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domenica 22 ottobre 2023

Giovanni Paolo II e la sua visione dell'Europa


Lo scorso 17 ottobre, sono stato a Varsavia per partecipare ad una conferenza del Museo Giovanni Paolo II e Cardinal Wiszinski in occasione del 45esimo anniversario dell'elezione del Papa polacco. Mi hanno chiesto di parlare di "Giovanni Paolo II e la sua visione dell'Europa", basandomi sulla ricerca che avevo fatto per il mio libro "Cristo Speranza dell'Europa". Oggi, memoria di San Giovanni Paolo II, pubblico la versione estesa del discorso, che avevo poi ampiamente rimaneggiato per rimanere nei tempi della conferenza.

Pope to the world

International Conference

45th Anniversary of the Pontificate of

John Paul II

 

Giovanni Paolo II e la sua visione dell’Europa

Di Andrea Gagliarducci

 

Racchiudere in poche parole la visione di Giovanni Paolo II dell’Europa è riduttivo. Si può, è vero, cercare di fare un bilancio storico di quello che Giovanni Paolo II ha fatto riguardo per l’Europa e sull’Europa, e sarebbe più che legittimo. Quello che però colpisce è che Giovanni Paolo II è stato un Papa profondamente europeo, eppure allo stesso tempo un Papa aperto al mondo. Giovanni Paolo II è stato probabilmente il Papa che più di tutti ha incarnato lo spirito europeo che nasce a Gerusalemme, entra in occidente da Atene, e diventa universale a Roma.

 

Per questo, il mio tentativo non sarà di fare un bilancio storico, ma piuttosto di dare uno sguardo di insieme. Partirò da un punto di vista particolare, ed è il lavoro che Giovanni Paolo II ha fatto con il Consiglio delle Conferenze Episcopali di Europa.

 

Nato nel 1961 a partire da una semplice nota redatta dall’allora monsignor Roger Etchegaray – che fu poi cardinale e grande inviato di Giovanni Paolo II in tutto il mondo – il Consiglio racchiude rappresentanti di tutte le Conferenze Episcopali di Europa.

 

L’idea che mosse la nascita del consiglio era di creare un network europeo. Ricordo che era il 1961, era il tempo della Cortina di Ferro, e i due “polmoni dell’Europa” – per usare una espressione nota di Giovanni Paolo II – non potevano respirare all’unisono. Eppure, i vescovi europei pensarono subito all’Europa non in senso politico, ma non in senso geografico. Si pensava a un grande network dei vescovi europei dall’Atlantico agli Urali, dal Portogallo alla Russia. Non è un caso che Giovanni Paolo II lancerà poi da Santiago di Compostela l’Atto Europeista, all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso.

 

Giovanni Paolo II lavorò all’interno di quel consiglio. Tenne relazioni importanti. E fu lui a proporre che il tema della libertà religiosa entrasse con forza nel dibattito europeo. Giovanni Paolo II fu tra i primissimi a comprendere il grande potenziale che c’era nella dichiarazione di Helsinki, che poi diede il via quella che sarebbe stata l’Organizzazione delle Cooperazione e della Sicurezza in Europa.

 

Fu la Santa Sede a volere includere il tema della libertà religiosa all’interno del documento della sicurezza, con una proposta che fu subito considerata prorompente. Fu Giovanni Paolo II a comprendere meglio di tutti quanto quella possibilità poteva essere sfruttata per cominciare a buttare giù il sistema comunista.

 

E, in fondo, non poteva che essere Giovanni Paolo II a comprenderlo. In Polonia, Giovanni Paolo II lavorava sulla cultura. Era noto per non essere un tipico sacerdote e vescovo di opposizione, ma piuttosto un formatore. Giovanni Paolo II creava coscienze, educava alla libertà.

