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domenica 31 dicembre 2023

Benedetto XVI, un anno dopo

Ho scritto molte analisi su Benedetto XVI, sul suo pontificato e sulla sua vita, ho seguito con passione e conosciuto personalmente molti membri del Ratzinger Schuelerkreis, e ho almeno un altro progetto professionale su Benedetto XVI in uscita alla fine dell’anno prossimo per il Giubileo. Questo, però, è un post molto personale, e va preso come tale. Quindi, perdonatemi se il cronista indulge nella memoria, ma è un qualcosa che vale la pena raccontare secondo me.

Tra i regali più straordinari che abbia mai avuto per Natale, c’è stata una opportunità di assistere ad una Messa celebrata da Benedetto XVI nel Monastero Mater Ecclesiae, quando era da pochi mesi Papa emerito. L’arcivescovo Georg Gaenswein, suo segretario particolare, gestiva con sapienza le visite, perché, da quando il Papa emerito risiedeva in Vaticano, tutti volevano vederlo, salutarlo, stare con lui. Era una presenza silenziosa, mai ingombrante, sempre rimasta nell’ombra, eppure viva, cercata, amata. Quello di Benedetto XVI era un carisma silenzioso.

 

Di quel carisma ero stato conquistato anche io, che pure ero della generazione di Giovanni Paolo II e mi ero formato sui testi più critici sul pontificato, con tanti miti sulla fede, la teologia, la liturgia e persino il ruolo della Chiesa nel mondo che erano destinati a cadere. Io avevo identificato in Giovanni Paolo II il Papa della generazione Giovanni Paolo, e avevo visto di lui il pontificato dei media, non quello reale.

 

Avevo visto la sua sofferenza finale, il modo in cui i media lo raccontavano, e non certo la sua battaglia, fortissima, contro le derive di Chiesa e società. Ai miei occhi, Joseph Ratzinger sarebbe stato colui che avrebbe portato la Chiesa a fare un passo indietro, e in fondo dovevo pensarla così, perché gli ultimi anni di Giovanni Paolo II c’era una pubblicistica che portava ad enfatizzare le iniziative più “sociali” del Papa polacco e a mettere da parte il suo lavoro per preservare l’unità della fede.

 

Ero pieno di pregiudizi, giovane, incapace di avere una lettura più profonda delle cose, incapace di riconoscere i diversi punti di vista. Eppure, un passo alla volta, cambiai idea. Fui conquistato da Benedetto XVI.

 

Ne fui conquistato per la prima volta a Colonia, alla Giornata Mondiale della Gioventù 2005, quando mi trovai lì per caso, perché pensavo sarei andato all’ultima di Giovanni Paolo II. E mi trovai conquistato di fronte alla scelta di mettere tutti in adorazione del Santissimo, di fronte alla messa in guardia della fede fai da te. Mi trovai conquistato da una omelia senza fronzoli, centrata sulla Parola di Dio. Ero un ragazzo che cercava di capire. Benedetto XVI dava delle risposte. Ed era questo quello che contava.

 

Da allora, seguire Benedetto XVI è stato un crescendo, perché più cercavo di comprendere i suoi testi, le sue scelte, e più trovavo una logica concreta in quelle scelte. Logica, però, che aveva sempre al centro la Parola di Dio, una logica piena di fede. Tutto partiva sempre dalla meditazione del Vangelo, e non doveva sorprendermi che, in effetti, il Gesù di Nazaret è stata l’ultima grande opera teologica di Benedetto XVI – e una delle poche veramente sistematiche. Come non doveva sorprendere che Benedetto XVI ha scritto poche opere sistematiche, perché scriveva rispondendo a domande, non certo volendo imporre una visione del mondo.

 

Mi sono trovato davanti ad un uomo che metteva sempre Cristo e la Chiesa davanti a se stesso, e questo mi ha permesso anche di accettare e comprendere la sua rinuncia, che pure ci aveva lasciati sgomenti. E mi ha permesso di capire che, in fondo, Benedetto XVI non lo avevamo capito nemmeno noi che lo studiavamo, perché mai avremmo immaginato una scelta così prorompente, rivoluzionaria, eppure allo stesso tempo in perfetta continuità e coerenza con la persona di Benedetto XVI e con le sue scelte di governo.

 

Serviva la premessa lunga per lasciar comprendere con quale emozione, il 22 dicembre 2013, ci siamo approcciati con un piccolo gruppo di colleghi a Porta Sant’Anna per recarci al Mater Ecclesiae per assistere ad una Messa privata che il Papa emerito officiava nella piccola cappella del monastero. Era una occasione unica.

