Lasciatemi prima di tutto sgombrare il campo da ogni equivoco: c’è una riflessione che ho fatto quando ho visto il Papa in San Pietro, lo scorso 10 aprile, senza nemmeno insegne episcopali, con una maglietta bianca, una sorta di coperta o poncho un po’ raffazzonata e i pantaloni neri da gesuita, che deriva direttamente da una esperienza personale. E l’esperienza personale mi porta a parlare di un libro – anzi una serie di libri – che ho scritto e che mi hanno effettivamente aperto un mondo su questi temi.
Quindi sono forse di parte, e rischio di fare autopromozione. Meglio, dunque, fare subito outing, con tanto di foto. L’ultimo libro nato, uscito circa due settimane fa, si chiama “I Riti Scomparsi dei Linguaggi Pontifici” (Editoriale Romani) ed è l’ultimo di una trilogia scritta con monsignor Stefano Sanchirico tutta dedicata ai linguaggi pontifici. Il primo volume si chiamava appunto “Linguaggi Pontifici” e il secondo “La Carità del Papa”. Questi libri sono la naturale prosecuzione di un ciclo di interviste sui linguaggi pontifici cominciata alcuni anni fa (qui tutti gli articoli), ampliati e approfonditi con diverse altre informazioni storiche. E sono molto grato a monsignor Sanchirico per avermi aperto lo sguardo su questo mondo, mostrandomi, alla fine, che tutto, nella Santa Sede, è simbolo, e ogni simbolo conta.
Insomma, è abbastanza ovvio che io abbia una sensibilità particolare per il linguaggio dei simboli. E per questo non poteva non lasciarmi pensare quella apparizione un po’ estemporanea di Papa Francesco.
Si potrebbe dire che si tratta di una persona anziana, malata, e che dunque si deve comprendere anche la sua volontà di vivere in maniera normale. E lo capisco. Ma il fatto è che il Papa, e ogni cosa che fa il Papa conta. Lo sapeva Benedetto XVI, che nel dubbio non ha mai tolto la talare bianca da Papa emerito, e che da Papa non ha rinunciato ad uno dei simboli. Lo sapeva Giovanni Paolo II, che pure fu il Papa ritratto in pigiama nel Gemelli, ma che mai si fece vedere in una apparizione pubblica senza alcun segno della sua dignità. D’altronde, Giovanni Paolo II era l’arcivescovo di Cracovia che, nella sua Messa di installazione, andò a riprendere dalla sacrestia tutti i paramenti più antichi e preziosi, per dire al governo comunista, con un semplice gesto, che la Chiesa era lì da prima di loro e che lì sarebbe rimasta, vicino alle persone.
E alcuni sottolineano che il primo a depotenziare i simboli della Santa Sede fu Paolo VI, quando riformò la Prefettura della Casa Pontificia, abolì alcuni incarichi storici e rinunciò alla tiara. Ma Paolo VI mantenne un profondo legame con la tradizione. Non destrutturò, non trascurò alcun legame storico. Semmai, demondanizzò, che nell’accezione poi resa da nota da Benedetto XVI significa separare e riunire, dare nuova vita.
Io ricordo bene quando, all’inizio del pontificato, fui in un pool con un giornalista molto conosciuto oggi, e provavo a spiegargli il senso delle guardie svizzere in Clementina, del picchetto d’onore che accoglieva i capi di Stato, della processione dei Gentiluomini di Sua Santità che accompagnava verso la Biblioteca del Papa. Mi rispose che tutto poteva essere cambiato, perché non era dottrina. Oggi è uno dei giornalisti che più di tutti propugna la rivoluzione nella Chiesa.
Ma, sottolineando che tutto ciò che non è dottrina si può cambiare, mostrava anche il lato atroce della medaglia. Il totale disprezzo per la storia, l’idea di una epoca nuova che debba cancellare la vecchia, perché tutto deve essere rinnovato e moderno.
E sì, posso comprendere anche che Papa Francesco ha altri simboli, altri linguaggi, altri riferimenti, perché viene dell’America Latina, è un gesuita argentino, e lì conta più che il sacerdote si mostri con la camicia lisa come un descamisados e stare in mezzo alle persone, che mostrare invece i segni del potere, che, appunto, hanno una accezione negativa.
Così, un vescovo in America Latina deve adattare le sue insegne, il suo modo di fare, il suo essere presente tra le persone allo stile, ai simboli e alla storia dell’America Latina. E lo stesso accade in altri continenti, o in altre chiese particolari. Ma, allo stesso modo, un Papa deve adattare il suo linguaggio, il suo modo di essere, i suoi simboli al linguaggio del Papato, alla storia, ai simboli che ne sono parte, perché altrimenti la conseguenza non è quella di rinnovare, ma semplicemente quella di distruggere. Si crea una divisione, non ci può essere comunione, perché non c’è una lingua comune. Privati della possibilità di capirsi, in fondo, gli uomini ebbero Babele.