 

Ho l’idea profonda che proprio da quelli incontri europei Giovanni Paolo II abbia tratto nuova forza e comprensione di quello che sarebbe dovuto essere il ruolo della Chiesa in Europa. Per comprenderlo, dobbiamo leggere un documento in particolare

 

                                               La Ecclesia in Europa e lo sfondo su cui nasce

 

Oggi stiamo celebrando il 45esimo anniversario di pontificato di Giovanni Paolo II. Non è stato celebrato, però, un altro anniversario importante: il ventesimo anniversario della promulgazione della esortazione post-sinodale Ecclesia in Europa. Si tratta di un documento “miliare” per comprendere la visione di Giovanni Paolo II sull’Europa.

 

Già nel 1991, Giovanni Paolo II convoca il primo Sinodo per l’Europa, per affrontare il tema della Chiesa in Europa dopo la caduta del Muro, che nelle parole di Lech Wałe¸sa, storico capo del sindacato polacco Solidarnos´c´, andava attribuito per il 70 per cento a Giovanni Paolo II.

 

So che questo potrebbe sorprendere, e ci sono letture della situazione più autorevoli della mia, ma per quello che ho potuto vedere Giovanni Paolo II non agisce in contrapposizione con i papi precedenti. Basti pensare che il card. Agostino Casaroli, l’architetto del dialogo con i Paesi oltre Cortina, più tardi definito come Ostpolitik, viene scelto dal papa polacco come suo segretario di Stato. Semplicemente, Giovanni Paolo II porta la propria conoscenza della situazione, l’attivismo culturale, la voglia di superare i drammi dell’oppressione nel pontificato.

 

Si trova a lavorare su solide basi, con situazioni differenti. Casaroli aveva dovuto maneggiare, da un punto di vista “vaticano” e più ampio, lo scontro aperto tra Chiesa e governo in Ungheria, con la questione del card. Mindszenty impossibilitato a uscire dall’ambasciata statunitense di Budapest; la difficile situazione nella Repubblica Ceca praticamente impermeabile alla Chiesa cattolica. Ma anche il caso polacco, dove la Chiesa cattolica era forte e aveva un impatto sulla popolazione, al destino dei cattolici in Bulgaria, quasi sconosciuti.

 

L’elezione di Giovanni Paolo II avviene in un momento favorevole, tre anni dopo l’Atto di Helsinki. Il lato orientale della Cortina di Ferro era il lato orientale di un’Europa che si era andata formando dopo la Prima Guerra mondiale: Lituania, Lettonia ed Estonia raggiungono un’identità nazionale nel 1918, la Romania raggiunge il sogno della Grande Romania a spese di larga parte del territorio ungherese in quello stesso anno. Le ferite dell’Europa cominciano da lì. Nascono i nazionalismi, il crollo degli imperi crea un vuoto difficilmente colmabile. È l’era dei genocidi, dei grandi massacri: dagli armeni agli assiro-caldei in Turchia, fino agli ucraini lasciati morire di fame nella Russia di Stalin.

 

L’Unione Sovietica porta avanti un nuovo imperialismo, che assoggetta tutti in un’ideologia comune: non c’è posto per una religione non di Stato, anzi non c’è proprio posto per la religione. Lituania, Lettonia, Estonia perdono la loro identità nazionale; Romania, Ungheria, Polonia e Germania dell’Est finiscono sotto governi comunisti legati a Mosca; Ucraina e Bielorussia vengono completamente assorbite – nemmeno durante i grandi nazionalismi erano riuscite a formare una nazione e a ottenere una loro indipendenza.

 

Tutto questo comincia a crollare passo dopo passo, anche grazie al sapiente lavoro della Chiesa. Perseguitate, in diaspora, le comunità cattoliche continuano a essere presenti. Emblematico il caso della Bulgaria, dove i cattolici resistono nel silenzio. Quella che si presenta dopo la caduta del Muro di Berlino è un’Europa che ha bisogno di riconciliazione.

 

Da dove nasce il primo percorso di riconciliazione? Nasce qui in Polonia, nel 1965, con la lettera dei vescovi polacchi ai vescovi tedeschi, voluta dal Cardinale Kominek, arcivescovo di Wroclaw. Il Cardinale Kominek sarà anche il primo dei vicepresidenti del Consiglio delle Conferenze Episcopali di Europa.

