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sabato 5 giugno 2021

Quella sfida vera di essere cristiani

Nel 1985, il Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee tenne un simposio su “Secolarizzazione ed evangelizzazione”. Era un tema scottante. Si era ancora nel clima del dopo-Concilio, ma anche negli anni di transizione che portarono alla fine del mondo bipolare. La Chiesa era in prima linea. Eppure, i vescovi di una Chiesa allora trionfante si ponevano il problema di come trasmettere le fede in una società post-cristiana. Se si vanno a leggere gli appunti, i riassunti e gli atti di quel simposio, il problema era rapidamente divenuto altro. Ovvero: di quale secolarizzazione stiamo parlando? Perché se dal punto di vista cattolico la secolarizzazione era una sola, c’erano piuttosto diverse ondate di secolarizzazione che si sperimentavano in Europa.

Cosa significa tutto questo? Che il tema della secolarizzazione, e quello che ne consegue delle chiese vuote, è un fenomeno particolarmente complesso. Non possiamo definire una nazione cristiana o meno sulla base del numero di persone che vanno a messa la domenica, o sulla base di quanti si professano cristiani, perché poi c’è tutto un movimento diverso da analizzare, comprendere. I cristiani si riconoscono dalla loro vita, dalle cose in cui credono, da come intervengono nel dibattito pubblico. In fondo, la secolarizzazione comincia da dentro, non da fuori.

Per questo, le categorie della sociologia non sono  abbastanza per comprendere fino in fondo il fenomeno. Ma non va molto meglio se utilizziamo la filosofia: allarghiamo lo sguardo, diamo un ragionamento al pensiero, ma ci resta una analisi fallace, che manca di qualcosa. Quel qualcosa, in fondo, è semplice da capire: manca la prospettiva della fede.

Dal 22 febbraio, L’Osservatore Romano ha lanciato questa grande riflessione su “Chiese vuote e umanesimo integrale”. Cominciato con un articolo di Pier Giorgio Gawronski, la serie ha coinvolto intellettuali, filosofi, sociologi, con l’obiettivo di dare profondità ad un dibattito fondamentale. Fuori dall’Osservatore Romano, Matteo Matzuzzi de Il Foglio è arrivato a porre il problema inverso: non è che sono le chiese piene degli anni Settanta, quel modello di cattolicesimo trionfante, ad essere il problema? 

Per riassumere: non è crollata solo pratica religiosa, ma anche il numero di quanti non sono praticanti, ma non si definiscono cristiani. Un crollo parzialmente mitigato dal senso religioso dei Paesi ancora cristiani, generalmente poveri, che però migrano nei luoghi della ricchezza, andando a portare un po’ di senso religioso.

Gawronski ha notato l’oscillazione della risposta a questo crollo, dall’idea identitaria a quella di dover “attualizzare il messaggio” e “modernizzare la comunicazione”, e arriva alla risposta che l’uomo moderno non sembra aver bisogno di Dio. Per Gawronski, la risposta sarebbe tornare alla comunità degli inizi del cristianesimo, perché ormai ci si concentra sulla Messa domenicale, ma questa Messa non fa comunità. La secolarizzazione, secondo Gawronski, porta con sé una domanda drammatica: come è possibile che la religione dell’umanesimo integrale abbia disumanizzato le pratiche? E conclude: la migliore risposta alla secolarizzazione è quella di “reagire all’individualismo, all’atomizzazione, all’evanescenza delle relazioni tra le Chiese”.

Il 29 maggio, Armando Matteo, sempre dalle colonne dell’Osservatore, ha invece analizzato le strategie di difesa della Chiesa a questa secolarizzazione. Queste strategie possibili sarebbero generalmente tre. La prima è l’opzione identitaria, vale a dire “spingere l’acceleratore sulle parole d’ordine di sempre”, rimanendo “immuni da uno sforzo di un gesto di creatività e immaginazione che riuscirebbe finalmente a presentare la scelta di vita cristiana non come totalmente alternativa alla cittadinanza contemporanea del mondo, ma come un qualcosa che la integri, che ne corregga gli sbandamenti, che le offra strumenti per discernere le ambivalenze, mettendo a sua disposizione un orizzonte sempre più grande, che concorra alla piena fecondità dell’esperienza umana delle persone”.

La seconda è il risentimento per aver perso il compito “di dirigere la salvezza dell’intero mondo”, perché la regia “è in mano ad altri i quali, di ciò che la Chiesa pensa, afferma e vive non si preoccupano più di tanto”.

La terza strategia è quella del tradizionalismo, che “si concentrerebbe nella denuncia di ogni tentativo di cambiamento in termini di tradimento”.

Matteo conclude che “la cristianità è veramente finita”, e che oggi serve “un cambiamento della mentalità pastorale”, perché “è urgente passare da un cristianesimo che risponde ad una domanda di consolazione che nessuno gli pone a un cristianesimo che permetta a chiunque di incrociarsi con Gesù, innamorarsi di lui ed essere all’altezza della parte migliore di sé”.

Sono tutte analisi profonde da ponderare bene. Eppure, a mio avviso, c’è sempre qualcosa che sfugge. Come dicevano i vescovi di Europa già negli anni Ottanta, il mondo non un il blocco monolitico. La secolarizzazione, o le secolarizzazioni, non possono essere affrontate con strategie univoche. Si vivono, e la cosa migliore sarebbe viverle con una forte consapevolezza cristiana.

