Si chiama León de Perú, ed è un grande sforzo editoriale dei media vaticani, che, dopo l’elezione di Papa Leone, sono andati non solo a Chiclayo, ma anche lì, nei luoghi dove il giovane agostiniano Prevost era stato missionario, per comprendere chi è, cosa e cosa ci si può aspettare da Papa Leone. Ed è un’opera editoriale senza precedenti per i media vaticani, chiamati non solo a dare una biografia, ma a fare giornalismo. Forse si può dire che, con questo sforzo, il comparto dei media vaticani esce fuori dalla consueta istituzionalità, per diventare, appunto, una impresa mediatica. E, allo stesso tempo, non si può prescindere dal fatto che è un documentario fatto dai media vaticani, e che dunque in qualche modo può essere considerato come una narrazione ufficiale del pontificato.
Si tratta di un’opera corale, in cui i giornalisti hanno prestato la telecamera ai volti, alle persone, ai luoghi, scomparendo in tutto e per tutto, se non per il fatto che poi sono stati i giornalisti a montare, ordinare, mettere insieme il materiale. Non c’è una voce narrante, c’è la voce delle persone. Le immagini arrivano, a volte crude come un pugno nello stomaco – almeno per chi vuole vedere i dettagli, perché le pentole incrostate, i muri non intonacati raccontano di una povertà endemica – e le voci raccontano di un Prevost in parte inedito. Si mette in luce la personalità del Papa missionario.
Credo che ci siano persone più qualificate di me per recensire questo lavoro, in cui vedo la passione, la dedizione, e – nei ringraziamenti – anche un legame con la Chiesa e le comunità locali che racconta come, in fondo, il mondo cattolico sia sempre Paese, e come non ci siano periferie davvero nella Chiesa, laddove c’è Cristo. Allo stesso tempo, questo lavoro mi ha dato modo di fare qualche riflessione, che non riguarda solo il documentario, ma il lavoro di noi vaticanisti al tempo di Leone XIV.
In tutto, sono sette brevi osservazioni.
1. Non si può capire Leone XIV senza capire il Perù. Il legame con quel popolo, il senso di famiglia che il Papa ha trovato lì, sopravanza ogni cosa. Leone XIV è, prima di tutto, un Papa che appartiene alla comunità a cui è mandato. È profondamente agostiniano, perché lì lo ha mandato la vocazione. È diventato profondamente peruviano, perché lì lo ha mandato la missione. Ma la sua disponibilità a quello che la vita porta è totale. “Parlava come un peruviano”, è il commento che si sente dire nel documentario. E non è scontato, in fondo, che uno entri così tanto nella cultura non solo da imparare la lingua, ma da imparare anche il linguaggio. E forse proprio per questo, Leone XIV si è anche subito immerso nell’universo di simboli del pontificato, non creando una restaurazione, ma mantenendo – come ha notato Massimo Faggioli – alcuni elementi di restauro. Se Prevost poteva parlare peruviano come un peruviano, Leone XIV può parlare pontificale come un pontefice.
2. Il documentario mette, dunque, in luce solo un aspetto di quella che è la molteplice personalità del Papa. È un aspetto che lo pone in totale continuità con Papa Francesco, come se ad un pontificato sudamericano succedesse un altro pontificato sudamericano. Perché, in fondo, il Sudamerica che viene mostrato dal documentario è anche quello che ha vissuto Papa Francesco. Un Sudamerica dove il sacerdote ha bisogno di sporcarsi le mani, dove il vescovo deve mettere in chiaro di non essere espressione di qualche potere, dove stare con il popolo è una scelta necessaria e decisiva e dove si finisce per parlare di politica anche quando non si sta parlando di politica perché in quella povertà estrema anche parlare di famiglia diventa un discorso politico. Non è un caso se in Sudamerica sia nata la Teologia della Liberazione e la Teologia del Popolo, se ci sia stata una sorta di “guerra civile” su come dovesse essere la Chiesa, se, ad un certo punto, si è cercato persino di ritrovare quello spirito degli Anni Settanta, l’unico che sembrava garantire un compromiso, come si direbbe in spagnolo, in ambito pubblico. Non si può capire Leone XIV senza capire la sua parentesi peruviana e il Sudamerica. Ma non basta per capire Leone XIV.
3. In questo senso, sarebbe importante anche andare a Chicago, guardare alla parte “americana” del Papa, conoscere gli agostiniani, e, soprattutto, cercare di comprendere quali erano i dibattiti intellettuali che colpivano maggiormente negli anni del seminario di Robert Francis Prevost. Prevost ha mostrato di essere flessibile, di sapersi adattare, di essere una persona profondamente riflessiva. Ha una parte di governo che ha espletato come superiore degli Agostiniani, ha anche una gestione di un dicastero vaticano arrivata in età matura. La storia dice che tutti conoscevano Prevost perché, inserito in undici dicasteri vaticani come membro, partecipava e parlava con tutti. Sarebbe da capire cosa si pensasse in quel tempo, in quelle situazioni. Resta una domanda: oggi chi racconterebbe Prevost senza le lenti del fatto che adesso è Papa, e che del Papa non se ne può che parlare bene, o comunque non male?
