Mi sono ritrovato a parlare di Benny Lai in Ungheria, quando sono stato chiamato a tenere un seminario su vaticano e vaticanismo al Collegio Episcopale di Studi Religiosi a Pécs. Perché, alla fine, non si può parlare di vaticanismo e vaticano senza passare attraverso il suo lavoro, che era fatto di amore per la storia minuta, dettagli buttati lì, in maniera agile, nei pezzi, e grande e acuto spirito di osservazione.
Sono passati undici anni dalla morte di Benny Lai, e viene da pensare che Benny è nato al cielo nel momento in cui il pontificato di Papa Francesco appena iniziava. Undici anni, quanti il pontificato di Papa Francesco, quasi a sintetizzare una cesura tra il mondo di prima e il mondo di adesso, tra la prima generazione dei vaticanisti, di cui Benny era parte, e la terza generazione di vaticanisti, che è quella mia, arrivando oggi fino alla quarta, di quelli che si sono formati in questi ultimi undici anni appunto.
Il vaticanismo di Benny Lai era figlio del Concilio Vaticano II, ma metteva le sue radici ben salde in un terreno preparato nel Dopoguerra da Pio XII e da Montini come sostituto della Segreteria di Stato, che era poi quello che firmava gli accreditamenti presso la Sala Stampa dell’Osservatore Romano.
Il vaticanismo della mia generazione è quello forgiatosi con Benedetto XVI, ma che aveva la sua origine nel grande pontificato di San Giovanni Paolo II, perché per la mia generazione non c’era altro Papa che Giovanni Paolo II. Nel mezzo, c’è il vaticanismo del post-concilio, che ha avuto il suo culmine con Giovanni Paolo II (sì, sempre lui, ma sono 27 anni di pontificato…).
E dopo c’è il vaticanismo che si è formato con questo pontificato, con Papa Francesco, le sue “encicliche dei gesti” e i suoi documenti reali, che non sempre sono encicliche, più una serie di piccoli terremoti che alcuni chiamano rivoluzione e che altri cercano di raccontare come tali vestendosi da guardiani della rivoluzione.
Le epoche storiche ci influenzano e influenzano il modo in cui guardiamo al mondo. E così, mi ritrovo a pensare che la terza generazione di vaticanisti, alla scuola di Benedetto XVI, era per forza di cose analitica. Doveva pensare, perché Benedetto XVI costringeva a pensare. Doveva andare fuori dagli schemi quando si trattava di teologia e pastorale, perché Benedetto XVI spiazzava, non aveva paura di dire quello che voleva dire, e non aveva paura perché lo faceva con una logica stringente, consequenziale, con discorsi costruiti come cattedrali in cui ogni muro era muro portante e ogni pietra era dettaglio infinitesimale e necessario. Benedetto XVI costringeva ad andare oltre la sintesi.
Ma cosa pensare della generazione di Benny Lai? E perché Benny Lai era così differente?
L’epoca storica, ovviamente, influisce. Trovatevi voi di fronte all’ignoto, perché tale era il Vaticano per i giornalisti al tempo in cui Benny Lai aveva cominciato ad occuparsene. Provate a farlo dopo una grande guerra, con un Papa come Pio XII che non aveva lesinato interventi, e che dopo la guerra produrrà discorsi, documenti, interventi che avranno un peso non solo nella Chiesa (e non è un caso che le citazioni dei documenti conciliari siano in gran parte riferiti a Pio XII) ma anche nel mondo che si andava formando. E provate a trovarvi di fronte ad una Chiesa che è punto di riferimento e perseguitata al tempo stesso. Provatelo a fare parlando giorno dopo giorno con i protagonisti di quel mondo, cercando di entrare nel loro linguaggio e nella loro comprensione delle cose.
