Cosa significa tutto questo? Che il tema della secolarizzazione, e quello che ne consegue delle chiese vuote, è un fenomeno particolarmente complesso. Non possiamo definire una nazione cristiana o meno sulla base del numero di persone che vanno a messa la domenica, o sulla base di quanti si professano cristiani, perché poi c’è tutto un movimento diverso da analizzare, comprendere. I cristiani si riconoscono dalla loro vita, dalle cose in cui credono, da come intervengono nel dibattito pubblico. In fondo, la secolarizzazione comincia da dentro, non da fuori.
Per
questo, le categorie della sociologia non sono
abbastanza per comprendere fino in fondo il fenomeno. Ma non va molto meglio se utilizziamo la
filosofia: allarghiamo lo sguardo, diamo un ragionamento al pensiero, ma ci
resta una analisi fallace, che manca di qualcosa. Quel qualcosa, in fondo, è
semplice da capire: manca la prospettiva della fede.
Dal 22
febbraio, L’Osservatore Romano ha
lanciato questa grande riflessione su “Chiese vuote e umanesimo integrale”.
Cominciato con un
articolo di Pier Giorgio Gawronski, la serie ha coinvolto intellettuali,
filosofi, sociologi, con l’obiettivo di dare profondità ad un dibattito
fondamentale. Fuori dall’Osservatore
Romano, Matteo
Matzuzzi de Il Foglio è arrivato a
porre il problema inverso: non è che sono le chiese piene degli anni
Settanta, quel modello di cattolicesimo trionfante, ad essere il problema?
Per
riassumere: non è crollata solo pratica religiosa, ma anche il numero di quanti
non sono praticanti, ma non si definiscono cristiani. Un crollo parzialmente mitigato dal senso religioso dei Paesi ancora
cristiani, generalmente poveri, che però migrano nei luoghi della
ricchezza, andando a portare un po’ di senso religioso.
Gawronski ha notato l’oscillazione
della risposta a questo crollo, dall’idea identitaria a quella di dover
“attualizzare il messaggio” e “modernizzare la comunicazione”, e arriva alla risposta che
l’uomo moderno non sembra aver bisogno di Dio. Per Gawronski, la
risposta sarebbe tornare alla comunità degli inizi del cristianesimo, perché
ormai ci si concentra sulla Messa domenicale, ma questa Messa non fa comunità.
La secolarizzazione, secondo Gawronski,
porta con sé una domanda drammatica: come è possibile che la religione dell’umanesimo
integrale abbia disumanizzato le pratiche? E conclude: la migliore risposta
alla secolarizzazione è quella di “reagire all’individualismo,
all’atomizzazione, all’evanescenza delle relazioni tra le Chiese”.
Il 29
maggio, Armando Matteo, sempre dalle
colonne
dell’Osservatore, ha invece
analizzato le strategie di difesa della Chiesa a questa secolarizzazione.
Queste strategie possibili sarebbero generalmente tre. La prima è l’opzione
identitaria, vale a dire “spingere l’acceleratore sulle parole d’ordine di
sempre”, rimanendo “immuni da uno sforzo di un gesto di creatività e
immaginazione che riuscirebbe finalmente
a presentare la scelta di vita cristiana non come totalmente alternativa alla
cittadinanza contemporanea del mondo, ma come un qualcosa che la integri, che
ne corregga gli sbandamenti, che le offra strumenti per discernere le
ambivalenze, mettendo a sua disposizione un orizzonte sempre più grande, che
concorra alla piena fecondità dell’esperienza umana delle persone”.
La seconda è il risentimento per aver perso il
compito “di dirigere la salvezza dell’intero mondo”, perché la regia “è in
mano ad altri i quali, di ciò che la Chiesa pensa, afferma e vive non si
preoccupano più di tanto”.
La terza
strategia è quella del tradizionalismo, che “si concentrerebbe nella denuncia
di ogni tentativo di cambiamento in termini di tradimento”.
Matteo
conclude che “la cristianità è veramente
finita”, e che oggi serve “un cambiamento della mentalità pastorale”,
perché “è urgente passare da un cristianesimo che risponde ad una domanda di
consolazione che nessuno gli pone a un cristianesimo che permetta a chiunque di
incrociarsi con Gesù, innamorarsi di lui ed essere all’altezza della parte
migliore di sé”.
Sono
tutte analisi profonde da ponderare bene. Eppure,
a mio avviso, c’è sempre qualcosa che sfugge. Come dicevano i vescovi di
Europa già negli anni Ottanta, il mondo non un il blocco monolitico. La
secolarizzazione, o le secolarizzazioni, non possono essere affrontate con
strategie univoche. Si vivono, e la cosa
migliore sarebbe viverle con una forte consapevolezza cristiana.
Quando
già negli Anni Cinquanta del secolo scorso, Joseph Ratzinger scriveva “I nuovi pagani e la Chiesa”, poneva
esattamente questo problema: che c’erano cristiani che erano convinti da
cristiani pur vivendo da pagani e accettando punti di vista pagani. Il problema
non era nelle strutture di potere, nel dialogo con il mondo, ma era proprio
nella vita di tutti i giorni, nelle cose piccole. I cristiani non vivevano da cristiani perché non comprendevano cosa
significasse vivere da cristiani. Addirittura, non vedevano contraddizione
tra la loro vita e quella richiesta dal Vangelo.
