Non lo so se c’è un paradiso per ogni vocazione che abbiamo, sia essa segreta o palese. Un posto dove noi possiamo andare quando siamo nell’altro mondo e vivere le nostre passioni fino in fondo. Ma se c’è un paradiso dei giornalisti, lì è dove in questo momento si trova Carmine Alboretti.
Carmine se ne è andato la notte del 22 maggio a 45 anni, in maniera improvvisa e allo stesso tempo discreta, come una notizia che si fa largo all’improvviso. E l’idea che non ci sia più, che non chiami ogni tanto per coinvolgermi nei suoi progetti, che non si faccia vivo quando passa da Roma, mi rende triste. Perché la sua presenza è qualcosa che davi per scontato, come dai per scontati gli amici.
Ho conosciuto Carmine nel 2012, quando era vicedirettore de La Discussione. Fummo presentati da un comune amico monsignore, che volle che lo incontrassi. Parlammo, prendemmo un caffè, diventammo amici. Cominciammo a sentirci, sempre più spesso.
La cosa che colpiva di Carmine era la passione per il mestiere, che univa a un grande pragmatismo. Non era un idealista, sapeva quando doveva tagliare un pezzo o quando un pezzo non funzionava. Ma sapeva anche andare oltre le imperfezioni dei pezzi, perché la cosa importante per lui era il quadro generale. Dava spazio alle persone, e ci teneva a farlo. Spesso guardava prima alle persone, e poi alle notizie.
Quando la Discussione ebbe le sue vicissitudini, e lui se ne trovò fuori con buona parte della sua redazione, mi colpì il suo straordinario impegno nel voler riprendere il giornale. Il giornale era la sua vita, i giornalisti i suoi compagni di viaggio. Il nome della Discussione era qualcosa cui si era dedicato, e ci credeva.
Poi fece varie collaborazioni, fondò La Voce Sociale, si ritrovò in mille progetti. Riusciva sempre a trovare un modo di rimettere in sesto le cose, senza mai scendere a compromessi, ma sapendo concretamente dove arrivare alle cose.
Non era uno sprovveduto. Aveva formazione giuridica, aveva fatto l’avvocato, continuava a studiare con passione. Credeva nell’impegno civile, che era un qualcosa che andava insieme al suo lavoro di giornalista. Le due cose non si potevano scindere. Era un cronista, nel senso più puro del termine. Non era un ideologo, ma un idealista. E proprio per questo sapeva vedere i limiti delle persone.
A volte gli rimproveravo la sua mentalità troppo pragmatica, specialmente quando parlava del lavoro. Ma lui era uno concreto, appunto, e forse, sì, con una mentalità antica, ma non di certo sbagliata. Aveva mille progetti, e ogni tanto mi coinvolgeva in qualcosa. Era divertente il modo in cui ti intervistava, che era poi uguale al modo in cui ti parlava.
Ricordarlo, oggi, un giorno dopo la sua scomparsa, mi fa riflettere anche sul modello di giornalismo che lui rappresentava. Si occupava di Vaticano per passione, con l’occhio del cronista che non aveva mai perso di vista la strada, che è la fonte di ogni notizia. Aveva, ovviamente, persone che gli erano più simpatiche di altre, idee cui si sentiva più vicino che ad altre. Ma si avvicinava a tutti senza pregiudizio. A volte con la malizia di poter raccogliere qualcosa, ma in generale con la curiosità di raccontare un qualcosa.
Non era arrivato al giornalismo spinto da altro ideale che fosse quello del giornalismo, ed è già questo un qualcosa che manca oggi. Il giornalismo è visto spesso come un modo di raccontare il proprio punto di vista, o la propria porzione di mondo, ma non come un modo di vivere. Ma lui, invece, viveva di giornalismo, e non voleva fare altro.
Parlava con tutti, ma non si lasciava influenzare da nessuno. A tutti dava l’appellativo di “maestro” – e mi fa sorridere in quanti stiano ricordando questo dopo la sua morte, perché significa che lo diceva davvero a tutti e che tutti lo sentivano come un qualcosa di reale.
Quando mi diceva “maestro”, io rispondevo che il vero maestro era lui. Perché ero sinceramente ammirato dal suo modo in cui era riuscito a tirarsi su in mezzo alle vicissitudini della vita, mantenendo una vocazione forte senza mai snaturarsi. Non era un assetato di carriera, e la carriera che aveva fatto la doveva solo alla sua professione.
Quello incarnato da Carmine era un giornalismo davvero puro, e per questo sottovalutato. Perché non esiste più un giornalismo puro, tutti puntano a dare opinioni, a raccontare punti di vista, ma non a fare cronaca. Una cronaca ben fatta, intendo, che sa anche arrivare all’analisi. Ma sempre cronaca.
E forse dovremmo recuperare un po’ di quel giornalismo puro, senza altra volontà che quella di fare giornalismo, di raccontare le storie, di conoscere e far conoscere i punti di vista.
Carmine era onesto nel dire da che parte stava: era cattolico, francescano, fan della dottrina sociale della Chiesa, juventino, e non nascondeva mai questo punto di vista. Però era discreto nel farlo, prendendosi anche con una sana autoironia. Tutti i giornalisti sono lì per avere la firma, e lui non era da meno. Ma non sgomitava, a differenza di molti. Semplicemente, lavorava.
C’è molto da imparare da quel suo giornalismo vecchio stile, che non è il giornalismo vaticano di una volta ma non è nemmeno il giornalismo di oggi, e che ha poco a che fare con le cronache strillate o ideologizzate che vanno tanto di moda. Andate a leggere le annate dei giornali del Dopoguerra, con le cronache asciutte e i retroscena nudi e crudi, e lì troverete Carmine.
Forse oggi Carmine sta pensando un giornale così, o forse lo sta ispirando a qualcuno. Non essendo malato di protagonismo, non ha lasciato dietro di sé una scuola. Ma ha lasciato molti amici, molta stima per il suo lavoro. E forse il senso dello shock di questa morte improvvisa deve essere, per tutti noi, di ascoltare davvero quello che Carmine aveva da dire. Perché forse non lo abbiamo ascoltato abbastanza, presi da molte altre cose.
Che la terra ti sia lieve, Carmine! E che ci sia per te un paradiso dei giornalisti da cui continuare a parlarci!
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