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mercoledì 13 marzo 2024

Papa Francesco, undici anni dopo

L’intervista che Papa Francesco ha concesso alla televisione svizzera, con quell’espressione forse equivocata ma di certo non felice, sulla necessità di alzare bandiera bianca riferito a Kyiv e non a Mosca, è in qualche modo l’epitome di un pontificato che oggi compie undici anni. Perché, alla fine, il pontificato di Papa Francesco è così: divide e rischia di creare confusione.

Divide, perché ad ogni espressione infelice si crea un mondo di partigiani da un lato e di critici dall’altro, e non si riesce nemmeno ad avere equilibrio nell’esprimere opinioni. Per forza, se si critica una frase infelice, allora si è contro Francesco. Per forza, se si difende un concetto espresso dal Papa, allora si è pro-Francesco.

 

Ma divide anche perché i termini non sempre sono accurati, risentono a volte di un senso comune particolarmente deteriore, o comunque sembrano non considerare un fatto epocale. E cioè che Papa Francesco è Papa, e che ogni parola che dice andrebbe pesata, tarata, valutata perché i concetti non siano strumentalizzati e male interpretati.

 

Ha, Papa Francesco, imparato a fare il Papa in questi undici anni?

 

Anche in questo caso, la risposta è duplice, e divisiva allo stesso tempo.

 

Sì, ha imparato a fare il Papa, perché si comporta da Papa e anche di più, applicando quell’assolutismo nelle decisioni e quel decisionismo nelle questioni come nessun Papa nell’era moderna ha mai fatto. Non si deve vedere Papa Francesco nelle cerimonie, imbrigliato in quelle che sono necessità di protocollo, ma si deve osservare al di fuori di quelle cerimonie, quando si sente più libero, a suo agio, slegato. Non è un caso che la maggior parte delle decisioni siano state prese con un motu proprio, un documento più informale, e che molte delle decisioni siano venute al di fuori delle riunioni, spesso con rescripta.

 

Papa Francesco ha imparato a fare il Papa perché il Papa ha le prerogative di decidere, e Papa Francesco le utilizza tutte, senza eccezioni, e senza nemmeno curarsi del modo tradizionale di utilizzare queste prerogative, perché, come dice sempre, non si può stare dietro al “si è sempre fatto così”.

 

E allo stesso tempo no, Papa Francesco non ha imparato a fare il Papa, perché un Papa dovrebbe essere prima di tutto garante dell’unità della Chiesa, attento ad includere più che ad escludere, capace di mettere insieme le diverse narrative sotto l’unica dottrina cristiana. Papa Francesco non è un mediatore, ma un decisore, prende posizioni nette che cambia repentinamente, vive per le riforme “in cammino” (anche questa una sua espressione), cosa che tradisce una certa allergia a fare programmi. O, per meglio dire, a rendere noti i propri programmi, perché magari un disegno Papa Francesco ce lo ha. Solo che non lo persegue in maniera lineare, ma per strappi, non lo vive in collegialità, ma piuttosto come un hombre solitario y final, per dirla con Borges.

 

Papa Francesco non ha imparato a fare il Papa perché non ha tenuto conto che fare il Papa significa anche spogliarsi delle proprie convinzioni, mettersi di fronte ad una realtà complessa ed accompagnarla, più che buttarla giù. Non ha imparato a fare il Papa perché la sua dialettica spesso tende a distruggere più che a costruire, a puntare il dito più che trovare il buono – e lo testimoniano i discorsi sulle “malattie della Curia”, o le ironie sui sacerdoti o sulle suore, e persino alcune espressioni in momenti più formali, come quando spiegò di aver detto al Patriarca Kirill che “non siamo chierici di Stato”.

 

Papa Francesco è soprattutto rimasto un Papa proveniente dall’America Latina. Non si è mai spogliato della sua identità, e questo depone in qualche modo a suo favore, ma ha voluto portare questa identità al centro della Chiesa, facendone misura di tutte le cose, e questo non è un gran biglietto da visita.

 

Portando le istanze del Sud del mondo, Papa Francesco ne ha portato il punto di vista, e lo ha fatto non lasciando spazio per altre interpretazioni. Per il Sud del mondo, la guerra in Ucraina non è l’aggressione di Mosca contro Kyiv, ma piuttosto una guerra civile in Europa che sarebbe bene finire. Anche perché il Sud del mondo vede nelle reazioni a questa guerra il solito doppio standard occidentale, un retaggio della colonizzazione ideologica di cui parla sempre Papa Francesco.

