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sabato 27 marzo 2021

Statio Orbis, un anno dopo. Papa Francesco c’era. E la Chiesa?


Difficilmente ci toglieremo dalla testa l’immagine di un Papa solo nella piazza San Pietro vuota, battuta dalla pioggia, salire con fatica il sagrato fino ad arrivare ad una preghiera di adorazione silenziosa e un atto di preghiera per il mondo devastato. Succedeva un anno fa. Eppure, di quella preghiera straordinaria, si può anche dare una lettura controcorrente, per guardare la storia dall’altro lato della prospettiva. Perché lì c’era di certo il Papa. Ma c’era anche la Chiesa?  

La Statio Orbis di Papa Francesco, l’atto straordinario di preghiera nel mezzo di un lockdown mondiale, e non solo nazionale, è stata la risposta del Papa a quella che sembrava essere una crisi dura, ma circoscritta. Il 15 marzo 2020, Papa Francesco aveva fatto un altro gesto di quelli iconici: era stato prima a Santa Maria Maggiore a pregare per la fine della pandemia, e poi nella chiesa di San Marcello al Corso, arrivandovi a piedi, passeggiando tra le vie dello shopping insolitamente e inquietantemente deserte, fino a fermarsi a pregare di fronte al crocifisso che salvò Roma dalla peste. Lo stesso crocifisso che il Papa poi volle in piazza San Pietro il 27 marzo.

Su Vatican News, il Cardinale Tolentino Mendonça, Archivista e Bibiotecario di Santa Romana Chiesa, ha parlato di “audacia della vulnerabilità” per spiegare il gesto di Papa Francesco. E con quel gesto, Papa Francesco idealmente ha voluto prendere su di sé tutta la disperazione e l’angoscia del mondo. Come Cristo, solo nel salire il Golgota del sagrato, e solo ad offrire una preghiera di intercessione che potesse far sollevare la mano di Dio sull’umanità e alleviare le sue sofferenze.

Ma è in questa solitudine che si misura anche l’altro punto di vista, quello che resta nascosto dall’iconicità del gesto, e che però deve essere considerato. Perché il Papa doveva essere solo? Perché la piazza doveva essere vuota?

Durante il lockdown, Papa Francesco ha voluto dare per primo l’esempio, mandando in diretta la Messa del mattino a Santa Marta e invitando i sacerdoti a rispettare le misure con le autorità. Nonostante protocolli dell’OMS applicati anche con epidemia come l’Ebola che permettono le celebrazioni in tutta sicurezza, la scelta della Chiesa è stata quella di entrare in lockdown. Non è mancata solo la comunione. È mancata la comunità.

Il tema dell’assenza di comunità è stato il grande convitato di pietra del periodo del lockdown. Da una parte, la Chiesa voleva essere parte della soluzione, non del problema. Dall’altra, le Messe in diretta streaming non sono davvero la stessa cosa, e fanno perdere molto del senso di appartenenza che ha permesso alla Chiesa di sopravvivere alle persecuzioni, agli attacchi palesi o espliciti, persino a se stessa nel corso di duemila anni di storia.

In quell’immagine di Papa Francesco solo c’era, piuttosto, la Chiesa che non poteva più essere comunità. E c’era un Papa che cercava di sostenere quella Chiesa da solo, con la forza della preghiera, portando su di sé tutto il dolore. Ma anche tutta l’attenzione.

Tutto, in quei giorni, si concentrava su Papa Francesco: dalle sue messe al mattino fino alla preghiera. Tutti attendevano un gesto, una prospettiva, un punto di vista da un leader spirituale come il Papa. C’era il Papa, non c’era la Chiesa.

Forse, anzi molto probabilmente, tutto questo non è colpa del Papa. Però c’è una piccola responsabilità, a voler centrare tutto su una persona. Per quanto il Papa sia il Vicario di Cristo in terra, c’è già stato Cristo a prendere tutta l’umanità sulle spalle. Sapeva, Cristo, che questo peso non era sopportabile da un uomo solo, e ne ha istruiti 12, e poi 72, e poi questi ne hanno istruiti altri. L’Eucarestia di Cristo vive nella comunità dei credenti, in una comunione che è appunto chiesa, ovvero comunità.

