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giovedì 6 gennaio 2022

Vangelo, Bibbia e comunicazione


Mi veniva da pensare, in questo inizio dell’anno, alla comunicazione del Vangelo. Ma non nel senso del modo in cui Dio comunica. Proprio nel senso di ciò che c’è nel Vangelo e che spesso non teniamo in considerazione.

Tutto nasceva da una riflessione su Sant’Andrea. Sant’Andrea è il primo apostolo, ed è fratello di Simone, che sarà poi Pietro. Ma Andrea era anche qualcuno che era in cerca del Messia, e infatti era discepolo di Giovanni, prima che discepolo di Gesù. Ma Andrea era soprattutto un ebreo con un nome greco. Il che significava che la famiglia di Andrea e Simone non era una famiglia di poveri pescatori. Aveva una cultura, al punto da imporre al figlio un nome nella lingua franca dell’epoca, e cioè proprio il greco.

E allora Simone, direte voi? Pensateci bene. Simon Pietro aveva una industria di pesca. Aveva una barca, era un piccolo imprenditore, ed era abbastanza benestante da poter lasciare la famiglia per seguire Gesù senza preoccuparsi del suo sostentamento.

Ne consegue che gli apostoli non erano una massa di disperati, colpiti dal messaggio di Gesù. Erano colpiti dal messaggio di Gesù, ma avevano tutti una cultura, una capacità di comprendere, una recettività alle parole di Gesù che non potevano dipendere solo da una folgorazione, ma che dovevano nascere in qualcosa di più profondo.

Tutto questo viene confermato dal modo in cui Gesù sceglie i discepoli, anche dopo la sua morte. Perché è vero che i discepoli hanno bisogno dello Spirito Santo per predicare, e dovrà arrivare Pentecoste, ma quello serve a scacciare la paura, non a dire loro cosa testimoniare.

Solo che poi Gesù si rende conto che non bastano buoni ebrei di media borghesia per portare il Vangelo ovunque. Serve una persona che abbia le cosiddette “chiavi del regno”, che unisca alle conoscenze filosofiche una solida cittadinanza romana che funga da passaporto, ed è così che viene chiamato Saulo. E a fianco a Saulo sarà chiamato Barnaba, da Cipro, uomo pratico, chiamato a dare sostanza e aiuto alla missione.

Sono tutte cose che ci sono nel Vangelo, e che ci sono poi negli Atti degli Apostoli. Vanno solo lette, e interpretate senza pregiudizio.

La verità è che siamo troppo affezionati ad una figura quasi irreale di Gesù e degli apostoli. Vediamo Gesù come un supereroe, con grandi antagonisti e comprimari che possono prendere solo dalla sua forza. Gesù ha invece chiamato a sé tutti potenziali protagonisti (e lo era persino Giuda, cui infatti viene affidata la cassa degli apostoli), ha agito da leader, e il Vangelo, in fondo, lo racconta.

Questo ragionamento, però, può essere esteso a tutta la Bibbia. Alla fine, ogni personaggio ha un senso ben preciso, ma, a leggere attentamente, ci sorprendiamo a comprendere che, alla fine, Qohelet era un re, che Israele ha fatto cadere Gerico grazie all’aiuto di prostitute che pure Giuditta fece qualcosa di simile alla prostituzione con Oloferne, mentre Abramo accetto che la moglie giacesse con il faraone. Ci rendiamo conto che Giuda non era così moralmente specchiato come potremmo pensare, e che in fondo nemmeno lui si oppone troppo alla vendita del fratello Giuseppe.

Certo, tutto va contestualizzato e compreso secondo l’ottica del tempo, ma non sto facendo qui una esegesi biblica. Dico solo che, alla fine, tutti siamo così presi dai nostri eroi che siamo in grado di leggerne in positivo anche i difetti, o di leggere la storia con il pregiudizio di ciò che vogliamo vedere, piuttosto che con quello che realmente è.

La storia, in fondo, è una cosa pratica, molto pratica, e tutto è umano, troppo umano. Basterebbe considerare questo per capire che niente si può tingere di assoluto, e che i difetti di questi personaggi storici li rendono più vicini a noi, le loro ingiustizie e meschinità dicono che sono uomini come noi.