 

Il Sud globale non definisce un aggredito e un aggressore semplicemente perché nella sua mentalità è una guerra tra occidentali, quasi fratricida, e dunque sarebbe bene smetterla, perché a rimetterci sono solo le nazioni più povere, i loro mercati, le loro risorse, la loro diplomazia.

 

Papa Francesco porta avanti questo punto di vista  (e non vanno dimenticati i suoi incontri e l’appoggio dato ai movimenti popolari), e lo fa senza mezzi termini, senza concedere possibilità anche ad un altro punto di vista, ad una lettura della realtà più sfumata, magari non totalmente occidentale, ma nemmeno completamente figlia del Sud globale e del suo pregiudizio (a volte, c’è da dire, giustificato) antioccidentale.

 

Insomma, il Papa è portavoce di un mondo che vuole farsi largo, che vuole nuova influenza, e che guarda con sospetto all’Occidente. Non solo. Il Papa viene dall’America Latina che da tempo vuole diventare “fonte” anche per la ricerca teologica (espressione che Papa Francesco ha utilizzato spesso), e che ha visto le critiche occidentali alla sua ricerca non giustificate, e figlie di un pregiudizio ideologico.

 

Quella latinoamericana è una realtà – è vero - che vive molte ferite, ma che sembra non sappia fare altro che sublimare le ferite con il riscatto personale. Probabilmente è una transizione necessaria, prima che si trovi un equilibrio tra le due parti, ma certo la situazione attuale non può non essere preoccupante, specialmente se è il Papa a portare avanti questo punto di vista, e se è il Papa a spingere verso lo spostamento dell’ago della bilancia.

 

Non si tratta di una critica nuova, per un Papa. Giovanni Paolo II veniva criticato per essere troppo polacco all’inizio del pontificato, e probabilmente questa critica sarebbe rimasta se poi il lavoro del Papa polacco non avesse aiutato a buttare giù la Cortina di Ferro. Ma Giovanni Paolo II cercava anche un equilibrio, discuteva di diversi punti di vista, ascoltava i suoi collaboratori.

 

Benedetto XVI fu colpito da strali simili a quelli ricevuti da Papa Francesco per le sue parole sull’Ucraina quando pronunciò, nel 2005, il famoso discorso di Ratisbona. Ma anche lì era una situazione diversa, perché le parole di Benedetto XVI erano meditate, precise, scritte e fatte per essere diffuse, e di fatto difficilmente male interpretabili se poste in contesto – era evidente che era più la campagna mediatica, tanto è vero che poi ci fu una lettera di 138 intellettuali musulmani che riportò il dialogo al centro.

 

Papa Francesco, invece, utilizza dialoghi estemporanei, ed è facile dire che si vuole guardare ai dettagli di quello che dice o non dice il Papa perché non ci piace. Il problema è che un Papa deve necessariamente avere una precisione linguistica e diplomatica quando parla, rappresentando non solo i cattolici, ma anche una diplomazia antichissima e che lavora da sempre per la pace.

 

Così, ci si trova di fronte al paradosso che il Papa che meglio di tutti ha saputo comunicare ora si trova attaccato per via della sua comunicazione, e che il Papa che più di tutti ha invitato a demondanizzarsi si trova sotto attacco perché ha pronunciato, forse un po’ superficialmente, alcuni punti di vista squisitamente politici.

 

Tutto ciò è ironico, ma in fondo caratterizza in qualche modo il pontificato, così come lo caratterizzano le reazioni che ci sono state alle parole papali. Il rischio è sempre quello di sovrainterpretare il Papa, di fargli dire molto di più di quello che lui voglia dire o rappresenti. Semplicemente, Papa Francesco pensa così, non ha intenzione di guardare ad altri punti di vista, non ha intenzione di mettersi filtri. Funziona, quando la comunicazione è diretta al popolo. Ma quando la comunicazione rischia di “fare” cose, allora c’è un problema di fondo che non può essere sottovalutato.

 

Undici anni dopo, Papa Francesco in fondo chiude un cerchio diplomatico cominciato con la preghiera per la pace in Siria e Medio Oriente del settembre 2013. Perché sempre Papa Francesco ha chiesto la pace, e di questo ne va dato atto. Ma chiude il cerchio con un parere da decifrare e spiegare perché non sia frainteso, e comunque ad alto rischio di posizione politica.

 

Sì, queste ultime vicende raccontano in fondo molto del pontificato di Papa Francesco. Nel bene e nel male.

 

 

 

 

 

 

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