Quando già negli Anni Cinquanta del secolo scorso, Joseph Ratzinger scriveva “I nuovi pagani e la Chiesa”, poneva esattamente questo problema: che c’erano cristiani che erano convinti da cristiani pur vivendo da pagani e accettando punti di vista pagani. Il problema non era nelle strutture di potere, nel dialogo con il mondo, ma era proprio nella vita di tutti i giorni, nelle cose piccole. I cristiani non vivevano da cristiani perché non comprendevano cosa significasse vivere da cristiani. Addirittura, non vedevano contraddizione tra la loro vita e quella richiesta dal Vangelo.

Il filosofo Pietro Prini, nel 1998, arriverà a definire questa dicotomia come “Scisma sommerso”, ed è stato il tema principale della Chiesa cosiddetta dialogante, incluso l’attuale Sinodo della Chiesa tedesca, che punta a colmare il gap di questo scisma.

La verità è che non c’è niente da colmare. C’è, piuttosto, da ritornare alle radici della fede, a saperla spiegare. Non c’è bisogno di operatori pastorali, né di nuovi linguaggi. C’è bisogno, prima di tutto, di nuova Eucarestia. C’è bisogno di comunità. Poi, a partire da quella profondità di fede, ognuno potrà costruire nel modo e con i linguaggi che ritiene più consoni ed opportuni.

Il rischio, alla fine, è quello che per evitare di essere autoreferenziali, si diventi a propria volta autoreferenziali. Che si parli di un mondo di Chiesa che non c’è, perché la verità sta nella vita di ogni giorno. Mentre ci si perde a parlare di nuovi piani pastorali, mentre ci si occupa, giustamente, di tutti i grandi temi e problemi del mondo, mentre si teorizza il miglior modo di annunciare Cristo (in modo tradizionale? In dialogo con il mondo?), la vita scappa via. Nel leggere i segni dei tempi, sottovalutiamo gli stessi segni dei tempi.

Questo periodo di pandemia ne è stata la prova. Durante il lockdown, la Chiesa non era stata privata solo dell’Eucarestia, era stata privata della comunità. E le comunità questo lo hanno sofferto. C’era sincera gioia quando ci si è potuti ritrovare in parrocchia a celebrare, anche tra estranei. Chi ha potuto, è andato a Messa clandestinamente. Non è successo solo in Italia. Si raccolgono storie di questo genere anche in Irlanda, dove le Messe pubbliche sono state interdette più a lungo che in tutti gli altri Paesi europei; persino nella secolarizzata Francia, in Australia, negli Stati Uniti, si è sentita la mancanza delle celebrazioni, e i vescovi hanno preso posizioni forti quando diventava chiaro che la religiosità era messa da parte da normative completamente ingiuste. Non era solo difesa della libertà religiosa. Era la necessità di difendere una comunità.

Se tutto questo viene interpretato come opzione identitaria, pazienza. La verità è che la Chiesa ha bisogno di Chiesa. E “Chiesa” significa comunità. Non ci aiuteranno le statistiche sulla partecipazione religiosa, non ci aiuterà nemmeno concentrarci su grandi figure di riferimento. C’è, prima di tutto, bisogno di autenticità. E per questo c’è, prima di tutto, bisogno dell’Eucarestia. L’opzione Eucarestia è quella che viene sempre messa da parte, nelle varie analisi. Eppure è centrale, è il senso stesso della Chiesa.

In fondo, aveva ragione il grande missionario Piero Gheddo, che nel 2014 lamentava il crollo delle vocazioni missionarie commentando la chiusura di giornali missionari come Ad Gentes, notava come la spinta sociale avesse sostituito l’annuncio del Vangelo. Un annuncio, in fondo, che porta alla conversione, che ha quell’obiettivo, secondo quel messaggio evangelico che è di “andare e fare discepoli tutti i popoli”.

Probabilmente, finché ci si concentrerà su come incontrare Gesù, ma poco sull’Eucarestia; finché avremo risposte sociologiche piuttosto che ancorate sulla realtà della vita quotidiana delle comunità; finché guarderemo alle comunità con uno sguardo distaccato, convinti che la gente non abbia bisogno di religiosità e di fede (eppure, le storie di quanti si sono radicalizzati dovrebbero farci capire che è il contrario); finché tutto questo succederà, non staremo comprendendo i fatti. Analizzeremo la Chiesa da una posizione di potere, come se fosse un organismo di potere. Ci lamenteremo del fatto che questa Chiesa non ha un messaggio che fa impatto, o audience. Che la voce della Chiesa non arrivi abbastanza. E dimenticheremo che tutto, necessariamente, deve partire dall’Eucarestia vissuta e presente, al di là di ogni messaggio sociale. In questo, il Congresso Eucaristico Internazionale di Budapest potrebbe essere un grande punto di partenza per una nuova consapevolezza.

1 commento:

  1. Certo, "ripartire dall'Eucaristia vissuta e presente", ma bisogna chiarire che cosa vuol dire, certamente non processioni, esposizioni, adorazioni, che fanno dell'Eucaristia quasi un idolo, ma Pane spezzato per e tra coloro che si riuniscono perché si sentono e vivono da fratelli, senza poteri particolari, poveri, miti, misericordiosi..., cioè come Gesù ha predicato in Matteo 5.

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