 

Benedetto XVI preparava le omelie su un piccolo quaderno, scrivendo a matita. Ma poi parlava a braccio, con grande consequenzialità e linearità. Ogni passaggio era meditato, e – per quanto il linguaggio fosse semplice – i concetti si inerpicavano nel discorso come gargoyle sulle guglie di Notre Dame a Parigi. E ascoltarlo era semplicemente bellissimo.  

 

Seppi poi che quelle omelie erano registrate e trascritte con amore dalle Memores. Prima di Natale, è arrivato l’annuncio che quelle omelie saranno pubblicate in una raccolta curata dall’arcivescovo Gaenswein, sotto gli auspici della Fondazione Ratzinger, ed edita dalla Libreria Editrice Vaticana.

 

Ma il regalo di Natale è che l’anteprima diffusa è stata proprio quella dell’omelia del 22 dicembre 2013. L’omelia che avevo ascoltato e della quale mi era rimasto soprattutto un passaggio: quella di un San Giuseppe “pratico”, scelto da Dio proprio per questa pragmaticità.  E, basandomi su questo, scrissi il pezzo inaugurale di ACI Stampa proprio ricordando questa omelia, senza rivelare che l’avevo sentita di persona, e costruendoci intorno sul rapporto tra Benedetto XVI e il suo santo.

 

Ora, invece, posso rileggere quella omelia, risentendo il tono di voce, ripercorrendo pezzi che mi ero perso per strada, quando l’emozione aveva colpito la memoria. E lo posso rileggere anche alla luce di una certa ricerca che ho fatto su San Giuseppe nel 2019, quando ne studiai la figura e l’importanza per la Chiesa.

 

Nella sua omelia, Benedetto XVI definì tre caratteristiche di San Giuseppe.

 

La prima era che Giuseppe era un uomo giusto, e questo, spiega, si comprende solo se si comprende la differenza tra Antico e Nuovo Testamento. Se nel Nuovo Testamento entra l’atto fondamentale di un cristiano, e cioè l’incontro con Cristo, nell’Antico Testamento “Cristo era ancora futuro, e quindi al massimo era andare incontro a Cristo, ma non era un vero incontro come tale”. Benedetto XVI aveva in fondo spiegato, nel terzo volume del Gesù di Nazareth, che “le parole dei profeti sono come vagabonde” proprio finché non arriva Gesù.

 

Giuseppe è giusto perché in cammino verso Cristo, spiegò Benedetto, considerando che essere giusti riguarda l’osservanza della Torah, una legge, che educa l’uomo secondo Dio.

 

Ma in che modo è giusto Giuseppe? Benedetto spiega che “il pericolo è che se la parola di Dio è sostanzialmente legge, va considerata come una somma di prescrizioni e di divieti, un pacchetto di norme, e l’atteggiamento dovrebbe quindi essere di osservare le norme e così essere corretti. Ma se la religione è così, è solo questo, non nasce la relazione personale con Dio, e l’uomo rimane in se stesso, cerca di perfezionarsi, di essere un perfetto”.

 

Tutto diventa così “impersonale, solo un fare, l’uomo diventa duro e anche amare” e non può “amare questo Dio”. C’è, in queste parole, il ricordo dei grandi discorsi del viaggio di Benedetto XVI in Germania nel 2011, con i suoi grandi discorsi sulla demondanizzazione, sulla necessità della Chiesa di spogliarsi dalle idee “politiche”, e sulla ricerca di un Dio misericordioso, che in fondo era anche di Lutero. Tutti quei discorsi si ritrovavano condensati in una omelia che era per pochi intimi, eppure densa.

 

Nell’omelia, Benedetto XVI andò oltre, sottolineò che questo crea una amarezza, perché “la sola osservanza della legge diventa impersonale, solo un fare, l’uomo diventa duro e anche amaro. Alla fine non può amare questo Dio, che si presenta solo con norme e talvolta anche con minacce. Questo è il pericolo”.

 

Ma le norme possono essere viste – spiegò Benedetto XVI – “come espressione della volontà di Dio, nella quale Dio parla con me, io parlo con Lui. Entrando in questa legge entro in dialogo con Dio, imparo il volto di Dio, comincio a vedere Dio e così sono in cammino verso la parola di Dio in persona, verso Cristo”.

 

Così era per San Giuseppe, per il quale la legge “non è semplice osservanza di norme, ma si presenta come una parola di amore, un invito al dialogo, e la vita secondo la parola è entrare in questo dialogo e trovare dietro le norme e nelle norme l’amore di Dio, capire che tutte queste norme non valgono per se stesse, ma sono regole dell’amore, servono perché l’amore cresca in me. Così si capisce che finalmente tutta la legge è solo amore di Dio e del prossimo. Trovato questo si è osservata tutta la legge”.

