Papa Francesco compie 88 anni e si regala una nuova autobiografia, Spera, che sarà pubblicata in tempo per il Giubileo. Ma ce n’era stata una lo scorso anno (Life) e un altro testo che parlava specificamente del suo rapporto con Benedetto XVI (El Sucesor), mentre non si contano i titoli di Papa Francesco che raccolgono i suoi discorsi, le prefazioni di Papa Francesco a testi di vari autore o di vario genere, le interviste a Papa Francesco (che si contano almeno in un centinaio se non più) e persino le apparizioni tv.
In undici anni di pontificato, Papa Francesco ha perseguito una precisa strategia comunicativa: esserci, esserci comunque, esserci dovunque. Ma esserci soprattutto laddove non c’è l’istituzione, dove anzi può essere lui e non la Chiesa il protagonista. Esserci laddove lui può parlare di ciò che pensa, delineare i suoi obiettivi, esprimere le sue opinioni senza contraddizioni forti, perché di fronte ha un amico, ha qualcuno che ha un sacro rispetto per lui e che non osa contraddirlo, o ha qualcuno cui interessa l’opinione del leader, più che il senso della Chiesa.
In questi undici anni, si è trasformata la comunicazione vaticana, toccata da una riforma necessaria per adeguarsi ai tempi, ma toccata anche nella gestione dei contenuti. Si sono giustamente centralizzati i flussi informativi, si è creata una convergenza nel digitale che non poteva non avere luogo, si è lavorato molto sui grandi temi, vincendo anche premi prestigiosi per i lavori di grande umanità. Ci si è trovati, però, di fronte anche ad un Papa dalla comunicazione pervasiva, che gestisce conversazioni, interviste e pubblicazioni autonomamente.
Il modo in cui Papa Francesco gestisce la comunicazione rispecchia anche il modo in cui governa. Gestisce tutto da sé, centralizza tutto sulla sua persona, chiedendo in qualche modo a tutti di seguire e di adeguarsi.
È questo il nuovo modello di comunicazione dei Papi?
Difficile da dire. Giovanni Paolo II aveva lo spirito dell’attore, la capacità carismatica di stare sulla scena, una enorme empatia con le persone. Allo stesso, la sua comunicazione non era mai solo personale. Era una comunicazione istituzionale, che usava i simboli della storia e della tradizione e che li caricava di significato. Giovanni Paolo II era al centro della comunicazione, ma non si sentiva il centro della comunicazione. D’altronde, era sempre l’arcivescovo Karol Wojtyla che, nella messa di installazione a Cracovia, andò a prendere i paramenti più antichi e sacri per dimostrare al regime sovietico che la Chiesa era lì da sempre e sempre lì sarebbe stato, e che la fede non poteva essere messa da parte.
Benedetto XVI comunicava in maniera diversa. Era un professore, e parlava da professore. La sua comunicazione passava anche attraverso i libri, e il messaggio più grande era quello del Gesù di Nazaret, trilogia teologica e sistematica sulla figura di Gesù di Nazaret. Lo firmò con il suo nome secolare, lo lasciò al dibattito teologico, e chiesa a tutta la Chiesa un rinnovamento spirituale.
Non che Benedetto non abbia fatto libri intervista. Ne ha fatti, e hanno fatto discutere. Ma non era quello il centro della sua comunicazione. Benedetto XVI non parlava mai di sé, ma sempre di fede. Anche la sua autobiografia, pubblicata negli anni Novanta, raccontava la storia di un teologo che aveva sempre cercato Dio nella teologia, e aveva fatto della ragione un mezzo per comprendere la fede.
Con Papa Francesco, c’è una differenza di comunicazione. Papa Francesco parla di sé, di quello che pensa. Prende posizioni, si affida a persone di cui si fida. Non c’è molto del diplomaticamente corretto nelle sue parole, perché spesso le sue parole nascono da esperienze personali. In questo, agisce più come un capo di governo che come un Papa. Un Papa ha il filtro della fede per leggere la contemporaneità, e il filtro della Curia per comprendere come raccontarla. Ma Papa Francesco è il centro della comunicazione, e vive senza filtri particolari. O meglio, ci sono dei filtri, ma riguardano proprio il modo in cui le cose vengono comunicate.
