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martedì 29 giugno 2021

Benedetto XVI, 70 anni sacerdote. Zelo e umiltà

C’è una piccola sorpresa bavarese, ma in maniera privata, lontano dalla celebrazione pubblica che accompagnò il 65esimo anniversario di ordinazione sacerdotale. Eppure ci si può scommettere che Benedetto XVI la ami di più così, lontano dai riflettori, più consona a quella che è stata la sua vita. Una vita, in fondo, di totale affidamento al Signore. Perché, da quando è sacerdote, lui si era sentito parte di una comunità di amici di Dio, e non di servitori, fedele al dettame evangelico.

Come al solito, si comprende Benedetto XVI andando a leggere prima di tutto le sue omelie. E può sembrare incredibile, considerando il fatto che lui sia un teologo di fama internazionale, le cui idee hanno generato discussione e formato pensatori, e che oggi vengono portate avanti con fedeltà e amore dagli allievi del Ratzinger Schuelerkreis. Eppure, Benedetto XVI è rimasto prima di tutto un sacerdote, e lo dimostra il fatto che è dalle omelie che si comprende quanto profondamente radicata in lui sia la fede in Cristo, e quanto abbia con tutte le sue pacate forze tentato di incarnarla nella sua vita.

L’omelia che è la chiave di tutto, in questo caso, è quella che Benedetto XVI ha pronunciato nel Duomo di Freising, nel suo primo ritorno in Germania da Papa. Era il 14 settembre 2006, e in quel Duomo che aveva visto lui e suo fratello ordinati sacerdoti nello stesso giorno, il 29 giugno 1951, Benedetto XVI aveva non solo raccontato le sue emozioni, ma anche dato un saggio di quello che sarebbe stato il suo pontificato. Persino, a guardare bene, un indizio della storica rinuncia al ministero petrino che non si può davvero comprendere se non si mettono gli stessi occhiali della fede del Papa emerito.

Quelli di Benedetto XVI erano ricordi pieni di commozione, di quando “ero qui prostrato per terra e, come avvolto dalle Litanie di tutti i santi, dall’intercessione di tutti i santi, mi rendevo conto che su questa via non siamo soli, ma che la grande schiera dei santi cammina con noi e i santi ancora vivi, i fedeli di oggi e di domani, ci sostengono e ci accompagnano”. E “poi vi fu il momento dell’imposizione delle mani… e infine, quando il Cardinale Faulhaber ci gridò: ‘Iam non dico vos servos, sed amicos’ – ‘Non vi chiamo più servi, ma amici’, allora ho sperimentato l’ordinazione sacerdotale come  iniziazione nella comunità degli amici di Gesù, che sono chiamati  a stare con Lui e ad annunciare il suo messaggio”.

Ogni gesto del sacerdote, per Benedetto XVI, ricorda la Chiesa che è stata, che è e che sarà. Ogni ordinazione è un protendersi verso il futuro per guardare comunque con profondità alla tradizione della fede della Chiesa. Le tradizioni popolari sono parte di questo linguaggio, e si nota quando il Papa ricordava la processione delle reliquie di San Corbiniano. Perché tutto va visto in modo simbolico, o meglio va letto secondo il linguaggio di Dio.

“In questo momento – aveva detto Benedetto XVI - facciamo ancora quell'esperienza, che cioè stiamo nella grande processione, nel pellegrinaggio del Vangelo, che possiamo essere insieme pellegrini e guide di questo pellegrinaggio e che, seguendo coloro che hanno seguito Cristo, seguiamo con loro Lui stesso ed entriamo così nella luce”.

Fin qui, il commento sui ricordi personali. Ma poi il Papa si “introduce nell’omelia”, commentando il brano del Vangelo che è quello in cui Gesù dice che “la Messe è molta”, ma gli operai pochi. Non è un messaggio rivolto solo a quel tempo, nota Benedetto XVI, ma è valida in ogni tempo, perché “nei cuori degli uomini cresce una messe”, in quanto “nel loro intimo c’è l’attesa di Dio”, e “di una Parola che sia più di una semplice parola”.

Quel Vangelo continua con l’esortazione di Gesù a pregare perché mandi operai. “Dio ha bisogno di uomini”, aveva chiosato Benedetto XVI. Ma aveva aggiunto: “Non possiamo semplicemente produrre vocazioni: esse devono venire da Dio. Non possiamo, come forse in altre professioni, per mezzo di una propaganda ben mirata, mediante, per cosi dire, strategie adeguate, semplicemente reclutare delle persone. La chiamata, partendo dal cuore di Dio, deve sempre trovare la via al cuore dell’uomo”.