Benny Lai era curioso di natura e impertinente di professione, e questo, unito all’ingenuità del neofita, non può che aiutare. Si trovava, tuttavia, in un tempo eccezionale, in cui ogni cosa aveva un senso specifico e profondo, radicato e raccontato dalla storia, e in cui era facile parlare con coloro che questa storia la stavano scrivendo. I giornalisti accreditati come lui erano pochissimi, entravano ed uscivano dal Vaticano senza problemi. E ci si trovava di fronte a personaggi straordinari, raccontati in parte da Benny Lai nel libro Il mio Vaticano.
Poi, venne Giovanni XXIII, il Concilio, Paolo VI e l’interesse internazionale per le cose della Chiesa. Venne la necessità di raccontare simboli, gesti, dibattiti e di valutarne l’impatto. Ma questo è un bene per un giornalista in prima linea, perché è costretto a pensare, a discernere, a guardare al di là delle fonti.
Alla curiosità, l’impertinenza e l’ingenuità (ingenuità buona, non mi fraintendete), Benny Lai aggiungeva un fiuto straordinario per comprendere dove erano le notizie. Era costretto alla sintesi dal mezzo – non c’era internet, c’erano le pagine dei giornali, e si doveva scrivere secondo lo spazio – ed è per questo che finì a scrivere libri, e a scriverli con note a pie’ di pagina lunghissime, come quelli di un vecchio professore. Ma quelle note raccontavano tutti i sottintesi, gli scenari, le comprensioni che lui recepiva e percepiva. La nota a pie’ di pagina diventava, per Benny, il flusso di coscienza che lui viveva nel momento in cui parlava con qualcuno.
Benny Lai, però, ebbe un altro pregio. Non si fece catturare dal sensazionalismo, né dal gioco delle parti. C’era chi gli stava più simpatico, era cresciuto alla scuola del Cardinale Siri, in uno di quelli straordinari incontri casuali che diventano oro puro nella vita di ciascuno, e ovviamente aveva le sue idee sulla Chiesa e su dove sarebbe dovuta andare od essere. Non si metteva, tuttavia, ad usare le sue capacità e il suo peso per propagandare questa o quella idea. Era un giornalista vecchio stile, cercava i fatti, dava opinioni sui fatti, ma manteneva sempre un certo distacco.
In fondo, la sua curiosità era fatta di diffidenza, e la sua impertinenza di una sorta di timidezza nascosta.
Tutto è cambiato, oggi. Se non altro perché i mezzi sono più veloci, pervasivi, personalizzati e polarizzati, e i giornalisti sono tentati dal gioco delle parti in una ansia di visibilità che è vita, perché è anche lavoro. E tutto è cambiato perché un po’ si è perso il senso della storia, e perché perdendo il senso della storia ci siamo abituati a raccontare la Chiesa attraverso i personaggi, e non i personaggi all’interno della Chiesa.
Sono passati undici anni, e c’è una nuova generazione di vaticanisti. E non si può fare a meno di pensare che, nel momento in cui Benny è andato via, già tutto stava cambiando. Come si può fare a mantenerne intatta l’eredità?
Cercando, appunto, di vivere con un certo disincanto questo mestiere. Di approcciarsi a tutto con la curiosità del neofita, anche quando si è molto esperti. Di concedersi la possibilità di sbagliare, e quella di non essere troppo pubblici, ma piuttosto ben pubblicati.
Benny Lai era l’esponente di un vaticanismo sottovoce che già nei tempi del Concilio Vaticano II era diventato merce rara. Era il frutto del suo tempo, ma era anche frutto della sua storia e del suo essere. Oggi, si è chiamati ad essere qualcosa di più del frutto del nostro tempo, perché il nostro tempo non basta più a definire il mondo. La storia di oggi porta a tutti una direzione. L’esempio di Benny Lai potrebbe aiutarci ad andare in direzione ostinata e contraria.
E, mentre scrivo, mi rendo conto che quando parlavo di Benny Lai in Ungheria, raccontavo anche come lui avesse “inventato” il termine vaticanista per descrivere il lavoro suo e dei suoi colleghi, ma come poi avesse preferito definirsi “vaticanologo”. Forse sta lì il grande salto di qualità: passare dall’essere vaticanisti a vaticanologi, come aveva fatto Benny Lai.
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