C’è qualcosa di particolare, nel modo in cui Papa Francesco cura le sue decisioni e la sua comunicazione. Il Papa sa cambiare registro, prende posizioni improvvise, spiazza senza preavviso. Laddove viene associato ad alcune decisioni, dice qualcosa che permette di dire tutto e l’opposto di tutto. Il rischio, con Papa Francesco, resta duplice: quello della sovrainterpretazione o quello della sotto interpretazione.
Ma è perché forse è un Papa che, con questo vortice di comunicazione, in fondo non vuole far sapere qualcosa di sé, qualcosa di davvero profondo. Vero che parla della sua vita, dei suoi aneddoti, delle sue storie. L’idea, però, è che tutte queste storie non dicano davvero chi sia il Papa, non fanno scavare nel profondo.
È, Papa Francesco, colui che andava in Germania a vedere gli aerei che partivano per l’Argentina nostalgico di casa? O è colui che in undici anni di pontificato ha praticamente circumnavigato la sua patria con i viaggi, senza mai tornare, come s e non accusasse nostalgia? È, Papa Francesco, il Papa che dice che l’ideologia del gender è demoniaca? O è colui che dice che vanno accolti todos, todos, todos, e non lo fa solo con le azioni, e con gli incontri, ma anche accettando situazioni che invece sembrano proprio ammiccare all’ideologia del gender, come per esempio il Faccia a faccia messo in onda da Disney Plus?
A volte sembra la comunicazione del Papa prosegua a zig zag, seguendo più un istinto che una vera e propria linea. Eppure, sembra anche che Papa Francesco una linea ce l’abbia, ed è una linea anche questa politica: quella di mettere da parte il vecchio mondo, di rifare una Curia a sua immagine e somiglianza, una Curia che va avanti camminando, ma che alla fine non ha davvero una direzione.
Papa Francesco ha voluto abolire la corte, ma di fatto ne ha creata un’altra, che, come la sua comunicazione, non ha filtri. È una corte di amici, mutevole come sono mutevoli le situazioni, che rende tutto molto imprevedibile.
Resta la grande domanda: Papa Francesco è un animo politico prestato al sacerdozio, o un sacerdote che preso dalla voglia di riforma spirituale non sa guardare altro che i fini politici? E la comunicazione di Papa Francesco è la comunicazione di un Papa, un vescovo, un sacerdote, o è la comunicazione di un politico?
Si è parlato molto del peronismo di Papa Francesco. E forse non si capisce che il peronismo non è un populismo come lo possiamo interpretare oggi dall’Occidente, ma uno Stato d’animo profondo, insito nell’Argentina. È l’idea del capo che va dai descamisados e si toglie la camicia: sembra che dica di essere come loro, ma in realtà nel togliersi la camicia sottolinea di scendere al loro livello.
Ci sono dettagli che fanno notare questa voglia del Papa di mostrarsi popolare tra il popolo e umile tra gli umili, dalla scelta di non usare la mozzetta nella sua prima uscita dalla Loggia delle Benedizioni dopo l’elezione a quella, segnalata nei riti funebri, di essere esposto solo in talare bianca, e non nei paramenti, nella prima composizione del corpo dopo la morte.
Dopo undici anni di pontificato, la verità è che Papa Francesco è ancora un mistero per molti. Non si può decifrare in maniera semplice. La sua comunicazione, tuttavia, non ha niente di quella dei pontificati precedenti. Non è sicuramente quella di un uomo dell’istituzione. Forse è quella di un uomo che si fa istituzione. È una comunicazione che lascia in eredità polarizzazione, focalizzazione sulla persona del Papa, focalizzazione solo sui temi centrali del pontificato. È una comunicazione con una luce che si irradia dal centro, e mette in ombra o controluce tutto il resto. Il Papa delle periferie comunica, in fondo, soprattutto se stesso. Sarà possibile superare questo modello?
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