 

Giovanni Paolo II si nutre di tutto questo, lo vive, lo comprende. E lo porta nel pontificato. Non a caso, nella messa di inizio pontificato, il 22 ottobre 1978, abbraccia due dei cardinali che gli rendevano omaggio: il primate polacco Stefan Wyszyn´ski e l’arcivescovo greco-cattolico di Lviv Josyp Slipyj, con il quale un mese dopo il papa prepara le celebrazioni per il millenario del battesimo della Rus’.

 

Negli anni Ottanta, Giovanni Paolo II convoca il Sinodo della Chiesa greco-cattolica ucraina a Roma, e ricompone una diaspora che durava ormai dallo pseudo Sinodo di Lviv. È sotto i suoi auspici che comincia la riconciliazione polacco-ucraina. Ci sono ancora II. Chiesa in Europa. Il percorso molte ferite aperte, nell’Europa dell’Est. Eppure, dopo la caduta del Muro di Berlino, serpeggia anche una consapevolezza comune: essere tutti parte di un unico continente.

 

                                               Guarire le ferite dell’Europa

 

Quando viene convocato il primo Sinodo sull’Europa nel 1991, si avverte dunque anche la necessità di guarire delle ferite, cicatrici rimaste aperte tra Oriente e Occidente. Il movimento ecumenico nasce all’inizio del XX secolo, e diventa concreto con lo sviluppo di un dialogo basato sul rispetto reciproco e sull’esplorazione di vie per condividere la comune fede in Cristo.

 

Per la Chiesa cattolica, la svolta è stata data dal Concilio Vaticano II, dal decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio, in cui l’ecumenismo viene considerato un bisogno vitale per la Chiesa, mentre nella Lumen Gentium si danno linee-guida per i rapporti di fraternità con le altre Chiese, e il dialogo con le religioni non cristiane e con i non credenti è delineato nella dichiarazione Nostra Aetate e nella dichiarazione Dignitatis Humanae.

 

Erano state varie le collaborazioni ecumeniche, che sfociarono poi nella grande assemblea ecumenica del 1989.

 

Era maggio, di lì a poco sarebbe caduto il Muro di Berlino, sebbene pochi lo potessero pensare allora. Tutte le confessioni cristiane, però, si trovavano unite nel dire che “il processo ecumenico in favore della giustizia, della pace e della salvaguardia del creato è prima di tutto opera dello Spirito Santo”. Il tema dell’Assemblea è “Pace nella giustizia”, e preconizza quello che sarà il tema dei rapporti ecumenici dopo la fine della Cortina di Ferro.

 

Dopo il crollo del Muro, cominciano le vere difficoltà. Le Chiese di rito orientale escono dalla diaspora, chiedono la restituzione delle chiese e delle strutture che gli appartenevano e che sono poi state passate ad altre confessioni cristiane. È un problema che riguarda in particolare la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, laddove la gerarchia di quest’ultima, seppur sotto pressione, era rimasta presente come punto di riferimento, soprattutto in Russia, Ucraina, Romania.

 

Il messaggio di Giovanni Paolo II all’assemblea ecumenica del 1989 è significativo. Il papa polacco ricorda la relazione più positiva tra Est e Ovest a seguito del declino dell’ideologia comunista, eppure “nuovi problemi e nuove tensioni sono apparse, a volte espresse violentemente in conflitti aperti”. Ma i cristiani, aggiunge, “hanno una responsabilità particolare, perché la loro eredità spirituale vera incarna lo spirito di perdono e di pace”, e per questo “non dobbiamo dimenticare né perdere i valori che il cristianesimo ha portato alla storia di Europa”.

 

Da qui, il Sinodo sull’Europa del 1991, che serviva ad analizzare, per la prima volta, la situazione del continente europeo dopo il crollo del Muro di Berlino e l’apertura alla fede negli Stati che si trovavano di là della Cortina di Ferro. Quindi, nel 1999, Giovanni Paolo II convoca un altro sinodo dell’Europa, in realtà parte di un percorso di cinque sinodi continentali chiamati a preparare al Giubileo 2000.