C’è una immagine ancora più iconica del pontificato di Papa Francesco, e viene da Erbil, dall’Iraq. Nel primo viaggio durante la pandemia, il Papa va in Iraq, dice messa tra la gente, e ad Erbil, allo stadio, arrivano 10 mila persone. Tantissime per un Paese in lockdown stretto, con numeri dei contagi altissimi. Eppure, tutti vogliono stare con il Papa. C’è chi dice che sarebbe disposto a morire pur di vedere il Papa. La speranza viene dalla Chiesa che si fa prossima, che si fa vicina, che permette alle persone di guardare al futuro.

L’immagine di Erbil è in esatta controtendenza con quella della Statio Orbis. Da una parte, un Papa che porta la Chiesa vicino agli ultimi, dà loro una speranza, rafforza le comunità. E questo nonostante la pandemia. Dall’altro, nel mezzo di una pandemia mondiale, c’è un Papa che mostra una Chiesa sola, senza popolo, che centra su di sé tutta la comunicazione.

C’è la Chiesa, ad Erbil, perché ci sono le persone. Sì, c’è il Papa, c’è l’immagine forte di una persona che si fa prossima. Ma quelle persone sono comunità, e saranno comunità anche dopo la visita. Non c’è la Chiesa, nella Statio Orbis, perché è il Papa che assomma su di sé tutta la Chiesa.

E allora sarebbe stato bello vedere quella piazza San Pietro popolarsi, seppure con tutte le precauzioni e le distanze di sicurezza. Come sarebbe stato bello se la Messa di Santa Marta, il Papa, la avesse fatta ogni giorno in piazza, con delle persone presenti, con tutte le distanze e le precauzioni necessarie, ma segno vivo di una Chiesa che non si ritira di fronte a un virus, che non smette di essere comunità viva.

Come San Carlo Borromeo, che durante la peste di Milano innalzava altari in modo che anche le persone chiuse in quarantena potessero vedere, così avrebbero dovuto fare i preti. Alcuni lo hanno fatto. Alcuni sono stati persino fermati dalla polizia. Ma la Santa Sede, su temi come questo, ha parlato solo dopo il lockdown. Con interventi necessari, che mostravano come le restrizioni da coronavirus avevano toccato in maniera durissima la libertà di culto e di religione. Ma con interventi probabilmente tardivi.

È mancata la visione di prospettiva, mentre ci si è affidati alla prospettiva dell’emergenza. In questo, la Chiesa è stata davvero ospedale da campo, secondo una espressione cara a Papa Francesco. Ma ha corso il rischio di mostrare una Chiesa centrata sul Papa, non una Chiesa viva. Ancora oggi, ci sono restrizioni ovunque. La Scozia festeggia la decisione di una corte che dichiara illegittime le chiusure totali delle chiese. Ma per una Scozia che festeggia, c’è una Irlanda che ha vissuto tempi bui, un Belgio in cui non si può andare in più di 15, un Spagna in cui il Cardinale Canizares è entrato sotto indagine per aver mostrato delle reliquie dalle porte della cattedrale.  Erano, questi attacchi alla libertà religiosa, rischi che non si potevano prevedere?

L’immagine, oggi, è quella di una Chiesa che dipende totalmente dai grandi poteri. Una Chiesa che, sì, ha magari un grande leader, che si occupa degli ultimi, ma che alla fine non sa mostrare alla società che l’unica vera speranza è Cristo, e Cristo non può rimanere nascosto, in silenzio, in attesa di ordini superiori.

Mentre il Papa era da solo in piazza San Pietro, c’era chi clandestinamente celebrava Messa e accoglieva persone ne avevano bisogno e non potevano accostarsi all’Eucarestia nella loro parrocchia. Il Papa era lì, e pregava anche per questa Chiesa che nemmeno è nascosta, ma è viva e presente, e che pure era stata silenziata. Questa Chiesa c’era nelle preghiere del Papa, ma scompariva dalla comunicazione.

Forse, la Statio Orbis dovrebbe anche farci riflettere sulla Chiesa che siamo diventati, e sui nostri bisogni reali. Perché tutto si centra ormai sui leader carismatici. Ma, in fondo, tutto il potere della Chiesa viene dall’Eucarestia. E forse il Papa non aveva altro da dire che: “Celebrate Messa, sempre e ovunque, comunque potete. Fate in modo di raggiungere più persone possibile, rispettando le norme, ma non nascondendovi mai. Fate comunità. Fate comunione. La Chiesa siete voi”.

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