Da qui avevo cominciato a pensare al modo di operare di Dio, che è cosa ancora diversa. Dio entra nella storia, ma non irrompe nella storia. Accompagna l’uomo verso la comprensione. Non si impone, ma si propone. Ci pensavo proprio riguardo all’antica questione di come interpretare i fatti storici quando avvengono.

Ora, il punto è questo. Noi giornalisti siamo spesso malati di scoop. Cerchiamo quello che viene definito “il titolo”. Vogliamo creare una narrativa, e quello in cui entriamo in competizione è un mercato di narrative. Ognuno dà una particolare prospettiva, e il lettore sceglierà quella che trova più vicina alla sua sensibilità.

Nascono, così, i grandi miti di oggi, che non sono miti, ma sono piuttosto credenze, copie sbiadite di quello che è un mito. Noi interpretiamo i fatti sulla base di quello che crediamo sia un evento, e sulla base di una idea che abbiamo delle persone. Poche volte, però, siamo in grado di vedere la realtà scarnificata, che significa scevra da pregiudizi, siano essi positivi o negativi.

Come nel Vangelo o nella Bibbia, tutto alla fine è scritto. Se uno legge con attenzione le pieghe della storia, se guarda agli uomini sulla base di quello che sono e se si decide a non dividere necessariamente gli uomini in eroi e anti-eroi, allora si vede che la realtà, in molti casi, è più banale, più semplice e più reale di quella che ci costruiamo. Tutto appare incredibilmente ragionevole.

Credo che nel caso del Vangelo, sia  così apposta. Gesù rende tutto molto ragionevole, molto concreto, perché tutti sappiano che il Vangelo è cosa viva e vera. Gesù sceglie uomini veri, con tute le loro debolezze, ma sceglie leader, persone che hanno una loro cultura o una precisa ricerca. Gli apostoli sono 12, coloro che lo ascoltano sono centinaia, migliaia. Ma alle centinaia e migliaia dà i pani e i pesci e parla in parabole, agli apostoli spiega le parabole e annuncia che saranno perseguitati per causa sua, saranno perseguitati perché saranno testimoni della verità.

Ed è quello che accade oggi, in fondo. Chi dice la verità è perseguitato, perché la verità va oltre le narrative, ma racconta un mondo diverso, più pratico, concreto e per questo considerato irreale. Non solo. Quando la verità diventa qualcosa che ormai non si può negare, non si accetta la verità, ma si crea una narrativa per dire che si è sempre avuto ragione, nonostante la narrativa distorta.

Pensiamoci bene: la neolingua di cui parlava Orwell in 1984 è possibile solo perché noi creiamo un sacco di piccole neolingue per dire che abbiamo sempre avuto ragione anche quando avevamo torto. Lo facciamo in piccolo. Lo facciamo in grande.

Alla fine, il Vangelo è davvero una opera di salvezza se solo lo sappiamo leggere. Ci racconta degli uomini, ci racconta di Dio e alla lunga non si presta nemmeno troppo alle letture ideologiche. Perché tutto il Vangelo va letto fuori da una ideologia. Il Vangelo non parla solo dei poveri, il Vangelo non attacca solo i ricchi. Il Vangelo mette a nudo i nostri egoismi e le nostre autoreferenzialità perché Gesù faceva così. E tutto il resto è un po’ sovrainterpretazione. È il grande limite umano, interpretare troppo per guardare la realtà da un solo punto di vista.

E poi invece ci si trova di fronte ai Magi. Che osservano la stella e si mettono in viaggio, senza troppi fronzoli. Che adorano il Bambino perché è Dio, non perché vedono in quel bambino una ideologia. Anche i magi erano persone colte, sapevano leggere i segni, secondo alcuni erano persino re.

Alla fine, tutto mi porta a pensare una cosa: che noi leggiamo il Vangelo molto dal punto di vista sociale, ma che in fondo lo stesso Gesù ha poi detto che “i poveri li abbiamo sempre con noi”. E che si deve guardare alle cose importanti. E che per guardare alla cose importanti si deve, perlomeno, avere un minimo di cultura, si deve studiare, si deve capire. Altrimenti, siamo tutti persone con pregiudizi.

Questa è la mia riflessione di inizio anno, che mi sembra indicata anche per il modello di giornalismo che penso dobbiamo cercare, specialmente nell’informazione religiosa: un giornalismo colto, scevro da pregiudizi, che vada al di là delle simpatie umane, e che guardi la realtà da un punto di vista diverso, altro e più ampio.

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