Ci vuole, comunque, la collaborazione degli uomini, la preghiera per “scuotere il cuore di Dio”, ma questo “non si realizza soltanto mediante parole di preghiera”, ma comporta anche “un mutamento della parola in azione”.

Benedetto XVI aveva poi affrontato il tema della scarsità dei sacerdoti, e tutti hanno gravami più pesanti, perché “gestire due, tre, quattro parrocchie insieme, e questo con tutti i nuovi compiti che si sono aggiunti – è cosa che può risultare scoraggiante”. Viene naturale la domanda: “Come possiamo farcela?”

Benedetto XVI non dava “ricette infallibili”, ma ripartiva dalle Scritture. Da San Paolo che notava come Gesù “dovette scendere e assumere l’incredibile, l’intera miseria di una vita umana fino all’ora della sofferenza sulla Croce”, ed è questo il sentimento di Gesù che dobbiamo vivere: saper scendere per assumere l’incredibile, e rimanere in comunione con il Padre, al punto da non poter evitare di annunciare il Vangelo.

Questi due aspetti si traducono in “zelo e umiltà”. Il primo, perché “se veramente incontriamo Cristo sempre di nuovo, non possiamo tenercelo per noi stessi”, e allora “ci sentiamo spinti ad essere annunciatori”, andando verso “i poveri, gli anziani, i deboli, e così pure verso i bambini e i giovani, verso le persone nel pieno della loro vita”.

Ma sarebbe – aggiungeva Benedetto XVI – uno zelo “vuoto e logorante” se non si collegasse con “l’umiltà, la moderazione, l’accettazione dei nostri limiti”. Vale per i parroci, ma vale anche per il Papa.

Raccontava Benedetto XVI: “Devo imparare a fare ciò che posso e lasciare il resto a Dio e ai miei collaboratori e dire: ‘In definitiva sei Tu che devi farlo, poiché la Chiesa è Tua. E Tu mi dai solo l’energia che possiedo. Sia donata a Te, perché proviene da Te; il resto, appunto, lo lascio a Te’. Credo, che l’umiltà di accettare questo – ‘qui finisce la mia energia, lascio a Te, Signore, di fare il resto’ – tale umiltà è decisiva. Ed avere poi la fiducia: Egli mi donerà anche i collaboratori che mi aiuteranno e faranno quello che io non riesco a fare”.

Zelo e umiltà hanno bisogno di un altro passo, quello di saper ricevere. E la Chiesa permette di ricevere, nella “celebrazione quotidiana della Messa”, che non deve essere “una cosa di routine”, ma che va vissuta e pregata immedesimandosi con la Parola. E poi, permette di ricevere nella Liturgia delle Ore, che “non è un ritirarsi nel privato, ma è una priorità pastorale, è un’azione pastorale, nella quale noi stessi diventiamo nuovamente sacerdoti, veniamo nuovamente colmati di Cristo, includiamo gli altri nella comunione della Chiesa orante e, al contempo, lasciamo emanare la forza della preghiera, la presenza di Gesù Cristo, in questo mondo”.

Rifacendosi al motto del viaggio in Germania del 2006 – “Chi crede non è mai solo” – Benedetto XVI esortava a ricordare che “chi è sacerdote non è mai solo, perché Gesù Cristo è sempre con lui. Egli è con noi; stiamo anche noi con Lui! Ma deve valere anche nell’altro senso: chi si fa sacerdote, viene introdotto in un presbiterio, in una comunità di sacerdoti con il Vescovo. Ed egli è sacerdote nell’essere in comunione con i suoi confratelli. Impegniamoci perché questo non resti soltanto un precetto teologico e giuridico, ma diventi esperienza concreta per ciascuno di noi. Doniamoci a vicenda questa comunione, doniamola specialmente a coloro che, sappiamo, soffrono di solitudine, sono oppressi da interrogativi e problemi, forse da dubbi e incertezze”.

Viste oggi, queste parole di Benedetto XVI risultano ancora oggi profetiche. C’è, prima di tutto, il suo totale abbandono a Dio, la sua umiltà nel comprendere che tutto è dovuto a Dio, non a lui, e dunque la sua liberalità nel prendere la scelta di rinunciare al ministero petrino. Una rinuncia non accompagnata da gesti che ne preservassero l’eredità, o che influenzassero i cardinali nella scelta del successore, proprio nella fiducia che la Chiesa stessa è di Dio, e che Dio ci avrebbe pensato.

