Mi veniva da pensare, in questo inizio dell’anno, alla comunicazione del Vangelo. Ma non nel senso del modo in cui Dio comunica. Proprio nel senso di ciò che c’è nel Vangelo e che spesso non teniamo in considerazione.
Tutto nasceva da una riflessione su Sant’Andrea. Sant’Andrea è il primo apostolo, ed è fratello di Simone, che sarà poi Pietro. Ma Andrea era anche qualcuno che era in cerca del Messia, e infatti era discepolo di Giovanni, prima che discepolo di Gesù. Ma Andrea era soprattutto un ebreo con un nome greco. Il che significava che la famiglia di Andrea e Simone non era una famiglia di poveri pescatori. Aveva una cultura, al punto da imporre al figlio un nome nella lingua franca dell’epoca, e cioè proprio il greco.
E allora Simone, direte voi? Pensateci bene. Simon Pietro aveva una industria di pesca.
Aveva una barca, era un piccolo imprenditore, ed era abbastanza benestante
da poter lasciare la famiglia per seguire Gesù senza preoccuparsi del suo
sostentamento.
Ne consegue che gli apostoli non erano una massa di
disperati, colpiti dal messaggio di Gesù. Erano colpiti dal messaggio di Gesù, ma avevano tutti una cultura, una
capacità di comprendere, una recettività alle parole di Gesù che non
potevano dipendere solo da una folgorazione, ma che dovevano nascere in
qualcosa di più profondo.
Tutto questo viene confermato dal modo in cui Gesù sceglie i discepoli, anche dopo la
sua morte. Perché è vero che i discepoli hanno bisogno dello Spirito Santo per
predicare, e dovrà arrivare Pentecoste, ma quello serve a scacciare la paura,
non a dire loro cosa testimoniare.
Solo che poi Gesù si
rende conto che non bastano buoni ebrei di media borghesia per portare il
Vangelo ovunque. Serve una persona che abbia le cosiddette “chiavi del
regno”, che unisca alle conoscenze filosofiche una solida cittadinanza romana
che funga da passaporto, ed è così che viene chiamato Saulo. E a fianco a Saulo
sarà chiamato Barnaba, da Cipro, uomo
pratico, chiamato a dare sostanza e aiuto alla missione.
Sono tutte cose che ci sono nel Vangelo, e che ci sono poi negli Atti degli Apostoli. Vanno solo lette,
e interpretate senza pregiudizio.
La verità è che siamo troppo affezionati ad una figura quasi
irreale di Gesù e degli apostoli. Vediamo
Gesù come un supereroe, con grandi antagonisti e comprimari che possono
prendere solo dalla sua forza. Gesù ha invece
chiamato a sé tutti potenziali protagonisti (e lo era persino Giuda, cui infatti viene affidata la cassa degli
apostoli), ha agito da leader, e il Vangelo, in fondo, lo racconta.
Questo ragionamento, però, può essere esteso a tutta la
Bibbia. Alla fine, ogni personaggio ha un senso ben preciso, ma, a leggere
attentamente, ci sorprendiamo a comprendere che, alla fine, Qohelet era un re, che Israele ha fatto
cadere Gerico grazie all’aiuto di prostitute che pure Giuditta fece qualcosa di
simile alla prostituzione con Oloferne, mentre Abramo accetto che la moglie
giacesse con il faraone. Ci rendiamo conto che Giuda non era così moralmente specchiato come potremmo pensare, e
che in fondo nemmeno lui si oppone troppo alla vendita del fratello Giuseppe.
Certo, tutto va contestualizzato e compreso secondo l’ottica
del tempo, ma non sto facendo qui una esegesi biblica. Dico solo che, alla fine, tutti siamo così presi dai nostri eroi che
siamo in grado di leggerne in positivo anche i difetti, o di leggere la
storia con il pregiudizio di ciò che vogliamo vedere, piuttosto che con quello
che realmente è.
La storia, in fondo,
è una cosa pratica, molto pratica, e tutto è umano, troppo umano.
Basterebbe considerare questo per capire che niente si può tingere di assoluto,
e che i difetti di questi personaggi storici li rendono più vicini a noi, le
loro ingiustizie e meschinità dicono che sono uomini come noi.
Da qui avevo cominciato a pensare al modo di operare di Dio,
che è cosa ancora diversa. Dio entra
nella storia, ma non irrompe nella storia. Accompagna l’uomo verso la
comprensione. Non si impone, ma si propone. Ci pensavo proprio riguardo all’antica questione di come interpretare i
fatti storici quando avvengono.
