In questi ultimi giorni ho ripreso in mano “I miei giorni con Giovanni Paolo II”, di Joaquin Navarro-Valls. Per chi non lo sapesse, Navarro-Valls è stato lo storico portavoce di San Giovanni Paolo II, il mitologico direttore della Sala Stampa della Santa Sede dal 1984 al 2006, l’uomo che in qualche modo rivoluzionò la comunicazione vaticana. A lui è dedicata anche una sala nella Sala Stampa della Santa Sede, con una scelta particolarmente significativa.
Io non sono della generazione che si è formata sotto Navarro-Valls, né della generazione che lo ha preceduto, ma della generazione successiva, quella cosiddetta “di mezzo”, sospesa tra il mondo dei vecchi vaticanisti e del vecchio giornalismo e il nuovo mondo dell’informazione digitale e del vaticanismo iper-polarizzato. Sono parte di una generazione ponte, e il compito delle generazioni come la mia è complicato, perché devono traghettarsi nel mondo nuovo senza buttare via tutto il mondo vecchio. Per vivere integri, devono operare senza cesure con il passato e senza però chiudersi al futuro. Devono avere equilibrio e umiltà epistemologica più di ogni altra generazione.
È questa ricerca di equilibrio che mi porta, spesso, a rileggere le cose del passato, cercando di capire il presente e di guardare al futuro. Per questo, è stato per me quasi naturale in queste ultime due settimane di riflessione riprendere le memorie di Navarro-Valls.
Si potrebbero dire tante cose su quei diari, che poi sono appunti nemmeno troppo regolari, ma acuti, precisi, sostanziali che rappresentano un pezzo di storia della Chiesa. Ma c’è una cosa che mi ha colpito particolarmente, sin dall’inizio: Navarro-Valls non era solo un professionista, era un uomo di fede. Era, da prima che diventasse direttore della Sala Stampa della Santa Sede, un cristiano impegnato, immerso nella preghiera e nel mistero.
Questo emerge in molti dettagli delle sue memorie, nella delicatezza con cui si approccia ai colleghi, nel modo in cui dice di pregare per delle persone specifiche. Ma c’è un qualcosa che salta agli occhi sin dall’inizio.
Navarro-Valls si rende subito conto che il giornalismo moderno – e parliamo degli Anni Ottanta – non è capace di guardare alla logica della Chiesa, a quella che chiama dalle prime pagine “la logica della redenzione”. Non c’è spazio per la redenzione in un giornalismo che è fatto di bianchi e di neri, che politicizza la Chiesa e sociologizza il fatto religioso, che ha messo da parte l’umiltà epistemologica per definire tutto secondo le stesse categorie.
Il giornalismo ha i suoi linguaggi, la sua visione del mondo. Ma in quelle poche note, in quelle brevi osservazioni, Navarro-Valls sfida i linguaggi del giornalismo perché si rende conto che ha a che fare con Qualcosa di più grande. Persino, biasima se stesso quando cede a quelle logiche, quando inventerà a un certo punto un incontro del Papa che non c’è mai stato, defaillance che resta sempre come uno degli esempi della sua carriera più ricordati. Eppure, la stessa carriera di Navarro-Valls non si può definire sulla base di una contingenza.
Mi chiedo oggi cosa significhi sfidare il linguaggio del giornalismo per chi, come fa, si occupa di informazione religiosa e di analisi vaticana, e per chi, come me, lo fa da un punto di vista che definisce cattolico. Il patrono dei giornalisti è San Francesco di Sales, che era un vescovo e soprattutto un grande predicatore ai tempi della Controriforma. Perché Francesco di Sales è patrono dei giornalisti? Per il modo innovativo e straordinario in cui comunicava il Vangelo nella Svizzera ormai riformata e calvinista, con dei piccoli opuscoli che distribuiva porta a porta in una iniziativa che oggi chiameremmo free press.
Straordinario, non è vero?
Qualche hanno fa, ho provato a tracciare un profilo di alcuni santi giornalisti (trovate le quattro brevi biografie qui: https://www.acistampa.com/tag/santi-giornalisti). Oltre San Francesco di Sales, individuai il domenicano Tito Brandsma, il giornalista Manuel Lozano Garrido, e il francescano Massimiliano Kolbe.
Di padre Kolbe, infatti, viene spesso dimenticata la straordinaria vocazione giornalistica, che ne faceva uno straordinario evangelizzatore. Lozano, che era disabile, scrisse un articolo che divenne parte dell’Ufficio delle Letture. Brandsma era un editore / giornalista, pioniere della stampa cattolica che fu ucciso a Dachau a causa del suo amore della verità.