 

E San Giuseppe – aggiunse Benedetto XVI – è un vero giusto, in lui “l’Antico Testamento diventa nuovo” perché “nelle parole cerca Dio, la persona, cerca il Suo amore, e tutta l’osservanza è vita nell’amore”, e lo si notava nel Vangelo che veniva commentato, quando Giuseppe si trova Maria, della quale conosceva “la sua bellezza interiore, la straordinaria purezza del suo cuore”, e dalla quale è deluso per la situazione che si è creata. Eppure, sceglie prendere la strada del ripudio privato, una strada “di amore nella giustizia, della giustizia nell’amore”, ed è questo parte del percorso verso Gesù, perché “tutta la legge è collocata nell’amore, è espressione dell’amore e va adempiuta entrando nella logica dell’amore”.

 

Benedetto XVI mise in guardia dalla tentazione di considerare la religione cristiana come “un pacchetto di norme, di divieti e di norme positive, di prescrizioni”, un pericolo che noi siamo chiamati a superare e “trovare la Persona e, nell’amore della Persona, la strada di vita e la gioia della fede. Essere giusti vuol dire trovare questa strada e così anche noi in realtà siamo sempre di nuovo in cammino dall’Antico al Nuovo Testamento nella ricerca della Persona, del volto di Dio in Cristo”.

 

Ed è questo, per Benedetto XVI, l’Avvento, ovvero “uscire dalla pura norma verso l’incontro dell’amore, uscire dall’Antico Testamento che diventa nuovo”.

 

Il secondo elemento di Giuseppe, spiegò poi Benedetto XVI, era “una sensibilità interiore per Dio, una capacità di percepire la voce di Dio, un dono di discernimento, che sa discernere tra sogni che sono sogni e un vero incontro con Dio”. Ma Giuseppe poteva discernere solo perché “era già in cammino”. Una sensibilità che “è importante anche per noi”, perché Dio “ha i suoi modi per parlare anche con noi”.

 

Infine, il terzo punto, che è quello che più mi colpì: che l’obbedienza di San Giuseppe era fede e poi fatto. “Giuseppe – spiegò Benedetto XVI - non era un sognatore, anche se il sogno era la porta con cui Dio era entrato nella sua vita. Era un uomo pratico e sobrio, un uomo di decisione, capace di organizzare. Non era facile – penso – trovare a Betlemme, perché non c’era posto nelle case, la stalla come luogo discreto e protetto e, nonostante la povertà, degno per la nascita del Salvatore. Organizzare la fuga in Egitto, trovare ogni giorno da dormire, da vivere per lungo tempo: questo esigeva un uomo pratico con senso di azione, con la capacità di rispondere alle sfide, di trovare le possibilità di sopravvivere. E poi al ritorno, la decisione di ritornare a Nazareth, di fissare qui la patria del Figlio di Dio, anche questo mostra che era un uomo pratico, che da falegname ha vissuto e reso possibile la vita di ogni giorno”.

 

Da qui, concluse Benedetto XVI, “san Giuseppe ci invita da una parte a questo cammino interiore nella parola di Dio, per essere sempre più vicini alla persona al Signore, ma nello stesso tempo ci invita ad una vita sobria, al lavoro, al servizio di ogni giorno per fare il nostro dovere nel grande mosaico della storia”.

 

Molto da riflettere, per una semplice omelia. Ma così era Benedetto XVI. E sì, questa omelia è stata per me un bel regalo di Natale, un bel ritorno al passato. Ho rivisto Benedetto XVI altre volte dopo quel giorno, sempre brevemente. Ma il ricordo di quell’omelia su “San Giuseppe il praticone”, come la rinominammo simpaticamente, mi era rimasto impresso. Se non altro perché mi aveva raccontato anche un aspetto pragmatico di Benedetto XVI che non avevo mai riconosciuto. E che forse, però, avrei dovuto riconoscere nel sentire gli aneddoti che ogni tanto mi venivano raccontati.

 

In fondo, Benedetto XVI è per noi giornalisti un esempio. L’esempio di doversi saper scrollare di dosso dei pregiudizi per conoscere e riconoscere l’uomo, la persona, il pensiero. L’esempio di non fermarsi mai all’apparenza e all’opinione pubblicata. Ci sono persone che erano con Benedetto XVI solo perché era Papa, e che ora hanno cambiato drasticamente opinione perché c’è un altro Papa. Ma non erano coloro che hanno saputo apprezzare Benedetto XVI, perché non apprezzano il pensiero. Pensano alla realtà come forma di potere, e gestiscono la comunicazione come servizio di una forma di potere.

 

Niente di più lontano da Benedetto XVI. Al servizio della verità, alla ricerca della verità, è il solo Papa della storia moderna ad avere un pensiero che aveva un senso e colpiva prima della sua elezione a pontefice e che ha continuato ad avere un impatto dopo la rinuncia. E vedremo quanto altro impatto avrà il suo pensiero, quando tutte le omelie saranno pubblicate.

 

 

 

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