 

                                               La Ecclesia in Europa

 

Le conclusioni del Sinodo 1999 sono affidate ad una potente e profetica esortazione apostolica post-sinodale, la Ecclesia in Europa, promulgata nel 2003.

 

Strutturata seguendo alcuni passaggi del Libro dell’Apocalisse, l’esortazione di Giovanni Paolo II non è solo una fotografia di cosa sia diventata l’Europa e cosa possa essere, ma riporta la Chiesa d’Europa al suo compito originario, che è quello dell’evangelizzazione. Tutto ruota intorno a una domanda centrale: “Il Figlio dell’Uomo, quando tornerà sulla Terra, troverà la fede?”

 

San Giovanni Paolo II percepisce tutto questo, e non potrebbe essere altrimenti. Lui, che ha voluto già a Santiago di Compostela un “Atto europeistico” nel 1982, sa che l’Europa ha bisogno di respirare con i due polmoni di oriente e occidente. Ma, soprattutto, sa che in questo gioco di organi che fanno il corpo vivo del continente europeo, il cuore è il cristianesimo, e in particolare l’annuncio di una persona, Gesù Cristo. È Gesù Cristo la speranza dell’Europa, e questo è già nelle linee guida del Sinodo sull’Europa. Con l’esortazione post-sinodale, San Giovanni Paolo II non fa che certificarlo, che gridarlo ai quattro venti, cercando di riportare l’Europa a Cristo in uno sforzo di evangelizzazione che, visto venti anni dopo, appare quasi commovente.

 

La chiave di lettura è dunque l’Apocalisse. Come tra le sette Chiese dell’Apocalisse ve ne furono alcune povere di fede, anche tra le Chiese di Europa ce ne sono alcune povere di fede. “´Il Figlio dell’uomo – si chiedeva San Giovanni Paolo II - quando verrà, troverà la fede sulla terra?´ (Lc 18, 8). La troverà su queste terre della nostra Europa di antica tradizione cristiana? È un interrogativo aperto che indica con lucidità la profondità e drammaticità di una delle sfide più serie che le nostre Chiese sono chiamate ad affrontare”.

 

Vorrei ripercorrere i passaggi di questa esortazione, perché dicono molto di come il pensiero di Giovanni Paolo II sull’Europa si era evoluto, aveva compreso i segni dei tempi.

 

Tra le sfide proposte nell’esortazione, quelle della vita, dall’aborto all’eutanasia, ma anche quella sulla pastorale dei divorziati risposati, fino a quella del dialogo ecumenico e interreligioso. E c’è poi il tema, grandissimo, della libertà religiosa. Perché la Chiesa – scriveva Giovanni Paolo II - chiede libertà religiosa, e ribadisce “che la reciprocità nel garantire la libertà religiosa sia osservata anche in Paesi di diversa tradizione religiosa, nei quali i cristiani sono minoranza”.  E per questo “si comprende la sorpresa e il sentimento di frustrazione dei cristiani che accolgono, per esempio in Europa, dei credenti di altre religioni dando loro la possibilità di esercitare il loro culto, e che si vedono interdire l’esercizio del culto cristiano nei Paesi in cui questi credenti maggioritari hanno fatto della loro religione l’unica ammessa e promossa”.

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L’Ecclesia in Europa, però, è prima di tutto una esortazione che chiede di ripartire da Gesù Cristo e rievangelizzare il continente di fronte allo “smarrimento della memoria e delle eredità cristiane”, accompagnato da “una sorta di agnosticismo pratico e di indifferentismo religioso, per cui molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale, come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia”.

 

Non si riconosce il cristianesimo, e per questo “tanti uomini e donne sembrano disorientati, incerti, senza speranza. E non pochi cristiani condividono questi stati d’animo”. Questo provoca “una sorta di paura nell’affrontare il futuro”, segnalata dal “il vuoto interiore che attanaglia molte persone, e la perdita del significato della vita” che si rivela “nella paura di fare figli e nel rifiuto di impegni definitivi, nel sacerdozio come nel matrimonio”.