Quindi, l’importanza che Benedetto XVI dà alla celebrazione quotidiana. La liturgia non è un linguaggio vuoto, è un modo di vivere e raccontare la fede in Dio, e come tale va trattato. La Messa non è routine, l’Eucarestia ha un senso. Va ribadito, per Benedetto XVI, perché il rischio è che poi davvero la Chiesa abbia grandi programmi sociali, ma perda il senso della fede; abbia grandi programmi di rinnovamento per stare nel mondo, ma perda il senso dell’Eucarestia. Le sue parole, amare, su quello che sta succedendo in Germania, affidate recentemente in controluce a un messaggio inviato al seminario di Czestochowa, partono proprio da questa consapevolezza. Si deve, è necessario, ripartire da Cristo.

E da Cristo devono ripartire i sacerdoti. Perché essere prete non è una funzione, non è un mestiere, ma è parte di una consacrazione che ha tutto un suo valore e una sua dignità. Se il sacerdote vede il suo operato come una funzione, allora è un mestiere per tutti. Eppure, non tutti sono chiamati, non tutti sono chiamati a fare i sacerdoti. Persino la questione delle ordinazioni femminili è il risultato di un funzionalismo dato al ruolo del sacerdote. Benedetto XVI si era sempre rifatto alla lettera apostolica Ordinatio Sacerdotalis di San Giovanni Paolo II, in cui sottolineava “la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa”.

Questo non significa che le donne non abbiano un posto nella rivelazione. Nel suo grande lavoro per ritornare al Gesù evangelico, per conoscerlo, per comprenderlo, Benedetto XVI ha scritto, quando era Papa ma con la richiesta che fosse considerato lavoro teologico e non magisteriale, ben tre volumi su Gesù, uno studio poderoso che ha il pregio e la volontà di far coincidere di nuovo il Gesù dei Vangeli e il Gesù storico, superando la dicotomia che era invalsa con il metodo-storico critico applicato alle Scriture. E lì, Benedetto XVI spiegava anche che le donne hanno un ruolo fondamentale nella Resurrezione di Cristo, sono le prime a vedere, le prime a dare l’annuncio.

Già, la Resurrezione. La chiave di tutto sta lì. Lo spiegava il Cardinale Gerhard Ludwig Mueller, prefetto emerito della Congregazione della Dottrina della Fede e curatore dell’opera omnia di Benedetto XVI, quando presentava il volume “Annunciatori della parola e servitori della vostra gioia”.

Con la Resurrezione – diceva il cardinale, partendo proprio dalle parole che Benedetto XVI aveva scritto sul sacerdozio in 70 anni -  “tutto compie il salto qualitativo. Viene posto il fondamento per superare ogni crisi. Quella crisi per cui tutti l’avevano abbandonato nell’ora drammatica della  consegna di Gesù ai peccatori. E aggiungeva: “Se Cristo per mezzo della risurrezione ha superato la più grande crisi mai esistita nella fede, la crisi della missione e della potestà apostolica e dunque anche del sacerdozio, allora è proprio dando lo sguardo a Gesù che si possono superare tutte le crisi storiche della Chiesa e soprattutto del sacerdozio”.

Ed era proprio lì che guardava Benedetto XVI, quando pubblicava i volumi sul Gesù di Nazareth e proclamava l’Anno Sacerdotale, diventato un vero Calvario per la Chiesa per le tante accuse sugli abusi arrivate ad orologeria, e di continuo, da ogni dove, secondo un piano che sembrava quasi mirato. Benedetto XVI però era fiducioso: il chicco di grano deve morire per portare molto frutto.

Tutto questo c’era già, probabilmente, negli occhi del giovane bavarese che 70 anni fa veniva ordinato sacerdote. Sarebbe stata questa fede a portarlo ad essere, un giorno, Papa. Perché tutta la sua vita, in fondo, racconta di un totale affidamento a Gesù. Non è un percorso netto dal punto di vista umano: ci sono state difficoltà, e anche aspettative deluse e sviluppi imprevisti. Ma è stato un percorso netto dal punto di vista spirituale. Che è quello che contava di più. Almeno per Benedetto XVI.

 

 

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