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sabato 26 giugno 2021

Alain Lebeaupin, il diplomatico che parlava la lingua della diplomazia


Se c’era un diplomatico della Santa Sede che conosceva il linguaggio della diplomazia, quello era l’arcivescovo Alain Lebaupin. Nunzio in Europa dal 2012 al 2020, ma prima ancora una vita nella diplomazia del Papa, che lo aveva portato in tutto il mondo e che gli aveva fatto conoscere l’importanza delle relazioni bilaterali e multilaterali. Tutte vissute con la leggerezza tipica di chi sa il fatto suo, e con la profonda capacità di comprendere quando una situazione era da gestire in maniera grave e seria.

L’arcivescovo Lebeaupin è morto all’improvviso lo scorso 24 giugno, a 76 anni. Era a Roma, viveva da solo in un appartamento che aveva sempre mantenuto come suo pied-a-terre romano, lui che era uno spirito libero e che frequentava tutti i circoli che doveva frequentare, ma mantenendo la sua liberalità. Era andato in pensione da poco, lasciando con il grande successo di una “visita virtuale” del Cardinale Pietro Parolin all’Unione Europea, e cominciando a godersi una pensione attiva, da consultore della Segreteria di Stato.

Ho conosciuto l’arcivescovo Lebeaupin nel 2015, in uno dei miei viaggi a Bruxelles per seguire le attività dell’Unione Europea, e soprattutto comprendere cosa facevano i gruppi cattolici e cristiani, e cosa poteva fare la diplomazia della Santa Sede. Mi ricevette nella sede dell’ambasciata, per uno di quei caffè che si pensa siano veloci, e invece durano ore. Era un gran conversatore, e portava in ogni conversazione la sua esperienza. Aveva sempre un punto di vista alternativo. Pragmatico, a volte anche molto pragmatico, ma sempre un punto di vista differente.

Lo aveva allenato nella lunga carriera diplomatica, cominciata nel 1979. Era stato alla Missione della Santa Sede presso le Nazioni Unite di New York, poi in Repubblica Dominicana, quindi in Mozambico. Aveva affinato l’arte di leggere tra le righe dei discorsi, ma anche quella del dialogo. Era, la sua, una scuola diplomatica fatta di grande profondità intellettuale. E probabilmente non è un caso che i grandi diplomatici della Santa Sede di quegli anni fossero francesi: il Cardinale Roger Etchegaray, che fu il grande inviato di Giovanni Paolo II; il Cardinale Jean Louis Tauran, che negli anni Novanta fu il protagonista della politica estera della Santa Sede che si affacciava di là della Cortina di Ferro e sul difficile scenario balcanico; il Cardinale Paul Poupard, che, dopo essere stato giovane collaboratore della Segreteria di Stato ai tempi di Giovanni XXIII, fu inviato da Giovanni Paolo II a buttare giù con le ragioni della cultura l’ideologia comunista e l’ateismo militante.

Era una scuola di enorme valore, a cui monsignor Lebaupin attingeva profondamente, dando anche il tocco personale di una certa “gioia di vivere” e quella leggerezza di cui parlavo, che non si traduceva mai in superficialità.

Conosceva il linguaggio della diplomazia, l’arcivescovo Lebeaupin, proprio perché sapeva sempre dire una parola in meno, e mai diceva una parola di più di quella che doveva dire. “Non ho mai dato interviste, perché il mio lavoro deve essere dietro le quinte. Io non voglio apparire”, mi diceva – anche se poi acconsentì a darmi una intervista a fine carriera diplomatica. E poi, già nella sua casa romana: “Sa, io sono stato chiamato a fare conferenze sulla diplomazia pontificia in alcune istituzioni, ma non glielo dicevo, perché non tutto va detto, ma molto va spiegato”.

Durante il lockdown, cominciò una serie di colloqui con i funzionari europei, e mi chiamò per raccontarmelo, perché pensava fosse il momento che si conoscesse il lavoro della Santa Sede nelle istituzioni europee. E anche perché si preparava quella visita a Bruxelles del Cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, per i cinquanta anni delle relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Unione Europea. Quando poi pubblicai l’articolo, corredato da una sua foto, mi disse: “Le avevo chiesto di non comparire, mi trovo invece con una mia foto”. E io dissi che la foto la avevo presa dal profilo twitter di un commissario UE, e non mi sembrava di avere attentato alla sua riservatezza se tutto era già ufficiale. Lui fece comprendere che non aveva gradito nemmeno la pubblicità che gli aveva fatto quel funzionario.

Era una diplomazia sottovoce, quella dell’arcivescovo Lebeaupin. La diplomazia del passo indietro, che non significa essere indietro, significa semplicemente non ostentare. Era il vecchio linguaggio diplomatico vaticano, prudente e tagliente al tempo stesso, capace con savoir faire di ribadire i diritti e allo stesso tempo di non crearsi nemici, ma buoni rapporti personali.

La visita del Cardinale Parolin poi non si fece più. Rinviata due volte per via della pandemia, l’arcivescovo  Lebeaupin la trasformò in una visita virtuale, con incontri online rispettando rigorosamente l’agenda prefissata. Gli piaceva molto l’idea del “viaggio virtuale”, che avevo usato nel mio titolo. “La ho ripresa, Gagliarducci, uso l’espressione con i miei interlocutori”, raccontava sempre.

La sua morte improvvisa lascia un vuoto strano, difficile da comprendere. Aveva una vita piena, sebbene da pensionato, e molta voglia di fare, di contribuire. Si fece stampare il discorso di inizio anno di Papa Francesco ai diplomatici per poterlo studiare. Ascoltava ogni progetto, e dava consigli su come svilupparli.

Con lui, si è perso uno dei diplomatici vaticani della vecchia scuola. Ha lasciato eredi (alcuni nunzi sono cresciuti alla sua scuola), ha formato persone, ma manca quel tipo di personalità, che veniva prima di tutto dall’essere profondamente sacerdote, quindi uomo, e poi diplomatico.

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