 

Insomma, si deve tornare a Cristo, perché se non c’è una fede, l’esistenza resta frammentata e allora vengono fuori “razzismo, egocentrismo, conflitti etnici, una generale indifferenza etica e una cura spasmodica per i propri interessi e privilegi”. Si assiste a una globalizzazione “che invece di indirizzare verso una più grande unità del genere umano, rischia di seguire una logica che emargina i più deboli e accresce il numero dei poveri della terra”. E con il diffondersi dell’individualismo, c’è “un crescente affievolirsi della solidarietà inter-personale e molte persone si sentono più sole, lasciate in balia di se stesse, senza reti di sostegno affettivo”.

 

Di fronte al nichilismo filosofico e del pragmatismo che in quei tempi cominciavano a diffondersi in Europa, la Chiesa non può offrire altro che la fede in Gesù Cristo e una speranza che “non si fonda su un’ideologia utopistica”. E poiché le istituzioni europee hanno per scopo dichiarato la tutela dei diritti della persona umana, il Papa chiedeva ai responsabili di “alzare la voce quando sono violati i diritti umani dei singoli, delle minoranze e dei popoli, a cominciare dal diritto alla libertà religiosa; di riservare la più grande attenzione a tutto ciò che riguarda la vita umana dal suo concepimento fino alla morte naturale e la famiglia fondata sul matrimonio”. E chiedeva di “affrontare secondo giustizia ed equità e con senso di grande solidarietà il crescente fenomeno delle migrazioni, rendendole nuova risorsa per il futuro europeo, e di fare ogni sforzo perché ai giovani venga garantito un futuro veramente umano con il lavoro, la cultura, l’educazione ai valori morali e spirituali”.

 

Per tutto questo “è necessaria una presenza di cristiani, adeguatamente formati e competenti, nelle varie istanze e Istituzioni europee, per concorrere, nel rispetto dei corretti dinamismi democratici e attraverso il confronto delle proposte, a delineare una convivenza europea sempre più rispettosa di ogni uomo e di ogni donna e, perciò, conforme al bene comune”.

 

                                               Il tema delle radici cristiane dell’Europa

 

L’esortazione Ecclesia in Europa veniva pubblicata dopo che Giovanni Paolo II aveva guidato la Chiesa alla grande battaglia per il riconoscimento delle radici cristiane di Europa nel progetto di costituzione europea.

 

Quella di Giovanni Paolo II era una battaglia che veniva da lontano. Visitando il Parlamento Europeo a Strasburgo nel 1998, il Papa polacco aveva auspicato un’Europa unita politicamente secondo i confini geografici. “Come potrei non desiderarlo – dice il papa polacco –, dato che la cultura ispirata dalla fede cristiana ha profondamente segnato la storia di tutti i popoli della nostra unica Europa, greci e latini, tedeschi e slavi, malgrado tutte le vicissitudini e al di là dei sistemi sociali e delle ideologie?”.

Giovanni Paolo II rimarcava che proprio l’Europa non può “concepirsi privata da una sua cultura trascendente”, e sottolineava i danni delle “correnti di pensiero che a poco a poco hanno allontanato Dio dalla comprensione del mondo e dall’uomo”, alimentando “una tensione costante fra il punto di vista dei credenti e quello dei fautori di un umanesimo agnostico e a volte anche ‘ateo’”.

Togliendo Dio dalla storia, ammoniva Giovanni Paolo II, “l’etica non ha allora altro fondamento che il consenso sociale, e la libertà individuale altro freno se non quello che la società ritiene di dover imporre per la salvaguardia di quella altrui”.

Santiago e l’Atto Europeista

Facciamo ancora un passo indietro nella storia di Giovanni Paolo II. Torniamo al 1982, a Santiago di Compostela.

È un luogo simbolico, Santiago di Compostela. È il luogo dove si forgia l’identità dell’Europa, con un Cammino che, sotto l’impulso dei monaci benedettini di Cluny, fin dall’XI e XII secolo, arriva alla Finis Terrae, al confine della terra, e può essere ora considerato una delle radici vive e vere d’Europa.

