Qualche tempo fa, mi sono trovato a cenare al Collège des Bernardins a Parigi, nella sala dove Benedetto XVI tenne il suo famoso incontro con il mondo della cultura e proprio sul posto in cui era posta la sedia dove era il Papa nel 2008. Perché quella grande sala all’ingresso del Collège è stata ribaltata, e ora il ristorante è dal lato dove una volta in realtà si poteva tenere un discorso, come fece Benedetto XVI.
La circostanza, per quanto casuale, mi ha fatto pensare. Perché è incredibile come ormai si sia affievolito nel tempo il ricordo di Benedetto XVI. Come, ad appena due anni dalla morte, ci si sia dimenticati non tanto del Papa, o del Papa emerito, quanto della sua straordinaria figura, dei suoi insegnamenti, di ciò che ha lasciato come eredità alla Chiesa.
Se nel Collège des Bernardins c’è stata semplicemente una ristrutturazione, a undici anni dalla fine del suo pontificato e a due anni dalla morte sembra semplicemente che Benedetto XVI sia stato di passaggio.
Ma Benedetto XVI è stato tutto, ma non è stato di passaggio. Semplicemente, la sua grande “rivoluzione tranquilla” era troppo tranquilla per essere compresa. Perché Benedetto XVI, con la sua presenza, la sua pacatezza, il suo modo di essere, ma con la sua brillantezza, lucidità e onestà intellettuale, chiedeva a tutti un passo ulteriore. Non bastava avere semplicemente fede, e non bastava avere semplicemente capacità. Ci voleva una fede nutrita con la ragione, mista con il talento, e con uno sguardo sempre teso a Dio per poter davvero comprendere e vivere quello che il Papa, e prima ancora il professore, chiedeva di vivere.
Era, appunto, il quaerere Deum, il cercare Dio, di cui Benedetto XVI parlava proprio a Parigi nel 2008. Una ricerca di Dio che portò, in maniera straordinaria, a costruire la civiltà occidentale. Una ricerca di Dio che ha sempre nutrito anche la vita di Benedetto XVI.
Ne ho parlato in una piccola biografia che ho scritto per il libro “Le parole del Giubileo” (Edizioni Frate Indovino), una collettanea in cui ho esplorato il rapporto tra Benedetto XVI e la fede andando a rileggere la sua biografia. Ed è un rapporto profondo, che non si è mai sopito, e che ha resistito alla prova del tempo.
Joseph Ratzinger non perde la fede, la accresce. Non la perde sotto il nazismo, non la perde quando la prima stesura della sua tesi di dottorato viene rifiutata, non la perde neppure quando si trova a fare il Papa e chiede di non scappare per paura davanti ai lupi. Joseph Ratzinger, piuttosto, dà una ragione alla sua fede, che resta lì, incrollabile.
Tutto è oggetto di studio, ma non per una volontà di primeggiare o di dare sfoggio di cultura. È oggetto di studio perché tutto va capito e vissuto. Leggete le Omelie di Pentling (https://www.vaticanum.com/it/benedetto-xvi-joseph-ratzinger-le-omelie-di-pentling) per capire cosa intendo. Benedetto XVI studia, comprende, rende tutto semplice perché lo assimila e vive e poi lo ripropone, con una densità inaudita e con parole non complesse e multistrato al punto che niente può essere dato per scontato, e tutto deve essere riflettuto ancora due, tre, quattro volte per comprendere fino in fondo la profondità del pensiero.
Perché, allora, si dimentica Benedetto XVI? Perché in un mondo in cui tutto deve essere raggiunto subito, in cui si bada ai risultati senza però pensare alla costruzione dei risultati, l’approccio di Benedetto XVI mette in crisi. Benedetto XVI vuole che tutti facciano quel passo ulteriore, vadano oltre loro stessi, e riescano a dare una ragione profonda non solo alla loro fede, ma al motivo stesso della loro fede. Benedetto XVI chiede a tutti di essere ciò che sono, e di esserlo consapevolmente.
Non è facile, certo, e ovviamente dimenticare è l’antidoto migliore per non rendersi conto della propria piccolezza. Ma dimenticare non eviterà che la presenza, la storia, la vita di Benedetto XVI non ti pongano una domanda, e non ti costringano a guardare altrove, a dare un senso ulteriore alla vita.
Benedetto XVI ama sentirsi piccolo e da piccolo comprendere e spiegare, vive di umiltà nonostante la sua brillantezza, ma tutto riconduce a quella scintilla della fede, che si è concretizzata nelle sue ultime parole: “Gesù, ti amo”.
Quale, allora, l’eredità del pontificato? Al di là degli atti di governo, quelli sempre discutibili perché semplicemente umani, si deve rendere merito al pontificato di Benedetto XVI di aver sempre parlato con profondità, senza mai una volta concedere alla semplificazione, chiedendo a tutti una vera e propria conversione spirituale.
Benedetto XVI lascia un lavoro incompiuto, da terminare, ma non lascia un lavoro a metà. Lascia una formazione, per chi ha vissuto con lui, che sarà fondamentale negli anni a venire.
Ovvio che si cerchi di dimenticarlo. Come si mette da parte il maestro considerato difficile da seguire, così si fa con Benedetto XVI. E, probabilmente, è solo una incomprensione, che si unisce al dato umano: il Papa emerito non è più tra noi, non c’è più nessuno che possa guardare davvero a pregi e limiti del lavoro svolto.
Benedetto XVI ha indicato una strada, tuttavia, e sarà quella la strada da seguire. Forse ci vorrà un altro pontificato, e forse un altro ancora, per comprendere che Joseph Ratzinger non voleva cambiare la Chiesa e poi ha cambiato idea. Joseph Ratzinger voleva la conversione dei peccatori. Era, in questo, straordinariamente pastore.
Manchi, Benedetto!
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