Cosa metteva in comune questi santi? Non la professionalità, che pure era straordinaria, innovativa, avanti con i tempi. Ma quella non basta per poter raccontare, come direbbe Navarro-Valls, la “logica della redenzione”. Li accomunava il fatto che tutti loro credevano fortemente in quello che facevano. Sapevano di avere una missione, e di avere una missione più grande di loro. Vi si dedicavano con autenticità, e questo li rendeva credibili.
Noi oggi facciamo molti discorsi tecnici sull’essere giornalista, e anche Papa Francesco, ricevendo l’Associazione Internazionale di Giornalisti Accreditati presso il Vaticano (AIGAV) ha parlato di una “delicatezza” nel trattare gli scandali, ringraziando. Ma la delicatezza non può funzionare se è fine a se stessa, se è frutto di un calcolo che prevede il non dire per non essere sanzionati, il non dire per evitare problemi, il non dire per ottenere qualche vantaggio dopo. La delicatezza funziona se fatta per amore e con amore, se le considerazioni che portano a questa delicatezza sono scevre dall’idea di vantaggi personali, ma sono a favore della veridicità e della notizia.
Spesso, oggi, viene scambiata una critica per un attacco personale, un ragionamento ampio per un atto di disubbidienza, un rilievo critico per un atto di lesa maestà. Eppure, se davvero sappiamo essere autentici e interiormente liberi, sappiamo che una critica non è un atto di disubbidienza o di mancato amore, e che non sempre le critiche sono frutto di pregiudizi.
Esageriamo con la verbalizzazione, tanto che abbiamo giornalisti che diventano interpreti del pensiero del Papa e giudicano persino alcuni cardinali degni di scomunica, altri che diventano il megafono di questa o di quella fazione, altri ancora che non resistono ad essere parte del gioco o a voler mostrare di essere parte del gioco.
Ma tutto questo c’è soprattutto perché viviamo il nostro essere giornalisti come una mera espressione tecnica, un modo di esprimere la nostra professionalità. E sganciamo la professionalità dalla vita reale, come sganciamo i giudizi sul mondo dalla vita reale. Stiamo lì ad accettare quello che succede, anche un processo ingiusto, perché magari lo vediamo come uno straordinario atto politico.
Mentre ci affanniamo a comprendere il senso dell’intelligenza artificiale e come questa cambierà il nostro modo di comunicare, mentre guardiamo alla sfida delle fake news, non ci rendiamo conto che a creare le fake news è spesso quella che i greci chiamavano hybris, la tracotanza, la superbia di sapere essere al di sopra di ogni parte che ci fa, di fatto, essere di parte.
La logica della redenzione è proprio il contrario di quella hybris. Siamo chiamati ad un giornalismo di nuovo tipo, approfondito, credibile, con i suoi errori e le sue imprecisioni che sono umane, ma anche con quell’anticipo di simpatia che ci permette di leggere i fatti senza tracotanza. Siamo chiamati a formare una generazione nuova.
La deriva tecnocratica che viviamo, tuttavia, ha colpito anche la nostra professione. E dunque, per cercare di essere giornalisti, ma soprattutto uomini e donne, migliori, abbiamo bisogno proprio di abbracciare la logica della redenzione. Anche se non ci crediamo di primo acchito, come esercizio di fede. Perché quella logica ci permette, perlomeno, di allargare il punto di vista. Di comprendere che non tutto è qui ed ora. Di sapere che, in fondo, fare informazione, e fare informazione nel mondo cattolico, non è una cosa banale.
Forse tutte queste storie ci insegnano che dobbiamo essere monaci dell’informazione, alla maniera dei monaci che costruirono la civiltà europea partendo, come raccontò Benedetto XVI al College de Bernardins, da un solo obiettivo: quaerere Deum, cercare Dio. In un mondo secolarizzato, questi monaci dell’informazione sono chiamati prima di tutto a costruire le nuove cattedrali moderne. Cattedrali della cultura, laddove la cultura cattolica sembra aver ceduto il passo alle nuove magnifiche sorti e progressive. Queste sorti, però, non guardano all’essere umano, non hanno umanità. L’umanità che, alla fine, cerca redenzione.
Trovare il monaco che è in noi. Forse è questa la sfida che abbiamo per il prossimo futuro, per comprenderci e comprendere meglio.
Auguri giornalisti!
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