4. Il fatto è che prendere un solo aspetto di Prevost permette anche ai “guardiani della rivoluzione” di ostinarsi a voler dimostrare che, in fondo, Leone XIV è un Francesco II, o qualcosa del genere. O comunque tradisce una paura di aver perso l’eredità di Papa Francesco, in qualche modo. Non riferisco questo al documentario, che nasce con intenzione pura e legittima di raccontare un aspetto del pontificato che forse desta più curiosità, e di cui pochissimi avevano potuto / saputo parlare finora. Mi riferisco, piuttosto, al dibattito in corso, ancora forte, in cui ogni cosa deve essere raccontata come in continuità o in discontinuità con Francesco. Ma questo è un nuovo pontificato, e ha i suoi tratti di originalità, come ho detto più volte.
5. Certo, dopo un mese e mezzo di prudenza, l’ultima settimana di Leone XIV non ha aiutato. La sua visita a Santa Maria di Galeria era conosciuta dal Tg1 (onore ai colleghi che hanno saputo e ci sono stati) e il Papa si è fermato per una intervista estemporanea. Ora, colpisce che il Papa che ha persino letto un testo scritto di fronte alla loggia delle Benedizioni decide comunque di concedere qualcosa ad una televisione, per quanto di portata nazionale e di grande autorevolezza percepita. Ed è ovvio che in queste interviste ci si riduce a parlare in senso generale. È bastato che il Papa dicesse che “tutti conosciamo gli effetti del cambiamento climatico” per farne un paladino della continuità con Francesco. Ed è qui il punto. Nessuno ha mai detto che la cura del creato non sia una delle priorità della Chiesa. Addirittura, Benedetto XVI fu chiamato il Papa verde, i progetti ecologici vaticani risalgono già agli anni Novanta, e c’è stato un vasto lavoro sul tema ecologico anche in ambito ecumenico. Papa Francesco, però, ha parlato del riscaldamento globale usando i report delle Nazioni Unite e un linguaggio a volte molto politico. Ma i report cambiano, perché cambiano i dati, e un linguaggio politico mette necessariamente la Chiesa da una parte o dall’altra. Leone XIV, che pure non ha mancato di fare scelte precise (basti pensare al modello diplomatico sull’Ucraina, con richieste e appelli più accurati), aveva fatto di una certa moderazione nel linguaggio una sua caratteristica. Fa riflettere che abbia deciso comunque di permettere una intervista che sembra non essere stata programmata. Insomma, il documentario rischia di strizzare l’occhio ad una narrativa che sembra, oggi, volersi aggrappare al pontificato precedente.
6. Per chiarire: io non credo che sia niente di male ad aver apprezzato il pontificato di Papa Francesco, e credo sinceramente che si possa davvero convivere con più posizioni diverse. Quello che non comprendo è la necessità di trovare segni di continuità a tutti costi, cosa che tradisce anche una agenda personale. Non è il caso di tutti, lo voglio sottolineare, ma di molti sì. Non mi è mai piaciuto quando si vedeva la discontinuità a tutti i costi – io stesso mostrai come molte cose che diceva Benedetto XVI si ritrovavano in Papa Francesco, e lo feci per il puro gusto di mostrare come niente nella Chiesa nasce dal nulla – non mi è mai piaciuto quando si deve trovare una continuità a tutti i costi. Tutti abbiano una idea, e questo è inutile negarlo. Quanto più, però, facciamo campagna per quell’idea, tanto più siamo in malafede, perché vogliamo imporre la nostra idea a tutti.
7. Detto questo, io sono molto grato al documentario, perché mi ha fatto riflettere, e mi ha aiutato a porre in contesto non solo il Papa, ma un mondo, che è necessario conoscere. È una porzione di Chiesa che un suo linguaggio, un suo universo, che va compreso, va vissuto, va concepito. Ma poi ogni universo di simboli va mediato con gli altri universi, va spiegato, va inserito in una cornice più ampia quando viene a contatto con qualcosa di nuovo. Altrimenti rischiamo di essere come gli abitanti di Macondo prima che si aprissero al mondo.
Stiamo, in fondo, imparando a conoscere il Papa. Molte decisioni andranno lette in prospettiva. Alcune decisioni erano già prese prima. In alcuni casi, ci si troverà in profondo disaccordo, in altri meno. Un documentario come León de Perú è una parte necessaria per comprendere questo Papa. La cornice completa, però, ci vorrà molto tempo per comprenderla fino in fondo, di fronte a un Papa che ha fatto della discrezione la sua cifra personale.
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