Ora, il punto è questo. Noi
giornalisti siamo spesso malati di scoop. Cerchiamo quello che viene
definito “il titolo”. Vogliamo creare una narrativa, e quello in cui entriamo
in competizione è un mercato di narrative. Ognuno dà una particolare
prospettiva, e il lettore sceglierà quella che trova più vicina alla sua
sensibilità.
Nascono, così, i grandi miti di oggi, che non sono miti, ma
sono piuttosto credenze, copie sbiadite di quello che è un mito. Noi interpretiamo i fatti sulla base di
quello che crediamo sia un evento, e sulla base di una idea che abbiamo delle
persone. Poche volte, però, siamo in grado di vedere la realtà scarnificata,
che significa scevra da pregiudizi, siano essi positivi o negativi.
Come nel Vangelo o
nella Bibbia, tutto alla fine è scritto. Se uno legge con attenzione le pieghe
della storia, se guarda agli uomini sulla base di quello che sono e se si decide a non dividere necessariamente gli
uomini in eroi e anti-eroi, allora si vede che la realtà, in molti casi, è
più banale, più semplice e più reale di quella che ci costruiamo. Tutto appare
incredibilmente ragionevole.
Credo che nel caso del Vangelo, sia così apposta. Gesù rende tutto molto ragionevole, molto concreto, perché tutti
sappiano che il Vangelo è cosa viva e vera. Gesù sceglie uomini veri, con tute
le loro debolezze, ma sceglie leader, persone che hanno una loro cultura o una
precisa ricerca. Gli apostoli sono 12, coloro che lo ascoltano sono centinaia,
migliaia. Ma alle centinaia e migliaia
dà i pani e i pesci e parla in parabole, agli apostoli spiega le parabole e
annuncia che saranno perseguitati per causa sua, saranno perseguitati
perché saranno testimoni della verità.
Ed è quello che accade oggi, in fondo. Chi dice la verità è
perseguitato, perché la verità va oltre le narrative, ma racconta un mondo
diverso, più pratico, concreto e per questo considerato irreale. Non solo. Quando la verità diventa qualcosa che ormai
non si può negare, non si accetta la verità, ma si crea una narrativa per
dire che si è sempre avuto ragione, nonostante la narrativa distorta.
Pensiamoci bene: la neolingua
di cui parlava Orwell in 1984 è possibile solo perché noi creiamo un sacco di
piccole neolingue per dire che abbiamo sempre avuto ragione anche quando
avevamo torto. Lo facciamo in piccolo. Lo facciamo in grande.
Alla fine, il Vangelo
è davvero una opera di salvezza se solo lo sappiamo leggere. Ci racconta degli
uomini, ci racconta di Dio e alla lunga non si presta nemmeno troppo alle
letture ideologiche. Perché tutto il Vangelo va letto fuori da una
ideologia. Il Vangelo non parla solo dei poveri, il Vangelo non attacca solo i
ricchi. Il Vangelo mette a nudo i nostri egoismi e le nostre autoreferenzialità
perché Gesù faceva così. E tutto il resto è un po’ sovrainterpretazione. È il grande limite umano, interpretare troppo
per guardare la realtà da un solo punto di vista.
E poi invece ci si trova di fronte ai Magi. Che osservano la stella e si mettono in
viaggio, senza troppi fronzoli. Che adorano il Bambino perché è Dio, non
perché vedono in quel bambino una ideologia. Anche i magi erano persone colte,
sapevano leggere i segni, secondo alcuni erano persino re.
Alla fine, tutto mi
porta a pensare una cosa: che noi leggiamo il Vangelo molto dal punto di vista
sociale, ma che in fondo lo stesso Gesù ha poi detto che “i poveri li abbiamo
sempre con noi”. E che si deve guardare alle cose importanti. E che per
guardare alla cose importanti si deve, perlomeno, avere un minimo di cultura,
si deve studiare, si deve capire. Altrimenti, siamo tutti persone con
pregiudizi.
Questa è la mia riflessione di inizio anno, che mi sembra indicata anche per il modello
di giornalismo che penso dobbiamo cercare, specialmente nell’informazione
religiosa: un giornalismo colto, scevro da pregiudizi, che vada al di là
delle simpatie umane, e che guardi la realtà da un punto di vista diverso,
altro e più ampio.
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