A Santiago, e nel cammino di Santiago, si intrecciano varie storie, perché è lì che la cristianità (e non solo) si dà appuntamento dal Medioevo in poi, in un cammino che porta i pellegrini a conoscere esempi di carità e devozione, santuari, santi come Francesco d’Assisi o Brigida, e peccatori e penitenti, cristiani che continuano quello straordinario progetto di cercare Dio in forme diverse, ma con uno scopo unico.

Non è un caso, dunque, che Giovanni Paolo II scelga Santiago come il luogo finale del suo viaggio in Spagna, e lì, il 9 novembre 1982, riunisca proprio di fronte alla cattedrale di S. Giacomo i rappresentanti degli organismi europei, dei vescovi e delle organizzazioni d’Europa.

In quel giorno, tenne un discorso che viene chiamato Atto europeista, e che mantiene tutta la sua attualità non solo per la sua portata simbolica, ma anche per le conseguenze che dovrebbero portare quelle parole.

Nel discorso, Giovanni Paolo II notò che “la storia della formazione delle Nazioni Europee scorre parallela a quella della loro evangelizzazione, fino al punto che le frontiere europee coincidono con quelle della penetrazione del Vangelo”, e che un continente così profondamente cristiano era anche “quel continente che ha più contribuito allo sviluppo del mondo, tanto sul piano delle idee quanto su quello del lavoro, delle scienze e delle arti”.

Giovanni Paolo II mise in luce anche la divisione dell’Europa, non solo sul piano civile, ma anche su quello religioso, e non tanto per le “divisioni avvenute lungo i secoli”, ma piuttosto “per la defezione di battezzati e credenti dalle ragioni profonde della loro fede e dal vigore dottrinale e morale di quella visione cristiana della vita, che garantisce equilibrio alle persone e alle comunità”.

E così, il Papa chiese all’Europa di ritrovare sé stessa. Rivolgendosi idealmente all’Europa, sottolineò: “Riscopri le tue origini, Ravviva le tue radici. Torna a vivere dei valori autentici, che hanno reso gloriosa la tua storia, e benefica la tua presenza negli altri continenti”.

Giovanni Paolo II e il ruolo dei vescovi

Torniamo ancora indietro, all’inizio di questa relazione. All’Atto di Helsinki del 1975, e a come questo diventi per l’allora Cardinale Karol Wojtyla una pietra miliare, e di come lo porti ai vescovi europei.

Perché l’Atto di Helsinki è così importante? Perché il suo VII principio sottolinea “la libertà dell’individuo di professare o praticare, solo o in comune con altri, una religione o un credo, agendo secondo i dettami della propria coscienza”.

La formulazione era stata proposta dall’allora mons. Achille Silvestrini (1923-2019), negoziatore vaticano alla Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa. Quando monsignor Silvestrini propose l’emendamento, il 7 marzo 1973, lo argomentò così: l’Europa ha una comune cultura, la cultura cristiana, ed è per questo che la libertà religiosa era un tema fondamentale. Non ci aveva pensato nessuno, e il cambio di paradigma era importante. Fino ad allora, la conferenza era stata soprattutto intorno alla stabilizzazione delle frontiere, e le proposte erano di cooperazione in campo economico, scientifico, ambientale, umanitario.

La proposta fu accettata, vi aderirono tutti i Paesi europei, incluse le due Germanie, la Santa Sede e il Principato di Monaco, ma non l’Albania, che la accetterà solo nel 1990, quando il piccolo Stato sull’Adriatico si riaprirà al mondo dopo anni di ateismo di Stato, in cui ogni tipo di manifestazione religiosa era bandita. Probabilmente, però, i Paesi dell’Est non immaginavano in che modo questo semplice paragrafo avrebbe avuto un impatto all’interno dei loro sistemi.

Lo immaginava, invece, il card. Wojtyła. L’accordo finale di Helsinki viene approvato  l’11 agosto 1975. Dal 14 al 18 ottobre si tiene il III simposio dei vescovi europei, su “La Missione del vescovo al servizio della fede”. Il card. Wojtyła ne è uno dei principali relatori. Nelle discussioni, sarà lui a raccomandare, con forza, che il CCEE agisca perché l’accordo sia applicato, con l’appoggio dell’allora arcivescovo di Bruges Emiel Jozef De Smedt (1909-1995).

