorare su temi internazionali in una lingua internazionale. E cioè, in inglese. Il mio inglese non era così buono al tempo, ma mi disse che non era importante. Mi disse di farlo sostenibile, di uscire una volta a settimana, di farlo il lunedì. Mi diede anche il nome.

 

Fu faticoso, all’inizio, comprendere che taglio dare al blog, di cosa scrivere, quali temi approfondire. Poi, divenne quasi naturale, perché come con tutte le cose ci vuole la pratica e l’esperienza per capire di cosa e di come parlare. MondayVatican mi ha catapultato a Catholic News Agency durante il secondo conclave seguito da vaticanista, quello del 2013, e da Catholic News Agency a tutto il gruppo della galassia EWTN, inclusa ACI Stampa, fondata 10 anni fa (qui un pezzo sul nono anniversario: https://vaticanreporting.blogspot.com/2024/03/nove-anni-di-aci-stampa-e-il-mio-modo.html – qui un pezzo celebrativo dei dieci anni https://www.acistampa.com/story/28953/dieci-anni-di-aci-stampa-i-viaggi).

 

Il mio interesse per le cose vaticane si è sviluppato in maniera mista e disetanea, come un bosco. All’inizio, mi piacevano le polemiche, lavoravo molto sulla politica interna perché il Vaticano finisce nelle pagine di interni, e comunque ero molto legato al dibattito italiano. Poi, ho conosciuto la parte culturale, grazie a Benedetto XVI e a don Giuseppe Costa, che era diventato direttore dell’Editrice Vaticana e che avevo conosciuto attraverso comuni amici a La Sicilia. Ho allargato i confini, e sono finito a fare l’internazionale, guardando molto ai temi del disarmo, della dottrina sociale, del multilaterale (e presto farò un libro sul tema, ma di questo parlerò a suo tempo). È stato l’internazionale che mi ha portato all’interesse per la finanza, cui sono arrivato con l’approccio del diplomatico, non con l’approccio economico. Poi, sono entrato nella questione storica, che mi ha sempre appassionato, e che mi ha permesso di dare profondità a tutto, con un particolare interesse per il protocollo, che mi ha portato a scrivere con monsignor Stefano Sanchirico i tre volumi sui Linguaggi Pontifici (Linguaggi Pontifici, La Carità del Papa, I Riti scomparsi dei Linguaggi pontifici, tutti per l’Editoriale Romani - https://www.editorialeromani.it/?s=gagliarducci&post_type=product)

 

Più parlavo con le persone, più comprendevo che molto era pregiudizio. Più guardavo il Vaticano, più capivo che la vita concreta batte sempre la nostra fantasia, in eccesso o in difetto.

 

Posso dire che in questi anni ho conservato la fede. Ho scritto diversi libri, undici ormai, e ho cercato di guardare il Vaticano da una prospettiva diversa. Di aggiungere profondità. Di farmi le domande e di darmi le risposte. Di non farmi prendere dall’idea di dover essere per forza semplicistico. Di accettare la complessità, sapendo che qualcuno la avrebbe apprezzata. Di non curarmi dei numeri, ma della sostanza.

 

Ho fatto errori. Ho dovuto imparare a parlare ai cardinali, ai vescovi, ai sacerdoti, a vestirmi, a non essere sempre politicamente scorretto. Venti anni sono, in genere, una vita. Nel mio caso sono almeno tre vite. Oggi sono in una fase nuova, guardo anche verso il mondo accademico, ho vissuto tutte le fasi del giornalista cattolico (ne ho parlato qui: https://vaticanreporting.blogspot.com/2023/11/un-libro-un-lutto-e-le-tre-fasi-del.html)

 

Tre vite, in fondo, iniziate grazie a Giovanni Paolo II. Ed è così che lo ricordo, a venti anni dalla morte, in maniera forse un po’ autoreferenziale. Ma ci sta, alla fine, perché il giornalista ha sempre un po’ di vanità da smaltire.

 

 

 

 

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento