Da un anno, i giornalisti in Sala Stampa della Santa Sede siedono, si riuniscono e scrivono nella “Sala Navarro-Valls”. L’inaugurazione della nuova intitolazione della sala avvenne a margine della presentazione del libro El Portavoz, scritto dal fratello Rafael, in una giornata vaticana particolarmente intensa, e significativamente il primo anniversario si è festeggiato nella Giornata Mondiale delle Comunicazioni sociali.
Non ho mai lavorato nella Sala Stampa diretta dal Joaquin Navarro-Valls. Ne sentivo il peso del mito, ogni tanto mi capitava di incrociarlo, ma il modo in cui lui lavorava l’ho dovuto necessariamente ricostruire. Forse, oggi, Navarro-Valls agirebbe in modo diverso. Forse, oggi Navarro-Valls sarebbe costretto a destreggiarsi in tutt’altro modo, perché i tempi sono cambiati e anche il Papa. Ma c’era bisogno di Navarro-Valls per quella epoca storica, caratterizzata da un grande Papa santo e una enorme esplosione mediatica.
Navarro-Valls ha letteralmente inventato il ruolo di portavoce vaticano. Arrivava a guidare la comunicazione della Santa Sede nel 1984, quando già da sei anni Giovanni Paolo II aveva stravolto tutti gli schemi della comunicazione e della percezione della Chiesa. Si trattava di mettere ordine, e di farlo professionalmente. Si trattava di non essere invasi dall’onda mediatica, che paradossalmente in quegli anni non era nemmeno troppo favorevole a Giovanni Paolo II.
C’è da dire che Navarro-Valls ha inventato il ruolo del portavoce perché questo gli si è presentato come un abito che calza alla perfezione ad una sola persona, e questa persona era lui. Navarro-Valls ha potuto essere el portavoz perché c’era Giovanni Paolo II, come è vero che Giovanni Paolo II poteva avere un portavoce solo in Joaquin Navarro-Valls.
In tempi di modelli di comunicazione, discettazioni sulle fake news, discussioni su come diffondere il brand del Papa da parte della Santa Sede, una figura come quella di Navarro-Valls può apparire anacronistica. Eppure aveva tutto quello di cui si aveva bisogno.
Prima di tutto, Navarro-Valls aveva la comprensione dei gesti e i significati. Forse è anche colpa sua se, adesso, ogni gesto del Papa viene ammantato di un significato ulteriore, e contornato da interpretazioni e sovrainterpretazioni. Ma è certo che Navarro-Valls non lo faceva con malizia. C’era, in quella Santa Sede, l’idea del potere dei gesti e dei segni. Non si cercava un gesto per fare significato, si sceglieva un gesto per il suo significato.
Si potrebbe dire che è semplice lavorare così, ma non lo è affatto. I significati della Chiesa vanno compresi e spiegati, e a tutto va dato un senso. Navarro-Valls lo faceva con grazia e con cultura. Credeva così tanto nel lavoro della Santa Sede che fu chiamato persino a partecipare alle delegazioni alle Conferenze Internazionali delle Nazioni Unite al Cairo (1994), Copenaghen (1995), Pechino (1995) e Istanbul (1996). Non era lì per comunicare l’evento, era lì proprio per spiegare la posizione della Santa Sede. Lo può fare solo chi è davvero consapevole del suo ruolo e della missione che sta servendo.
Navarro-Valls aveva un forte senso della Chiesa come istituzione, e questo non è scontato. Si racconta molto del rapporto diretto che el portavoz aveva con Giovanni Paolo II, del modo in cui sapeva bypassare anche i filtri ufficiali facendosi ricevere direttamente nell’appartamento pontificio. Ma Giovanni Paolo II gli dava fiducia perché sapeva che niente, per Navarro-Valls, era più importante dell’istituzione del Papato. Non più importante del Papa, ma dell’istituzione del Papato. Non era scontato, per un giornalista che si era formato fuori dal mondo vaticano. Ma era fondamentale.