Il
filosofo Pietro Prini, nel 1998,
arriverà a definire questa dicotomia come “Scisma sommerso”, ed è stato il
tema principale della Chiesa cosiddetta dialogante, incluso l’attuale Sinodo
della Chiesa tedesca, che punta a colmare il gap di questo scisma.
La verità è che non c’è niente da colmare. C’è, piuttosto, da ritornare alle radici
della fede, a saperla spiegare. Non c’è bisogno di operatori pastorali, né di
nuovi linguaggi. C’è bisogno, prima di tutto, di nuova Eucarestia. C’è bisogno
di comunità. Poi, a partire da quella profondità di fede, ognuno potrà
costruire nel modo e con i linguaggi che ritiene più consoni ed opportuni.
Il
rischio, alla fine, è quello che per
evitare di essere autoreferenziali, si diventi a propria volta autoreferenziali.
Che si parli di un mondo di Chiesa che non c’è, perché la verità sta nella vita
di ogni giorno. Mentre ci si perde a parlare di nuovi piani pastorali, mentre
ci si occupa, giustamente, di tutti i grandi temi e problemi del mondo, mentre
si teorizza il miglior modo di annunciare Cristo (in modo tradizionale? In
dialogo con il mondo?), la vita scappa via. Nel leggere i segni dei tempi, sottovalutiamo gli stessi segni dei
tempi.
Questo
periodo di pandemia ne è stata la prova. Durante il
lockdown, la Chiesa non era stata
privata solo dell’Eucarestia, era stata privata della comunità. E le
comunità questo lo hanno sofferto. C’era sincera gioia quando ci si è potuti
ritrovare in parrocchia a celebrare, anche tra estranei. Chi ha potuto, è
andato a Messa clandestinamente. Non è successo solo in Italia. Si raccolgono
storie di questo genere anche in Irlanda, dove
le Messe pubbliche sono state interdette più a lungo che in tutti gli altri
Paesi europei; persino nella secolarizzata Francia, in Australia, negli
Stati Uniti, si è sentita la mancanza delle celebrazioni, e i vescovi hanno
preso posizioni forti quando diventava chiaro che la religiosità era messa da
parte da normative completamente ingiuste. Non era solo difesa della libertà
religiosa. Era la necessità di difendere una comunità.
Se tutto questo viene interpretato come
opzione identitaria, pazienza. La verità è che la Chiesa ha bisogno di Chiesa.
E “Chiesa” significa comunità. Non ci aiuteranno le statistiche sulla
partecipazione religiosa, non ci aiuterà nemmeno concentrarci su grandi figure
di riferimento. C’è, prima di tutto, bisogno di autenticità. E per questo c’è,
prima di tutto, bisogno dell’Eucarestia. L’opzione
Eucarestia è quella che viene sempre messa da parte, nelle varie analisi.
Eppure è centrale, è il senso stesso della Chiesa.
In
fondo, aveva ragione il grande missionario
Piero Gheddo, che nel 2014 lamentava il crollo delle vocazioni missionarie
commentando la chiusura di giornali missionari come Ad Gentes, notava come la spinta sociale avesse sostituito
l’annuncio del Vangelo. Un annuncio, in
fondo, che porta alla conversione, che ha quell’obiettivo, secondo quel
messaggio evangelico che è di “andare e fare discepoli tutti i popoli”.
Probabilmente,
finché ci si concentrerà su come
incontrare Gesù, ma poco sull’Eucarestia; finché avremo risposte
sociologiche piuttosto che ancorate sulla realtà della vita quotidiana delle
comunità; finché guarderemo alle
comunità con uno sguardo distaccato, convinti che la gente non abbia bisogno di
religiosità e di fede (eppure, le storie di quanti si sono radicalizzati
dovrebbero farci capire che è il contrario); finché tutto questo succederà, non
staremo comprendendo i fatti. Analizzeremo la Chiesa da una posizione di
potere, come se fosse un organismo di potere. Ci lamenteremo del fatto che questa Chiesa non ha un messaggio che fa
impatto, o audience. Che la voce della Chiesa non arrivi abbastanza. E dimenticheremo
che tutto, necessariamente, deve partire dall’Eucarestia vissuta e presente, al
di là di ogni messaggio sociale. In questo, il Congresso Eucaristico Internazionale di Budapest potrebbe essere
un grande punto di partenza per una nuova consapevolezza.
Certo, "ripartire dall'Eucaristia vissuta e presente", ma bisogna chiarire che cosa vuol dire, certamente non processioni, esposizioni, adorazioni, che fanno dell'Eucaristia quasi un idolo, ma Pane spezzato per e tra coloro che si riuniscono perché si sentono e vivono da fratelli, senza poteri particolari, poveri, miti, misericordiosi..., cioè come Gesù ha predicato in Matteo 5.
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