Dal 2 al 5 luglio ho partecipato al 12esimo Workshop Europeo di Studi Internazionali a Cracovia, e in particolare ho relazionato al laboratorio “Portare le religioni nelle relazioni internazionali: dai fatti alle teorie”.
Dal 2 al 5 luglio ho partecipato al 12esimo Workshop Europeo di Studi Internazionali a Cracovia, e in particolare ho relazionato al laboratorio “Portare le religioni nelle relazioni internazionali: dai fatti alle teorie”.
Si chiama León de Perú, ed è un grande sforzo editoriale dei media vaticani, che, dopo l’elezione di Papa Leone, sono andati non solo a Chiclayo, ma anche lì, nei luoghi dove il giovane agostiniano Prevost era stato missionario, per comprendere chi è, cosa e cosa ci si può aspettare da Papa Leone. Ed è un’opera editoriale senza precedenti per i media vaticani, chiamati non solo a dare una biografia, ma a fare giornalismo. Forse si può dire che, con questo sforzo, il comparto dei media vaticani esce fuori dalla consueta istituzionalità, per diventare, appunto, una impresa mediatica. E, allo stesso tempo, non si può prescindere dal fatto che è un documentario fatto dai media vaticani, e che dunque in qualche modo può essere considerato come una narrazione ufficiale del pontificato.
È passato un mese e una settimana dall’elezione di Leone XIV. Quando cambia un pontificato, per chi fa Vaticano cambia tutto un mondo. Cambiano i punti di riferimento, cambiano le persone cui rivolgersi per le notizie, le fonti tradizionali rischiano di diventare inaffidabili, perché non sono più nella posizione di avere informazioni.
C’è una differenza sostanziale tra Roma senza Papa e Roma con il Papa. Si sente nelle strade, c’è un umore diverso intorno alla Basilica di San Pietro. Roma è il Papa, e Roma è il Papato, e chi vive Roma non può non sentirlo. Roma è così tanto il Papato che, alla fumata bianca, ho visto persone letteralmente correre, scendere dalle valli, fiondarsi in piazza San Pietro perché nessuno, e dico nessuno, vuole perdersi l’habemus Papam.
C’è qualcosa di straordinariamente drammatico e solenne nell’apertura di un Conclave, e la cosa che un giornalista può fare è semplicemente accompagnare quei momenti, cercando di osservare i dettagli. Il Conclave, infatti, è uno di quei linguaggi pontifici che hanno senso e significato nella loro ritualità, segretezza, e (incredibilmente) pubblicità.
Cosa significa essere vaticanista in tempo di sede vacante? E cosa significa essere vaticanista cattolico in tempo di sede vacante? Da quando questo nuovo periodo nella storia della Chiesa è iniziato, lo scorso 21 aprile, mi ritrovo a dover rispondere a questa domanda, per ragioni differenti. Ma è una domanda che pongo soprattutto a me stesso, quando mi accingo a coprire professionalmente il terzo conclave della mia vita, con un po’ di esperienza in più e ancora tanto da imparare.
Lasciatemi prima di tutto sgombrare il campo da ogni equivoco: c’è una riflessione che ho fatto quando ho visto il Papa in San Pietro, lo scorso 10 aprile, senza nemmeno insegne episcopali, con una maglietta bianca, una sorta di coperta o poncho un po’ raffazzonata e i pantaloni neri da gesuita, che deriva direttamente da una esperienza personale. E l’esperienza personale mi porta a parlare di un libro – anzi una serie di libri – che ho scritto e che mi hanno effettivamente aperto un mondo su questi temi.
Dodici anni fa, Jorge Mario Bergoglio si è affacciato dalla Loggia delle Benedizioni della Basilica di San Pietro per la prima volta come Papa Francesco. Dopo dodici anni di un pontificato di grande presenza, dove i balconi e le finestre si sono moltiplicati così come le apparizioni pubbliche e televisive nei posti più impensati e meno esplorati dai Papi, il pontificato viene definito paradossalmente da una non visibilità.
Nel 1992, l’antropologo Marc Augé coniava la definizione di “Non Luogo” in un piccolo libricino che è punto di riferimento per tutti quelli che oggi studiano antropologia o sociologia. Non Luogo è un luogo che non è identitario, relazionale o storico. È, ad esempio, un Non Luogo un aeroporto, perché l’aeroporto è un luogo di passaggio, dove non ci si costruisce una identità, ci si incrocia velocemente, si consuma, e poi si torna alla propria vita. Questo concetto mi tornava continuamente alla mente mentre osservavo il rosario in piazza San Pietro per la salute di Papa Francesco, nella sera del 24 febbraio.
Esiste un giornalismo cattolico? E cosa significa essere giornalisti cattolici?
Non sono domande scontate, né banali, e assumono tra l’altro un significato diverso oggi rispetto a tanti anni fa. Perché le pubblicazioni che si autodefiniscono cattoliche, oggi, sono tantissime. Perché ormai non serve molto per inserirsi nel panorama dell’informazione. Perché sempre più il giornalismo si confonde con il mondo dei blog, e i blog con il giornalismo, e non è più necessario un piano industriale, una visione, un investimento reale per poter avere una testata e scrivere.