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domenica 29 agosto 2021

L’Osservatore Romano non è in pericolo. Qualche considerazione

No, L’Osservatore Romano non sta per smettere di stampare e non sta andando completamente online. Il rumor, raccolto prima in Germania e poi rilanciato su vari media, nasceva da una difficoltà dell’editore del settimanale in lingua tedesca dell’Osservatore, e non era segno di una intenzione di chiudere. E tra l’altro - si fa notare - sarebbe assurdo smettere di stampare un giornale che da poco viene distribuito con una grafica nuova, e per il quale è stata comprata una nuova stampante.

Pericolo scampato, dunque. Il tema del post precedente, che ha fatto un po’ discutere, non riguardava tanto una notizia vera, che era comunque presentata come un rumor. Prendeva l’occasione di un rumor per cercare di lanciare un dibattito più ampio, che riguarda non tanto la comunicazione vaticana quanto il linguaggio stesso della Santa Sede. Se si arriva a far circolare la voce che si potrebbe smettere di stampare L’Osservatore – era il ragionamento – allora il problema non sono tanto le voci, quanto i ragionamenti che sono alla base di questa eventualità. Eventualità di cui si era parlato già all’inizio della riforma, e si deve dare atto alla nuova dirigenza che è arrivata tre anni fa che molte cose sono state “aggiustate”, con un recupero del brand di Radio Vaticana e anche la prosecuzione della trasmissione in onde corte, tema, questo, che aveva molto preoccupato quando nel 2016 si chiusero le onde medie.

Il punto, insomma, non era tanto una notizia, quanto un ragionamento complessivo su un dibattito che in Vaticano e fuori non si è mai sopito, e che riguarda il modo stesso in cui il Vaticano percepisce se stesso. Vale a dire: ci si deve adeguare completamente al mondo, o si deve essere fedeli al dettame evangelico dell’essere nel mondo ma non del mondo. C’è chi potrebbe obiettare che si tratti di un processo alle intenzioni, e che un ragionamento del genere è simile a quello che dice ad un amico di non buttarsi dal ponte sul quale passerà anche se è evidente che questo non ha alcuna intenzione di buttarsi dal ponte. Può darsi. Ma non significa che una raccomandazione del genere non abbia valore.

Per intenderci, quello io noto, da diversi anni, è l’idea di dover ricostruire da zero il Vaticano e la Santa Sede, e di conseguenza tutte le cose ad essa correlate. C’è un promosso (spesso solo nel dibattito pubblico) senso generale che tutto sia vecchio, stantio, e necessiti di rinnovamento. In molti casi, Papa Francesco è stato tirato in questo dibattito, andando ad utilizzare suoi gesti spontanei o decisioni particolari come un segno che tutto il mondo precedente doveva crollare. In altri casi, si è trattato di sola pressione mediatica, un tipo di pressione che esiste dai tempi del Concilio Vaticano II, quando, appunto, è invalsa l’idea che tutto dovesse cambiare e che il Vaticano stesso doveva essere smontato e ricostruito (o persino abolito).

Smontare e ricostruire significa lavorare su altri millenni, costruire nuove tradizioni, e adattare queste tradizioni alla dottrina, a meno che non decida di cambiare la dottrina stessa. Un linguaggio non è mai neutro, è il frutto di successive evoluzioni. Ma resta, in quel linguaggio, il senso originario, una profondità che è data dalla storia e dal modo in cui quel linguaggio si è sviluppato.

San Paolo VI questo lo sapeva. E per questo le sue riforme hanno sempre avuto un pieno rispetto della tradizione, pur guardando avanti. Basti pensare a come ha cambiato la Casa Pontificia, non abolendo la Corte Papale, come molti dicono, ma ripensandola, adattandola alle nuove esigenze. Vecchio e nuovo si devono tenere, in un equilibrio costante e necessario, che serve perché ricostruire tutto significa dovere trovare nuovi equilibri e perderne altri, in un gioco che può apparire sempre essere una coperta troppo corta.

Chi scrive ha dedicato ai linguaggi pontifici una serie di dodici puntate su ACI Stampa, con l’obiettivo di raccontare che tutto in Vaticano ha un senso, anche le cose che appaiono più coreografiche. La forma è sostanza, in Vaticano.

Ovviamente, c’è la necessità di riformare, perché un altro adagio storico e conosciuto è che Ecclesia semper reformanda. Ma riformare in che modo? Papa Francesco ha detto sempre di non cadere nella trappola del “si è sempre fatto così”. Ma questa stessa frase è una trappola. La prima domanda è: “Perché si è sempre fatto così?”. Da lì si deve partire. Se invece si decide di cambiare perché si ritiene giusto cambiare, allora c’è il rischio di perdere qualcosa.

Questo vale anche per il mondo della comunicazione vaticana, senza ombra di dubbio. Papa Francesco ha una sensibilità istituzionale diversa. Non che non si sia abituati ad un papato di gesti. Giovanni Paolo II era un Papa di gesti, aveva fatto teatro, sapeva anche quali pause fare per parlare alle persone. Aveva però un certo senso istituzionale, che portava, per così dire, in scena. L’istituzione veniva sempre prima di lui. E questo lo dimostrò, per esempio, nella sua prima Messa da arcivescovo di Cracovia, quando mise gli abiti più preziosi che raccontavano della dignità dell’arcivescovo di Cracovia proprio come risposta, visibile, al regime.

