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giovedì 2 novembre 2023

Un libro, un lutto, e le tre fasi del giornalista cattolico

Non ho fatto ancora presentazioni pubbliche del mio ultimo libro “Il Futuro della Chiesa. Dieci sfide per i sinodi che verranno” (Città Nuova Editrice) – che comunque potete comprare qui. Ho però avuto modo di tenere una piccola presentazione, ristretta a membri del corpo diplomatico e qualche minima eccezione, nell’Istituto Storico Slovacco di Roma, che era la casa del Cardinale Jozef Tomko, lo scorso 26 ottobre (nella foto).

In genere non racconto molto cose personali, perché credo nel valore generale di quello che scriviamo, che va al di là della nostra persona. Questa volta faccio una eccezione.

 

Prima di tutto, perché ci sono dei ringraziamenti pubblici da fare, prima di tutto. All’ambasciatore Marek Lisánsky, che rappresenta la Slovacchia presso la Santa Sede e che ha messo a disposizione il centro, e al direttore del centro Daniel Cerny. All’ambasciatore Václav Kolaja, che ha relazionato il libro, e a don Antonio Ammirati, vicesegretario del Consiglio delle Conferenze Episcopali di Europa, che lo ha moderato. E all’arcivescovo Gintaras Grušas, presidente del CCEE, che ha scritto la prefazione e che avrebbe anche partecipato alla presentazione, se il Sinodo non lo avesse trattenuto, a lui come a molti altri che sarebbero voluti esserci.

 

Non posso, e non ho potuto, fare altro che ringraziare delle parole gentili che mi sono state rivolte da tutti, e che so non essere di circostanza. Mentre ascoltavo, ho ripensato molto al lavoro fatto fin qui, e ho elaborato un concetto che secondo me è importante dire in pubblico, e che è il motivo per cui scrivo questo post.

 

Io generalmente non mi definisco giornalista, ma giornalista cattolico. E non perché scriva nella stampa cattolica, ma perché il mio punto di vista, l’idea da cui parto, è proprio quella cattolica. So che la mia vita non è cattolicamente perfetta, ma ciò non significa che io non creda profondamente nei valori che racconto, in quella Chiesa che amo e che cerco di raccontare, con i suoi pregi e i suoi difetti, senza fare sconti, con un approccio forse a volte troppo “laico”, disincantato e cinico, ma con la volontà grande di dare prospettiva e profondità a quella che è l’informazione religiosa oggi.

 

Giornalista cattolico, dunque. Ma perché? Ho realizzato che nella vita di un giornalista cattolico ci sono tre fasi.

 

La prima è quella dell’innamoramento. Ci si innamora della professione, si viene presi dalla professione in un modo quasi viscerale, perché questo lavoro si può fare solo immergendosi in ciò che si scrive. Io ho cominciato nel giornalismo politico, e non sapevo nemmeno cosa fosse, poi ho continuato occupandomi di temi etici e bioetici, e alla fine sono approdato al vaticanismo. Scrivere di Vaticano non era quello che pensavo di fare nella vita, ma è quello che mi ha reso felice. E credo che per fare questo lavoro ci si debba sentire bene. Scrivere è un lavoro, un continuo perfezionamento, e se diventa difficile anche solo memorizzare i concetti, allora significa che non è un lavoro che stiamo amando.

 

La prima fase ha l’entusiasmo giovanile. Si vive nel mito dello scoop, e nell’informazione religiosa lo scoop può essere solo uno scandalo, perché la verità è che non ci sono scoop. Si vive nel mito di chi fa opinione, ma per fare opinione si deve avere una idea, e avere una idea originale e profonda non è una cosa semplice, e raccontare in modo semplice una idea complessa lo è ancora di più. Nell’entusiasmo giovanile, gli scandali diventano opportunità, e la visibilità è qualcosa che si cerca. In fondo, il giornalista è sempre vanitoso.

 

La seconda fase è quella della consapevolezza. Scriviamo di informazione religiosa, ci concentriamo sul Vaticano, raccontiamo le parole del Papa. Ma sappiamo davvero farci toccare da quello che diciamo? Ricordo sempre che in Apocalittici e Integrati Umberto Eco sottolineava, riprendendo un sociologo (credo fosse Genette, ma siate clementi, non sto controllando la citazione ora), che non si può parlare davvero del juke-box se ti fa schifo metterci dentro la monetina. Ecco, non si può parlare di Chiesa se non se ne capisce e ne apprezza il linguaggio. Poi, puoi non credere, puoi non interessarti alle cose di fede, ma per capire la Chiesa devi parlare la lingua della Chiesa. Invece, quello che viene fatto è spesso l’inverso: si racconta la Chiesa con categorie politiche e sociologiche. In Italia il vaticanista è spesso inserito nella redazione politica – raramente in quella degli Esteri – e dunque le notizie risentono di quel linguaggio oscuro e molto locale e provinciale che davvero non racconta una realtà universale come la Chiesa cattolica.

 

La consapevolezza aiuta a fare un passo indietro, a rinunciare a usare certi toni per raccontare uno scandalo e anche a comprendere quali sono le storie che vale la pena raccontare. La consapevolezza porta a comprendere il perché le fonti cercano noi e non un altro, a farsi i primi dubbi, a vivere la professione non più con l’entusiasmo del ventenne, ma con la consapevolezza del trentenne che nessuno di noi scribacchini è lì a salvare il mondo, e che le fonti usano noi come noi usiamo loro, in quello che il piccolo Kim di Rudyard Kipling chiamerebbe “il grande gioco”.