Insomma, tutto questo per dire che, al di là di tutto, ho trovato la presenza del Papa in piazza San Pietro, in quella mise improvvisata, una sorta di chiusura tombale dell’esperienza dei simboli del Papato. Una sorta di cesura.
E qui uso le parole di Francesco Colafemmina, che seguo dai tempi di Fides et Forma, e del quale apprezzo sempre l’acume e la profondità con cui guarda ai concetti, come solo un cultore della storia e della filosofia può fare. Scrive Colafemmina: “Tenuto conto che nessuno porterebbe in giro nemmeno suo nonno ammalato con la maglietta della salute e una copertina addosso, e che dunque la responsabilità di questa esibizione ricade su chi ha accettato di portarlo in giro così, resta un grande tema: il tema dei segni e della dignità”.
E si chiede: “L'uomo con la sua volontà è superiore all'istituzione che incarna? Può privarsi dei segni della sua dignità a piacimento e farne mostra come fossero orpelli inutili? È più comprensibile il capo di una istituzione millenaria che viene portato in giro nel centro del Cattolicesimo in pantaloni e maglia intima o i suoi predecessori che hanno mostrato la sofferenza senza rinunciare ai segni della loro dignità?”
Colafemmina argomenta poi: “Non c'è forse un sottile nichilismo nel considerare la dignitas e le sue insegne come qualcosa di insignificante e di non indispensabile, proprio da parte di chi senza dignitas e senza insegne non sarebbe potuto ascendere a quella posizione?”
E conclude: “Si sa, stiamo vivendo la fine di un mondo, la fine di simboli e assetti del potere, la fine di una visione dell'uomo e dei suoi riferimenti ideali. Sinceramente non mi allarma il motus in fine velocior della fine di un mondo, ma la natura delle forze che edificheranno quello venturo”.
Per quanto conti, non posso che sottoscrivere questa riflessione. Con una nota a margine.
Nessuna era, nessun movimento filosofico, ma anche nessuna persona che per affermare la sua bontà debba distruggere chi c’era prima o chi ha intorno può portare niente di buono. La bontà delle cose, e la loro novità, nasce dalla comprensione del passato. In alcuni casi si evolve, in altri no, ma niente può significare una totale distruzione. La distruzione, la cesura, crea sempre un conflitto, una guerra.
Abbiamo oggi il paradosso di una Chiesa che parla di pace, ma che vive al proprio interno un conflitto di linguaggio nato proprio dall’idea che tutti i simboli potevano essere cambiati. C’è stata molta noncuranza della storia – per esempio, la riforma della Curia toglie l’Elemosineria apostolica dalla Famiglia Pontificia e la burocratizza, facendone un dicastero, e cancellando la tradizione secolare della carità personale del Papa – e c’è stata anche molta ignoranza.
Non è stato un cambiar tutto per non cambiare niente, come si diceva nel Gattopardo, ma è stato un cambiare tutto per spostare i centri di potere. Quanto il Papa fosse consapevole di questo, non lo so. Forse è stato semplicemente preso dalla volontà di dare una svolta, e lo ha fatto con i mezzi e gli strumenti che gli erano propri, rifiutando il linguaggio pontificio perché il linguaggio pontificio era associato al potere – almeno per la sua visione dalla periferia.
Sto speculando qui, ma ci si deve chiedere quanto la Chiesa non abbia saputo spiegare la storia, i suoi simboli, le sue tradizioni, e quanto non sia andata a fondo sulle ragioni che la rendevano viva e presente nel mondo. Si parlava, all’inizio del pontificato, di “spinta propulsiva” di Papa Francesco, e poi ci si chiedeva se questa si fosse esaurita nel momento in cui il Papa aveva cominciato a ripetere i concetti, mentre intorno a lui tutto cambiava e lui intanto continuava a governare in maniera personale.
Ma una riforma si esaurisce solo se non ha niente da dire, solo se vive semplicemente in contrapposizione con il passato, solo se deve cancellare quello che c’era prima per poter vivere il futuro.
Chi prenderà questa eredità dovrà avere il coraggio di ritornare ai simboli, o altrimenti la rivoluzione sarà compiuta. E così il Papa sarà Papa solo per il carisma che emana, mentre la dignità dei simboli sarà derubricata a folklore. Ma la storia può essere folklore solo se non viene guardata con profondità.
In fondo, la Chiesa ha mantenuto una liturgia costante perché ha sempre creduto fino in fondo che con Gesù Cristo tutto era stato rivelato, e tutto doveva rifarsi a quel momento in cui Gesù diventava corpo e sangue e dava la sua vita per noi. Non è una nostalgia del passato. È un modo di vivere il presente. Lo sapremo comprendere?
Tutto questo mi veniva di pensare. E lo dico con tutto l’affetto possibile per un Papa che sta soffrendo, che è malato, e che, in fondo, ha bisogno di essere accompagnato in alcune scelte. Ma se chi lo accompagna non è consapevole della dignità delle insegne del Papa, chi saprà difendere davvero il Papato?
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