Navarro-Valls era, inoltre, un uomo di cultura, raffinato, sicuro di sé. Conosceva le persone, e sapeva di chi fidarsi o di chi non fidarsi. Sapeva anche a chi affidarsi se voleva che un messaggio passasse in un modo, e come farlo. Aveva una furbizia particolare, che sapeva gestire con la stessa classe con cui fumava una sigaretta. E aveva anche un po’ di dono della teatralità, se è vero, come mi veniva raccontato, che “non si faceva mai vedere, non era mai presente, ma poi se parlava almeno una notizia te la dava”. C’è bisogno di questa dote anche oggi, in tempi in cui si pensa che tutto necessiti una comunicazione, anche a costo di ingigantire fatti che potrebbero essere ridimensionati.
Ma mi piace pensare che Navarro-Valls è diventato Navarro-Valls perché viveva in un tempo in cui il giornalismo era diverso, e gli stessi giornalisti che si occupavano di Vaticano erano diversi. Si viveva un cambio generazionale, cominciavano ad uscire dal vaticanismo attivo coloro che avevano fatto il Concilio Vaticano II e quelli che ancora prima erano stati nella prima Sala Stampa dell’Osservatore Romano.
I nuovi vaticanisti vivevano in un limbo. Da una parte, la necessità di studiare, essere al passo, comprendere la profondità, perché era questo che veniva richiesto. Dall’altra, trovarsi a raccontare un pontificato fortemente radicato nella tradizione, ma reso sempre più nuovo dal fatto che c’era un solo Papa, e nessuna transizione, e che è stato così per 27 anni. La continuità era il Papa stesso, mentre le nuove generazioni personalizzavano il messaggio di Giovanni Paolo II, spinti dalle circostanze, dalla fine della Guerra Fredda e dalla venuta di un nuovo giornalismo, fatto più di gossip e di ideologia che di notizie e di analisi, e appiattito da una mancanza di alternanza al potere della Chiesa.
Il lungo regno di San Giovanni Paolo II ha avuto anche questo limite, a un certo punto, di congelare il dibattito, mentre tutto il mondo fuori cristallizzava l’immagine del Papa polacco. E immagino che Navarro Valls abbia vissuto i suoi anni più duri proprio alla fine del pontificato, quando tutti si aspettavano una notizia, e la volevano succosa e pronta, poco disposti a comprendere ragioni di opportunità.
Nascono in questo periodo la storia dell’incontro (mai avvenuto) di Giovanni Paolo II con il premio Nobel guatemalteco Rigoberta Menchù, o anche la ricostruzione lampo dell’omicidio del comandante della Guardia Svizzera Alois Estermann, di sua moglie Gladys Meza Romero da parte del vicecaporale Cedric Tornay, che poi si suicidò, versione spesso contestata.
Ma è ingiusto ricordare Navarro-Valls solo per quelle vicende, che sono anche parte della necessità di una comunicazione di emergenza. A volte, c’è semplicemente bisogno di comunicare, di creare una narrativa, e Navarro-Valls lo aveva capito ben prima che il mondo dei social media e del giornalismo via internet facesse diventare la narrativa preponderante.
E forse Navarro-Valls oggi sarebbe un pompiere, più che un incendiario. Di fronte alle tante narrative che si giustappongono, sarebbe probabilmente colui che riporterebbe tutto ad una situazione più accettabile, invitando a non cercare significati laddove non ci sono, andando a diminuire l’impatto delle affermazioni ideologiche.
Perché Navarro-Valls ha vissuto in una epoca di guerra subdola contro la Chiesa, ma oggi si troverebbe a fare i conti con una guerra aperta in cui la controinformazione dei nemici della Chiesa ha stranamente preso nell’intimo anche gli uomini di Chiesa.
Forse Navarro-Valls oggi non potrebbe più essere el portavoz. Eppure, il fatto che un pezzo della Sala Stampa sia intitolato a lui ricorda, indirettamente, a tutti i vaticanisti che il giornalismo non deve essere ricerca dello scoop, ma servizio, analisi e racconto dei fatti. E magari ricorda anche alla comunicazione vaticana che, per quanto un Papa possa essere carismatico, l’immagine del Papa non è un prodotto da vendere, né le sue parole vanno mai assolutizzate e i suoi gesti riempiti di significati che non ci sono.
C’è il Papato, che va oltre il Papa. E c’è la Chiesa, che va al di là di ogni storia. Io non ho conosciuto Navarro-Valls, ma credo che direbbe proprio così.
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