                                                           Il futuro dell’Europa

Cosa ci dicono questi episodi, che ho lanciato per flash, con citazioni? Che Giovanni Paolo II ha sempre visto all’Europa nella sua globalità e nella sua forza trascendente. Ne ha riconosciuto sempre il potenziale cristiano, e ha visto nel cristianesimo una straordinaria potenza liberatrice per i popoli e le nazioni.

La visione di Giovanni Paolo II per l’Europa non può che essere una visione radicata in Cristo, e che in Gesù Cristo trova la sua unica speranza.

La domanda che ci si può fare è se questa visione può essere ancora attuale. Io credo di sì. Anzi, trovo che sia stata drammaticamente profetica prima e incredibilmente attuale oggi.

Profetica, perché Giovanni Paolo II guardò da subito alla necessità della riconciliazione dei popoli, e della riconciliazione delle ferite della storia.

Oggi, con una guerra nel cuore dell’Europa, vittime di narrative imperialiste che riscrivono la storia, la riconciliazione dei popoli, la capacità dei popoli di trovare una storia comune e la loro volontà di accettare che, in fondo, tutti siamo uniti dall’essere cristiani sembrano necessarie per superare la narrativa della guerra. Al di là delle ragioni e dei torti, da chi è l’aggressore e chi è l’aggredito (tra l’altro evidente), la visione cristocentrica di Giovanni Paolo II permette di cominciare a costruire il domani. Perché non c’è futuro se i popoli non vivono in una storia riconciliata, superando le reciproche ferite.

Sono i motivi per cui questa visione è anche drammaticamente attuale. Nel 1975, il tema della libertà religiosa era stato il driver che aveva permesso ai Paesi dall’altra parte del blocco comunista di cominciare a lavorare per superare l’oppressione sovietica. Oggi, libertà religiosa significa anche la libertà dei cristiani di poter essere presenti e vivi in pubblico – libertà sempre più negata con una persecuzione sottile, e con strumenti arbitrari e nuovi come l’hate speech – e di poter non solo praticare la propria fede, ma professarla, proclamarla e anche lavorare perché la società accetti e sviluppi i propri principi. Non sempre questo è scontato.

Avevo iniziato parlando del rapporto di Giovanni Paolo II con il Consiglio delle Conferenze Episcopali di Europa. Fu Giovanni Paolo II a volere che il consiglio fosse composto dai presidenti delle Conferenze Episcopali europee, e non più da delegati. In un mondo in cui la Chiesa diventava un elemento tra tanti, Giovanni Paolo II voleva che le Chiese locali avessero un peso e una rappresentatività ancora maggiore nel dibattito.

Questo “peso istituzionale” si unisce ad un’altra intuizione profetica di Giovanni Paolo II, lanciata non in Europa, ma da Puebla, nel suo primo viaggio internazionale del pontificato nel 1979.

Parlando del tema dell’evangelizzazione, Giovanni Paolo II sottolineò che “l’Europa è ancora sempre la culla del pensiero creativo, delle iniziative pastorali, delle strutture organizzative”, e ha “un grandioso passato missionario”. Ma l’Europa “non sta per diventare essa stessa un continente missionario?”.

“Occorre – affermò Giovanni Paolo II – che i vescovi e le Conferenze Episcopali di ogni Paese e nazione d’Europa vivano gli interessi di tutti i Paesi e nazioni del nostro continente”, e per questo “vanno resi intensamente presenti coloro che sono assenti”.

Le sollecitazioni di Giovanni Paolo II vennero subito recepite. Nel 1980, i vescovi d’Europa si riuniroono a Subiaco, lì dove san Benedetto cominciò il suo straordinario progetto che è alle radici della cultura europea, e redassero una dichiarazione sulla “Responsabilità dei cristiani di fronte all’Europa di oggi e di domani”. Ripartiamo da qui, e da questa straordinaria eredità.

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