Da sempre, Papa Francesco ha preferito evitare questo tipo di simboli, ed è un linguaggio anche quello. Con la notizia di oggi della nomina di monsignor Guido Marini a vescovo di Tortona, alcuni hanno ricordato di come il maestro delle Cerimonie pontificie avesse ricevuto da Papa  Francesco appena eletto il rifiuto di indossare la mozzetta e la croce pettorale papale, preferendo presentarsi solo con la pellegrina bianca. Un gesto, quello, che metteva da parte appunto un linguaggio pontificio, un modo del Papa di presentarsi al mondo.

Quei simboli, quei linguaggi non sono necessariamente obsoleti. Rappresentano la sostanza della Santa Sede, ne raccontano i risvolti, le sfumature, si caricano di storia. Se vengono riformati, significa che vengono adattati ai tempi. Se vengono semplicemente aboliti, viene rinnegata tutta una storia. Ed è questa l’impressione che si è avuta, spesso, in questi ultimi anni.

Una impressione che ha ovviamente toccato anche il mondo della comunicazione vaticana, chiamata al compito difficile di riformarsi per razionalizzare i suoi sforzi, anche economici, di raccontare un pontificato che parte da presupposti e linguaggi differenti cui quelli che si era abituati, e di mettersi in relazione con il mondo per fare in modo che questi linguaggi siano compresi. Si diceva che Papa Francesco fosse stato eletto anche per la necessità di stimolare un “cambio di narrativa” sulla Chiesa cattolica. In che modo, allora, i media vaticani devono stimolare questo cambio, rimanendo fedeli alla loro missione primaria?

I passi di una riforma sono ovviamente difficili, a volte si va avanti in modo radicale (Papa Francesco parlò di "buona violenza" per riformare le cose proprio con i membri del dicastero nel 2017) e sono gli stessi operatori, spesso, a non comprendere il senso di questa violenza, a non vedere una luce in fondo al tunnel. I rumors si moltiplicano non solo perché ci sono dei nemici dei dirigenti (non manca mai chi vorrebbe prendere il loro posto, ed è umano), ma anche perché ci sono persone seriamente preoccupate non solo del loro posto di lavoro, ma della loro missione.

Il rumor sulla chiusura della stampa dell’Osservatore Romano era, per quanto mi riguarda, una occasione per raccontare questa angoscia che si raccoglie, per mettere per iscritto alcuni dubbi fatti circolare. Era parte di una mia personale battaglia anche sulla comunicazione stessa dei fatti religiosi. Perché oggi la comunicazione va sempre più verso un modello in cui l’audience è il primo, vero e unico padrone, e tutto deve essere adattato all’audience. Ma questo porta ad una eccessiva semplificazione dei fatti, a un modo anche errato di raccontare le cose, il tutto perché il lettore è il padrone. Si rischia di parlare per slogan, non di parlare per analisi. E si rischia di rendere i personaggi più importanti dei fatti, proprio perché i personaggi sono più di interesse dei fatti.

Se questo può essere un motivo di esistenza dei giornali secolari, non lo può essere per la Santa Sede, perché il personaggio non sarà mai più dell’istituzione. Si rischia di assistere a vari corto circuiti. Se tutta l’attenzione è focalizzata su un Papa, e sulla sua riforma, allora cosa sarà degli altri Papi? Come si continueranno a raccontare le cose con prospettive diverse? E, quando si farà, come si manterrà credibilità?

Poi ci sono i problemi tecnici che si uniscono a quelli formali. La pervasività dell’informazione che costringe tutti a scrivere velocemente, e quindi ad approfondire meno, a cercare il click prima che l’informazione. C’è da ripensare un modo di proporsi al mondo, e questo è necessariamente complicato, se vogliamo che questo modo sia anche remunerativo. Comprendo benissimo le difficoltà che si vivono in Vaticano, specie in questa stagione che sta per arrivare.

Il mio punto, però, è che non si debba scrivere per il pubblico. Si debba scrivere in modo che le persone possano capire, ma senza troppo semplificare. Si deve anche correre il rischio di essere impopolari, riuscendo però a parlare a quanti davvero vogliono capire. Il Vangelo, in fondo, era per pochi, e anche se Gesù parlava in parabole per farsi capire, le spiegava poi solo ai discepoli. E nemmeno i discepoli, a volte, capivano tanto. Hanno avuto bisogno dello Spirito Santo.

Invece di concentrarsi su quello che le persone pensano sia giusto percepire, ci si deve concentrare su quello che si è. Vale per i linguaggi pontifici (tra l’altro, chi li critica non immaginerebbe mai una presidenza della Repubblica senza cerimoniale, alla fine), vale per la comunicazione vaticana che a volte sembra correre il rischio di appiattirsi sull’immagine del Papa.

Tra l’altro, il Papa è anche l’editore di questa comunicazione. Si deve considerare che molto di quello che c’è sia anche sua volontà, non certo volontà dei dirigenti. Questo è ovviamente un altro tema sul tavolo, che va tenuto in considerazione.

Se la volontà del Papa è liberarsi di tutto ciò che secondo lui non ha senso, infatti, allora è normale preoccuparsi che l’amico si getti dal ponte anche se non ne ha intenzione, per usare la metafora di inizio post. E questo perché magari buttarsi dal ponte non dipende dalle sue intenzioni. Ma se questa non è la volontà del Papa, allora le preoccupazioni saranno facilmente dissolte. Ed è questo quello che ci si augura.

Il senso di quello che scrivevo sta qui. Era una riflessione più ampia sulla comunicazione vaticana, e sul rischio che può correre. Con la speranza che restino le preoccupazioni di un blogger di pochi lettori, e con l’augurio che davvero venga finalizzato un lavoro che rafforzi nuovamente Osservatore Romano, Radio Vaticana e media vaticani in generale. Ce ne è bisogno.

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