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martedì 25 febbraio 2025

Il Rosario per il Papa e qualche pensiero sulla Chiesa

Nel 1992, l’antropologo Marc Augé coniava la definizione di “Non Luogo” in un piccolo libricino che è punto di riferimento per tutti quelli che oggi studiano antropologia o sociologia. Non Luogo è un luogo che non è identitario, relazionale o storico. È, ad esempio, un Non Luogo un aeroporto, perché l’aeroporto è un luogo di passaggio, dove non ci si costruisce una identità, ci si incrocia velocemente, si consuma, e poi si torna alla propria vita. Questo concetto mi tornava continuamente alla mente mentre osservavo il rosario in piazza San Pietro per la salute di Papa Francesco, nella sera del 24 febbraio.

Prima di andare avanti, ci tengo a dire che un Rosario per la salute del Papa è sempre una operazione meritoria, che abbiamo sempre pregato per un Papa malato, che l’iniziativa del Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, era sicuramente lodevole. Il mio, però, è un punto di vista, una osservazione fatta quasi dal buco della serratura, che ha tutti i limiti di una osservazione parziale.

 

Tornando al punto: quando ero al Rosario in piazza San Pietro, il pensiero è andato automaticamente a quella stessa piazza, nelle ore che hanno preceduto la morte di Giovanni Paolo II. Oggi come allora si pregava per la salute del Papa. Oggi come allora, si accompagnava il Papa in una situazione di salute difficile.

 

Ma se tutto sembra uguale nella forma, le differenze sono sostanziali. Le veglie di preghiera intorno a Giovanni Paolo II erano spontanee. Non c’era una convocazione di un cardinale, non c’era una Curia romana precettata alla preghiera. Si pregava, volontariamente. Si pregava guardando al Papa che stava per morire, con amore e con fiducia nella Chiesa.

 

C’era questo moto spontaneo di amore anche perché Giovanni Paolo II aveva stabilito un legame particolare con la città e con la piazza. E derivava dal fatto che l’Appartamento Papale si trovasse proprio là, nel Palazzo Apostolico, visibile a tutti. Tutti sapevano che quando la luce era accesa, il Papa era sveglio, e quando era spenta probabilmente dormiva. Tutti arrivavano a cercare di capire fino a quando il Papa stesse lavorando. Quelle finestre che danno su piazza San Pietro, una delle quali tra l’altro è la finestra dell’Angelus domenicale del Papa, erano il contatto del Papa con la città, con il mondo che lo circondava. I giovani erano lì, le loro preghiere potevano essere sentite dal Papa.

 

Questo riconoscimento identitario, però, non ci può essere con Papa Francesco. Paradossalmente, Papa Francesco ha deciso di non abitare nel Palazzo Apostolico per “motivi psichiatrici”, preferendo invece un albergo, in fondo un non luogo anche quello, dove non si senta mai solo. Eppure, così facendo, si è isolato dal suo popolo. Papa Francesco ama definirsi vescovo di Roma, e lo fa dall’inizio del pontificato. Eppure, allontanandosi dal Palazzo Apostolico, nascondendosi alla vista dei Romani, ha tagliato il cordone ombelicale del Papa con Roma.

 

Ed è qui che la piazza, per me, si è trasformata in un non luogo. Era opportuno che si pregasse per il Papa, ma colpisce che si debbano convocare tutti i cardinali presenti a Roma per garantire una partecipazione e anche una fedeltà. Così, piazza San Pietro è stata scorporata di ogni identità. Erano cardinali, membri della Curia, e poi varie monadi, arrivate a volte per curiosità, a volte perché sinceramente preoccupati per la salute del Papa, a volte semplicemente per essere parte di qualcosa. Ma erano monadi, perché non era un movimento popolare, spontaneo, umano, e, appunto, comunità, che è quello che significa la parola Chiesa.

 

Era un Rosario guidato da un cardinale, e il cardinale era solo davanti all’icona, mentre gli altri erano ancora più laterali. C’era il cardinale, ma il senso di Chiesa sembrava perso. C’era una guida, ma mancava, appunto, la comunità. Un po’ come successe quando Papa Francesco volle la statio orbis durante la pandemia, donando al mondo la plastica immagine di lui che da solo percorre il sagrato di piazza San Pietro. Era un Papa che prendeva su di sé le sofferenze del mondo. Ma c’era il Papa, non la Chiesa.

 

Se tutto perde però di personalità, allora manca proprio il senso di collettività che è dato dalla Chiesa. Un senso che non si può inventare. Oggi si prega per il Papa malato, ma in realtà non si sta accompagnando Papa Francesco in una agonia. Francesco non è una luce che si sta spegnendo piano piano. Francesco è una luce che resta accesa e che rischia di spegnersi ad ogni scossone. Ci sono le crisi respiratorie, poi ci sono i momenti buoni, e poi le nuove crisi.

 

Una crisi, prima o poi, potrebbe essere fatale. Ma questo quadro clinico non porta all’idea di una lunga agonia, ma piuttosto di una morte improvvisa e repentina. Tutti stanno aspettando una eventualità del genere, ma nessuno si potrà aspettare un rapido declino. E invece, probabilmente, è quello che succederà.

 

Anche questo ha reso piazza San Pietro un non luogo. Ci si riunisce, guardando ad un evento che può accadere ma non è detto che accadrà, in un posto con cui non c’è alcuna connessione diretta con la persona per cui si prega, mentre questa persona è al Gemelli, invisibile agli occhi di tutti tranne a quelli dei medici e dei gendarmi che gli fanno la guardia, in una stanza che non è nemmeno quella da cui si è affacciato altre volte per recitare l’Angelus quando era ricoverato.

 

Ci sono molti spunti di riflessione. Davvero la Chiesa ha perso luoghi identitari? Davvero, in dodici anni di pontificato, siamo diventati tutte monadi, in cerca di un evento piuttosto che di un qualcosa di profondo?

 

Perché, in questi anni, si è detto molto che il Papa ha trasformato la sinodalità da evento a processo. Ma è anche vero che la preghiera è stata trasformata da processo in evento. La preghiera è un momento collettivo in alcune circostanze, e non un modo di vivere e di essere. Come lo era, d’altronde, per Giovanni Paolo II – uno dei suoi medici disse che aveva i calli alle ginocchia a causa del tempo che trascorreva in ginocchio a pregare.

 

E mi viene da pensare che la grande sfida per il futuro Papa non sarà quella delle riforme, della dottrina, o di altre varie amenità. Sarà quella di rimettere Cristo al centro, in un mondo che sembra andare da tutt’altra direzione. Sicuramente, il Rosario di questa sera e delle sere successive, era un tentativo di rimettere Cristo al centro. Ma servirà di più. Servirà rimettere Cristo al centro nei luoghi della Fede. Servirà dare nuova profondità e storia a luoghi, situazioni, storie. Non serve una rivoluzione. Non serve una restaurazione. Serve essere Chiesa.

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