 

Infine c’è la terza fase, che è quella della responsabilità. Si decide di essere giornalisti cattolici nel senso di essere giornalisti che raccontano il mondo da una prospettiva cattolica, comprendendo che uno dei primi compiti è quello di aiutare e sostenere la Chiesa. Siamo responsabili di quello che facciamo, responsabili dei messaggi che ci vengono passati, responsabili di rendere “potabili” discorsi e documenti molto difficili.

 

Nel mio caso, la responsabilità è diventata una consulenza con il Consiglio delle Conferenze Episcopali di Europa, e anche una serie di altre piccole consulenze e relazioni personale con molti protagonisti della Chiesa, che mi fanno a volte fare l’esperienza di stare “dall’altro lato” e mi permettono così di comprendere le logiche dietro le decisioni. Non che condivida tutto, e non che faccia sconti quando scrivo, ma so essere più indulgente, so capire le ragioni, e dunque so aiutare a raccontarle.

 

Essere giornalista cattolico responsabile significa essere quel giornalista che viene cercato perché si sa che un documento pesante di trenta pagine sarà da lui compreso e reso nel modo più aderente possibile al suo spirito originario, sebbene in sintesi. È un percorso, un percorso difficile, che si può attuare solo con quella umiltà epistemologica che secondo me è alla base di questa professione. Significa, essere umili abbastanza da approcciarsi ad ogni argomento con mente fresca, seppur con le proprie idee, e con l’onestà intellettuale di sapere che il nostro sarà solo un punto di vista, forse parziale, e dunque non si può, né si deve, esagerare nei toni. L’enfasi è retoricamente bella, ma non è funzionale ad una narrativa intellettualmente onesta.

 

Riprendere quello che ho detto lo scorso 26 ottobre non è solo, per me, l’occasione di metterle nero su bianco, perché al momento avevo parlato spontaneamente, come faccio sempre. Significa anche cercare di guardarmi indietro, e comprendere da dove sono partito, e dove sono adesso, con tutti i miei errori.

 

La necessità di guardarmi indietro mi è venuta da un lutto: la morte di Suor Giovanna Gentili, per anni assistente della Sala Stampa della Santa Sede. Fu lei ad accogliermi in Sala Stampa, con una strana severità mista a dolcezza che poi mi resi conto attribuiva soprattutto a giovani che pensava di dover aiutare a crescere.

 

Nel mio caso, fu generosissima. Io non sapevo nemmeno esistessero i pool per seguire le visite di presidenti e capi di Stato dal Papa, ma lei mi individuò in Sala Stampa mentre lavoravo e mi chiese se ero disponibile a fare il pool per l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

 

Era un pool importante e ambito, e ci andavano ovviamente le grandi firme e le grandi testate. C’erano, nel pool, Salvatore Mazza, presidente dell’AIGAV, l’associazione dei vaticanisti (lo ho ricordato qui), Andrea Tornielli, allora già navigato vaticanista del Giornale e oggi direttore editoriale del Dicastero della Comunicazione, e Fulvio Fania, vaticanista di Liberazione, un laico incallito eppure curioso delle cose di Chiesa, attento ai dettagli con la curiosità dell’uomo di cronaca. Suor Giovanna mi disse: “Ho deciso che nel pool ci deve essere anche un giovane, e ho pensato a lei. Lei sarebbe disponibile?” Io ero abbastanza stupito, chiesi di cosa si trattasse, ovviamente accettai e mi ritrovai nell’ufficio accrediti con Suor Giovanna che mi spiegava come vestirsi, come muoversi, cosa vedere e mi guidava nelle stanze che avrei percorso mostrandomi la cartina. Fu il mio primo approccio con il cerimoniale vaticano, e fu solo grazie ad una opportunità che non avevo chiesto.

 

La morte di Suor Giovanna - che ho conosciuto poco, perché andò in pensione poco dopo il mio arrivo – mi ha portato a pensare se davvero ho meritato quel privilegio che mi diede e quell’anticipo di simpatia che ho avuto in tempo insospettabile. Non c’è stata solo lei. Anche il mio blog in inglese, MondayVatican, nasce da un anticipo di simpatia che mi è stato dato da un officiale vaticano, che definì il mio percorso molto prima che io sapessi di avere un percorso, e mi suggerii i passi da fare e le prospettive da cui guardare.

 

E mi veniva da pensare che l’assunzione di responsabilità ci può essere solo se c’è qualcuno a donarti un anticipo di simpatia, perché quell’anticipo di simpatia è già una responsabilità grande, da vivere e portare avanti con rispetto per chi ti ha pensato ed amato per primo.

 

Sono giorni che ho il sorriso di Suor Giovanna nella mente, un sorriso a volte quasi imbarazzato, specie quando ascoltava una battuta magari non proprio adeguata al contesto, ma che riusciva ad apprezzare nonostante tutto. Sono giorni che ripenso al mio modo di essere giornalista, con i miei limiti, e anche con la voglia di portare avanti un discorso. E così, il mio discorso del 26 ottobre si collega con il lutto del 28 ottobre e il funerale del 30. Perché in fondo la vita di un giornalista è questo: tutto diventa parte di un qualcosa da raccontare e da vivere.  



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